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tazione nervosa; tanto è vero che l’uso dei deprimenti come i bromuri, calmava come per incanto le mie sofferenze. Ma che fosse esaurimento credevano in buona fede e andavano spargendo tra il loro pubblico molti amici ai quali in fondo in fondo non credo che dispiacesse troppo la mia malattia. Una scrittrice esaurita non scrive più; e una concorrenza di meno ha sempre un certo valore nel mercato giornalistico e librario.

Quando mi venne all’orecchio la nuova malignità, prese il sopravvento al male il mio carattere naturalmente sdegnoso; le sofferenze, sotto la suggestione del risentimento, sparvero come per incanto: mi parve che nel cervello corresse un’onda di linfa e di vita nuova e fu allora che dalla penna mi sgorgarono «Gli amici di Giobbe» una delle pagine, più amare, più sentite e più vissute che io abbia mai scritto1.


  1. La riporto qui, per intero, anche per mostrare a qualcuno de’ giovani che mi leggerà, come tutto sia utile all’artista; anche un senso di sdegno e una fiera ribellione dello spirito.
    La bellezza ha spesso bisogno del dolore. Non dico che questa pagina sia bella; ad ogni modo è vibrante.

    N. D. A.

    Gli amici di Giobbe.

    Le arpe d’oro dei serafini sospesero improvvisamente i loro gemiti melodiosi, i cantici del Salmista tacquero e fra il roseo sciame degli angioli passò un vento sinistro che recò all’aure profumate del cielo un acre odore di zolfo. Quasi subito alcune nubi nere oscurarono rapidamente gli eterni fulgori, e una severa figura bruna, alta, triste, sorse ai piedi del Signore. Questi la contemplò per qualche minuto in silenzio e quindi la richiese:
    — Di dove vieni, Satana?