La mia vita, ricordi autobiografici/XXX

Capitolo XXX. L’Esposizione Beatrice

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XXIX XXXI
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XXX.

L’esposizione Beatrice.

(1890).

Intitolo così questo capitolo perchè a quel fatto si ricollegano molti dei lieti avvenimenti che compensarono almeno in parte i dolori degli anni precedenti.

Nel gennaio del 1890 il ministro Boselli mi incaricò di ispezionare le scuole di tutta la provincia di Arezzo. Partii subito e stetti fuori circa un mese, certo non divertendomi troppo, ma facendo ampia mêsse di osservazioni pedagogiche. Ritornando a Firenze mi colse in viaggio una forma acuta di influenza, che si trasformò subito in bronchite capillare. Mi avevano forse nociuto lo strapazzo della gita, e l’adempimento dei molteplici doveri che esigeva la mia nuova qualità di ispettrice. Quando fui guarita, giurai a me stessa — quantunque fossi riconoscentissima all’ottimo ministro Boselli — che non avrei più accettati simili incarichi, poco conciliabili con la mia delicatissima salute, e mi rimisi allegramente al tavolino.

Proprio in quell’anno, al mio buon amico conte Angelo de Gubernatis venne l’idea di solennizzare il sesto centenario della morte di Beatrice Portinari, promuovendo un’esposizione di lavori femminili che appunto da Beatrice doveva prendere il nome e l’augurio.

Fino dall’anno prima la signora Carlotta Ferrari, di Lodi, aveva pensato a questo centenario, e in una [p. 242 modifica] lettera circolare un po’ gonfia e pomposa aveva invitato tutte le donne italiane a fare onore alla gentile ispiratrice di Dante, scrivendo un libro che fosse interamente dedicato alla sua memoria.

Quando fui bene informata della cosa, io non riuscii a manifestare il mio scontento per quella rievocazione inutile di una gloria che a me pareva in qualche modo scroccata, per quella ricostruzione morale di una donna la cui personalità era stata soltanto avvivata dall’amore e dal genio Dantesco, per quella nulla e insignificante creatura diventata simbolo di bellezza e di bontà soltanto nell’animo di un poeta, e protestai subito contro il centenario, in un focoso articolo che mi dette anche l’occasione di canzonare, secondo il mio solito, la stupefacente prosa della signora Carlotta Ferrari da Lodi1 [p. 243 modifica]

Ma prosa o non prosa, l’originalità dell’idea non può attribuirsi ad altri; ed anche il De Gubernatis — anima lealissima ed onestissima — me lo scrisse nel marzo del 90 dicendomi nella sua lettera: «Ho visto anch’io il proclama del centenario. Me lo manda non la signora Carlotta Ferrari, ma da Milano la signora Felicita Tozzoli la quale da due mesi in qua, rivendica a sè la gloria [p. 244 modifica] del centenario. Io cedo volentieri a chi lo vuole il brevetto d’invenzione; di mio non c’è che l’Esposizione con le gare di donne, e qualche piccola frangia per rendere più decenti, più eleganti, più squisite le feste per Beatrice, un nome che conviene a tutte le donne buone, a tutte le donne gentili, a tutte le donne che hanno negli occhi e nella parola qualche scintilla divina». [p. 245 modifica]

Si può dire dunque che il De Gubernatis raccogliesse l’idea, la modernizzasse, la rendesse pratica. Non bastò al suo sogno la sterile e fredda contemplazione di una ispiratrice; ma di quel nome reso glorioso egli si valse come di una leva potente, come di una scintilla sacra. Nel nome di Beatrice si imperniò tutto il movimento artistico delle donne d’Italia. [p. 246 modifica]

Se una simile idea fosse venuta a un inglese o a un americano, gli aiuti, le lodi, gli incoraggiamenti sarebbero fioccati da tutte le parti... e con gli incoraggiamenti fior di quattrini. Invece il De Gubernatis dovè di tasca propria pagar sempre, e di tasca propria rimetterci, come vedremo, moltissime migliaia di lire. Ma l’impresa poteva fallire come speculazione e trovar favore come idea. Invece è incredibile con quanto accanimento, con quanto dispetto, con quanto rancore, con quanto basso spirito di malvagità si osteggiasse l’opera del generoso De Gubernatis, tanto italiano di sentimento e di cuore, e così poco per la tenacia e per la volontà! Non gli si risparmiò nulla; nè accuse, nè insinuazioni, nè biasimi, nè malignità, nè sarcasmo. E le canzonature e le satire venivan proprio da chi egli era più amico o si vantava d’esserlo. Ma il De Gubernatis non si scuoteva [p. 247 modifica] e tirava innanzi. «Scusate la fretta — egli mi scriveva il 18 aprile 1890 — ma l’opera che si compie come per incanto è al disopra delle forze di un uomo solo ed io non respiro più. Ma ho misurato bene in questa occasione ciò che può la volontà di un uomo solo che pensi alto e abbia il cuore caldo. Far uscire dall’influenza tutto questo bel movimento di donne, non era cosa agevole. Perseverare, a traverso difficoltà spaventose, e arrivare in porto sano e salvo, senza aver dato noia a nessuno, non era impresa da ridere».

Nel politeama fiorentino, tutto addobbato nello stile del trecento e pittorescamente trasformato si inaugurò il 1° maggio l’esposizione Beatrice2 E nei primi quindici o venti giorni il pubblico accorse in gran numero, e apprezzò sinceramente la bellezza [p. 248 modifica] dell’esposizioue e gli sforzi generosi del De Gubernatis. Poi sulla natural curiosità trionfò la tradizionale apatia dei fiorentini e il loro amaro scetticismo per cui d’ogni cosa bella essi sono fatalmente trascinati a cogliere il lato manchevole o ridicolo.

Io scrivevo, il 4 maggio 1890: «Parliamo della esposizione, di questo glorioso avvenimento dovuto all’intelletto gentile e al forte volere di Angelo De Gubernatis. Ecco un uomo dinanzi al quale piego il capo [p. 249 modifica] volentieri, fiera della mia stessa umiltà! Ecco un carattere a cui la ormai celebre apatìa fiorentina deve render giustizia!

Dopo esser passato, sereno, incrollabile, in mezzo a un insistente, maligno, quasi spudorato incalzarsi di canzonature, d’ironie e di pettegolezzi, è giunto al giorno solenne e ha potuto dire alla folla enorme che si accalcava giovedì alle porte dell’esposizione: — Entrate, io ho attenuta la mia promessa: l’ho attenuta con la mia energia, con i miei denari, col mio amore. Da me all’ultimo operaio non ci siamo mai persi di coraggio, non abbiamo avuto un solo momento di incertezza ed abbiamo vinto.

Egli ha vinto. E cantano la vittoria dell’illustre uomo i tesori d’arte, di pazienza e di gentilezza profusi nell’immenso anfiteatro, leggiermente trasformato nella Firenze medioevale; in quella Firenze poetica che a poco a poco va scomparendo; che non vivrà ormai se non nelle vecchie pitture e ne’ sogni de’ poeti. Loggie merlate, severi palagi, strade tortuose, balconi ornati di tappeti multicolori, il Battistero vetusto sul conto del quale si moltiplicarono tante e disparate notizie d’eruditi, tutto ci dà l’illusione di quei forti tempi ne’ quali si mandavano a compimento opere immortali. E a render più viva questa illusione concorre la fila circolare dei palchi trasformati in antiche botteghe fiorentine, dove belle e gentili fanciulle vendono dolci, ceramiche, miniature, oggettini di toelette, bambole, trine ed altre cose graziose».

Ma l’esposizione Beatrice che era costata tanti sforzi di volontà e tanto sacrifizio di denari al conte De Gubernatis, doveva completamente fallire. Ai [p. 250 modifica]trattenimenti, ai concerti accorse pochissima gente; la sala delle conferenze rimase spesso pressochè deserta. L’ultima fu la mia.

Ricordo con viva commozione quel giorno. Il mio breve discorso sulle «maestre e le educatrici»3 era stato pensato e scritto in sette ore, nè occupava per estensione più di un foglio di stampa in sedicesimo. [p. 251 modifica] Quantunque non mi mancasse la fiducia nelle idee che sostenevo e avessi dato al mio lavoro una forma garbata e accuratissima non avrei mai creduto che la breve conferenza potesse ottenere un successo così strepitoso.. Il pubblico era accorso così numeroso che fu [p. 252 modifica] assolutamente impossibile farlo entrare nella solita sala in cui si tenevano le conferenze. Il Conte De Gubernatis, tutto festoso, venne a dirmelo e aggiunse che il pubblico era stato fatto entrare nel Politeama e che io avrei dovuto parlare dal palco scenico. Il Politeama [p. 253 modifica] fiorentino è uno dei teatri più grandi d’Italia; pure in pochi minuti si empì. Fortunatamente sono miope, e il non vedere distintamente il mio pubblico, valse a rinfrancarmi.

Cominciai a parlare e la mia voce sonora e penetrantissima (somiglia un po’ quella di Gabriele d’Annunzio, se non che la mia ha inflessioni più morbide e [p. 254 modifica] meno acute) attirò subito l’attenzione del pubblico che applaudì freneticamente mentre parlavo e quando ebbi finito di parlare, con troppa più bontà di quella ch’io forse mi meritavo. La conferenza non durò più di venticinque minuti.

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Appena ebbi pronunciate le ultime parole, il vastissimo palcoscenico fu invaso da amici, maestre, scolare mie, alcune degli istituti fiorentini. E tutti mi dissero tenerissime e calde parole di lode che mi commossero, che mi fecero per un momento solo dimenticare i lunghi dolori e le lunghe amarezze della mia povera [p. 256 modifica]vita. Tra la folla giunse a farsi strada il conte De Gubernatis. Egli tremava e aveva gli occhi pieni di lacrime. Mi presentò un graziosissimo mazzo di fiori artificiali sul cui nastro stava scritta in lettere d’oro la [p. 257 modifica]soave frase dantesca: A voi donne che avete intelletto d’amore.

Il consiglio incaricato di giudicare il merito delle conferenze (ne facevan parte, con altri, Augusto Conti, A. V. Vecchi, Giuseppe Rigutini, Aurelio Gotti) stimò inutile l’adunarsi, come le altre volte, in seduta [p. 258 modifica] segreta e a tamburo battente sentenziò che la mia conferenza, essendo la migliore di tutte, meritava il premio. Ebbi dunque la grossa medaglia d’oro assegnata dal Ministero della Pubblica Istruzione alla vincitrice e le trecento lire, premio del Comitato. Io volli in qualche modo testimoniare all’egregio conte De Gubernatis la gratitudine non mia personale (come gli inevitabili

[p. 259 modifica] maligni dissero e sparsero per stupida insinuazione) ma di tutte le donne d’Italia per il loro cavaliere, e gli offrii un modesto banchetto da Capitani a cui convennero moltissimi amici miei e del De Gubernatis. Ma al solito non mancò chi disse che avevo voluto pagare la vittoria, la medaglia, e magari le trecento lire del comitato. Se non avessi fatto nulla è indubitato che mi avrebbero gridato la croce addosso, tacciandomi di sconoscente e d’ingrata. La solita immortale favola di Lafontaine, che durerà quanto il mondo e magari più là!

Proprio in quell’anno, e più specialmente nell’occasione delle feste Beatriciane, strinsi vincoli di affettuosa amicizia con una bionda e soave signora che della [p. 260 modifica] bontà conosce tutte le elevazioni e della gentilezza tutti i segreti: Sofia Jacometti Ciofi. Me la ricordo ancora, quasi interamente nascosta dietro uno dei grandi arbusti verdi che ornavano il palcoscenico del Politeama. Poche ore prima della conferenza mi aveva mandato in dono un grazioso gioiello, scrivendomi presso a poco così: «Vorrei mentr’ella parla, tenerla per la mano; e la mia stretta le direbbe tante cose; ma siccome questo non è possibile, così affido l’incarico a questo braccialettino d’oro, che vorrà in quell’ora stringerle il polso».

O deliziosa figurina settecentistica, bionda signora che dei tempi scomparsi fai rivivere la bellezza e la cortesia, quante dolci ore, dopo quell’anno, ho trascorso con te!

Di lì a pochi mesi il Ministero della pubblica istruzione mi inviava il doppio diploma di lettere italiane e di pedagogia per l’abilitazione all’insegnamento di queste due discipline nelle scuole secondarie; ma come il Giusti (salvando la debita differenza) non adoperò mai la sua laurea in pergamena e del suo titolo accademico non menò vanto, così anche l’umile autrice di questo libro richiuse i due diplomi in una cassetta e li lasciò stare. E siccome l’abitudine — lo sanno ormai anche i famosissimi boccali di Montelupo — è una seconda natura, e non si rinunzia così facilmente alle emozioni e alle lotte del giornalismo, così non volli accettare nemmeno un altro onorifico incarico: la direzione delle Scuole Normali di Savona, che mi venne [p. 261 modifica] offerta con una lettera lusinghierissima da quel municipio e preferii alla comodità di una vita sicura la fatica del compor testi scolastici, e di scriver articoli per la mia Cordelia, con grande serenità d’animo e con rinnovellata energia!

Poche gioie mi erano bastate: ma siccome il dormir sugli allori non mi è mai piaciuto, e le compiacenze dello spirito non attenuano per nulla le attività del mio ingegno, così dopo una breve sosta mi rituffai nel mare magno del giornalismo, dell’arte, e ahimè! della pedagogìa!




Note

  1. Riporto qui l’articolo, un po’ troppo birichino e sarcastico forse, ma certo sincero, e per molti lati (almeno per quello che sembra a me) giusto.

    Illustrissima signora Direttrice della Cordelia.
    Una signora di merito come Lei, ha il diritto di aspettarsi corrispondenze dalle regioni più lontane, nè può quindi meravigliarsi se una Cinese, un’Australiana, una Ottentotta o un abitante dell’ultima Lapponia le fanno sapere per mezzo della posta, del telegrafo o dei piccioni viaggiatori che l’hanno carissima e la tengono in gran conto.
    Ma dica la verità, cara Direttrice, una lettera dal Paradiso Lei non se l’aspettava, — nè io — guardi come sono schietta — avrei mai pensato a scrivergliela, se proprio non mi ci avessero, come suol dirsi, tirata pei capelli. Veda e giudichi. Ma che dico? Prima di vedere e di giudicare è necessario che Ella faccia meco un viaggetto all’indietro in mezzo a quel labirinto di bugie, di iperbole e di bricconate che lor signori chiamano Storia. Fortuna che alcuni eruditi hanno inventato la critica storica, a base di demolizione! Così almeno, con l’andar del tempo, nessun postero crederà agli antenati e sarà finita la commedia dei centenari e dei morti rimessi a nuovo. Ma torniamo a bomba, cioè al nostro viaggetto all'indietro. Verso il 1285 io era una bella giovane in tutto il significato più artistico della parola. Gli ammiratori, come può credere, non mi mancavano. Mi seguivano in S. Giovanni, lungo le vie cittadine, e perfino sui Marmi, verso l’imbrunire, quando messer Manetto mio padre, mi conduceva a prendere una boccata d’aria. Certa sera, mentre con le mie amiche stavo chiacchierando di cortesie e di fatti d’arme, mi venne presentato un giovane piuttosto alto della persona, con naso aquilino, di carnato olivastro e con grandi occhi neri passionati. Era messer Dante Alighieri, eccellente poeta e assai leggiadro parlatore. Giovanettino ancora, s’era innamorato della Beatrice di messer Folco Portinari, che non rispose troppo caldamente a quell’affetto, sì che s’era disposata a un Simone dei Bardi, assai brav’uomo e ben provvisto. Ella però non sembrava fatta per nozze terrene, tanto appariva delicata e gracilina; difatti poco dopo il maritaggio se ne morì, lasciando in gran dolore i suoi e — più che i suoi — il giovane Alighieri che non si sapeva dar pace di quella dipartita. Nè è da supporsi che egli avesse intrattenuti colpevoli rapporti con Beatrice che onestissima donna ell’era e — come poc’anzi ho avvertito — niente affatto innamorata. Il suo stesso matrimonio lo prova; matrimonio conchiuso con pienissimo accordo delle due parti e benedetto da tutto il parentado.
    Dopo quella morte. Dante s’era dato a una vita talmente chiusa e malinconica che gli amici tra i quali mi piace ricordare messer Guido Cavalcanti, andarono più volte a lui, esortandolo a prendersi qualche onesto svago e — finalmente — a cercare negli affetti di una nuova famiglia quella pace che la sua donna aveagli tolto partendo. E lo consigliarono ad ammogliarsi. — Perchè — gli dissero — non toglieresti tu in donna la Gemma di esser Manetto Doniti? A lei ridono gioventù e grazia: lei, fra le donzelle fiorentine, fanno chiara la gentilezza del sangue e la copia degli agi. Dove e come potresti tu fare scelta migliore?
    A Dante non spiacque l’idea di questi sponsali e si lasciò con assai buona grazia presentare a me. Io poi, fiera di quei suoi sguardi amorosi e del saluto con che volle onorarmi, mi sentii subito disposta a volergli bene — a consolarlo — a fargli dimenticare in breve tempo la perduta fanciulla.

    Ora comincian le dolenti note cara Direttrice. Mio marito non fu nella vita intima quello che forse si figurano i suoi ammiratori. Distratto sempre dalla mattina alla sera, non curava me, nè la casa, nè i quattro figliuoli che io gli avevo regalato uno dietro l’altro. La vita pubblica lo assorbiva tutto e nelle poche ore che gli lasciavan libere il priorato, i Guelfi e il diavolo che se li porti, pensava sempre a lei, a Beatrice, s’immagini con quanta mia soddisfazione! E col nome di Beatrice volle perfino battezzare una nostra figlioletta, quantunque io avessi deliberato di chiamarla Nella. Ma con Dante non si ragionava. Voleva quel che voleva e basta. Non le descrivo la mia vita, specialmente dopo l’esilio. Se lo figura, Lei, il carattere di quest’uomo invelenito, straziato nelle sue più alte aspirazioni di cittadino e di poeta? S’immagina Lei di quale amore doveva essere, quando veniva a mangiare un boccone, subito dopo aver descritto i supplizi dei dannati?
    Che sfuriate, che urli, e — il ciel mi perdoni — che apostrofi in latino e nel dolce stil novo! Ora se la rifaceva con me, ora coi ragazzi, che, poverini, erano più buoni del pan fresco. Ma nonostante, guardi, io sopportavo tutto in pace. Sentivo d’esser la moglie, la compagna di un intelletto sovrano e questo pensiero mi sorreggeva, mi metteva l'ali alle spalle. Quel che non gli sapevo perdonare era quell'eterno culto a Beatrice. Metterla perfino nella Divina Commedia! Servirsi di lei per andare in Paradiso! Era troppo, via! Non si tratta così una povera moglie...
    Ma gli anni passarono e purtroppo il mio poeta morì, consunto dai dolori e dalla nostalgia del suo bel San Giovanni. Io gli tenni dietro poco dopo.

    Da seicento anni a questa parte, io non ho che da lodarmi del Signore, che mi ricongiunse per sempre al mio Dante e ai nostri figli. Beatrice Portinari esulta molto lontano da noi, col suo caro sposo e col babbo. Quindi nessuna ragione di gelosia. Già Dante è diventato tatt’altr’uomo.
    Ma si vede che neanche in paradiso, alla lunga si può gustare una compierà felicità. Alcuni giornalisti venuti qua di recente mi hanno assicurato che una tal Carlotta Ferrari da Lodi fa fuoco e fiamma affinchè costì in Firenze si celebri il centenario di questa fatalissima Beatrice. Ah, sciagurata lodigiana! Perchè non pensare di farlo a me, il centenario, a me che fui moglie paziente di Dante Alighieri e madre dei figli suoi? Possibile che mi si voglia contristare perfino in cielo? — Ma la Portinari fu l’ispiratrice di Dante! — Eccola la gran parola! Eccolo il gran merito di una ragazza apatica, che non seppe amai tanto, da preferire un Dante a un Simone! O perchè allora — giacchè siamo in vena di onorare le ispiratrici dei poeti — non si celebra il centenario di tutto le serve, di tutte le affittacamere, di tutte le tessitrici, di tutte le figlie dei fiaccherai che si son fatte adorare dai Leopardi, dai Foscoli, dai Niccolini, dai Pellico e dai Guerrazzi? E dica un po’, signora Carlotta, ci vuol proprio un grande acume per capire che i pregi, le gentilezze e lo nebulosità delle donne cantate è tutta roba che vive solamente nella fantasia dei cantatori? Ah, signora Direttrice! Cerchi lei di scongiurar questo guaio, e se proprio la cosa dovrà effettuarsi, pensi ad iniziare un centenario anche per me. Dante glie ne sarà gratissimo.
    Accolga intanto i miei ringraziamenti più affettuosi e mi creda

    Obbligatissima sua
    Gemma Donati negli Alighieri.


  2. Eccone il programma:

    Esposizione Beatrice.

    Prima mostra nazionale di lavori femminili in Firenze.
    Col primo maggio prossimo nei vasti locali del Regio Politeama nel Corso Vittorio Emanuele di Firenze sarà aperta una grande esposizione di lavori femminili, alla quale concorreranno tutte le donne italiane. L’esposizione durerà fino a tutto il 30 giugno.
    Il Comitato esecutivo, assistito da un Comitato di patronesse fiorentine e da Comitati di patronesse costituiti nelle principali città d’Italia avrà cura perchè tutte le industrie e tutte le arti nelle quali la donna italiana ha parte si trovino rappresentate alla Mostra nella quale per la prima volta il lavoro della donna italiana potrà rivelarsi in modo distinto.
    Una serie di gare femminili letterarie, drammatiche e musicali per mezzo di conferenze, rappresentazioni sceniche e concerti nell’Esposizione stessa, renderà più completa questa rivelazione dell’ingegno femminile italiano.
    Parecchie industrie saranno messe in opera nell’Esposizione stessa, ove la vendita degli oggetti sarà fatta da donne di varie provincie italiane possibilmente nel loro costume pittoresco.
    Una serie di feste aprirà l’Esposizione; tra queste un elegante «Calendimaggio» e parecchi quadri viventi rappresentanti scene della Vita Nuova, con intermezzi musicali.
    Il 9 giugno, sesto centenario della morte di Beatrice, si terrà un’accademia letteraria e musicale in onore di Beatrice alla quale potranno concorrere uomini e donne, italiani e stranieri.
    Terminata l’accademia si proclameranno i nomi delle espositrici premiate e delle vincitrici delle gare.
    I premi saranno medaglie in oro, in argento e in bronzo, recanti da un lato l’effige di Beatrice, dall’altro i nomi delle espositrici premiate. Vi saranno pure i premi in denaro che porteranno il nome del personaggio o dell’istituzione che avrà assegnato il premio.
    La mostra sarà distribuita nelle seguenti otto sezioni: 1. Pittura, miniature; disegni ed arazzi. 2. Scultura ed incisione. 3. Letteratura. 4. Lavori d’ago e di ricamo. 5. Ornamenti da donna. 6. Didattica. 7. Igiene domestica. 8. Industrie diverse.
    Una tribuna speciale raccoglierà libri, stampe, dipinti, miniature varie, ricordi riferentisi in alcun modo a Beatrice, e si chiamerà tribuna Beatrice. A questa tribuna possono concorrere gli stranieri come gli italiani e gli uomini come le donne.
    Seguono altre modalità, prescrizioni ecc.

  3. Ne riporto qui alcuni brani:
    «Comincio subito col chiedervi perdono, col mettermi tutta — come si suol dire — nelle vostre braccia. E il perchè, eccolo qui, netto e spiccio.
    Le illustri colleghe che mi hanno preceduta in questa.... chiamiamola così, gara conferitiva, vi hanno procurato molte dolci ore. Vi hanno fatto rivivere il fortunoso trecento, con la grandezza dei suoi ricordi, con la poesia delle sue costumanze; e una longa schiera di poeti, di novellatori e di dame cortesi è sfilata leggiadramente sotto i vostri occhi pensosi: vi hanno scòrte tra il fervore dei tornei, quando i cavalieri, — oh gran bontà dei cavalieri antiqui! — non chiedevano alla loro dama che un garbato sorriso o una fascia di seta da tenersi sul cuore: sempre in grazia di quelle gentili siete penetrate, dalla reggia di Teodolinda, al grande salotto luminoso, ingombro di carte, di libri e di ricami, ove s’aggira quella squisita figura dì donna e di regina che è Margherita di Savoia; siete state richiamate ai tempi gloriosi in cui le fragili donne, infiammate di sublime carità, correvano volenterose agli spaldi minacciati, pronte alla difesa, pronte all’offesa; e pronte anche, ohimè! a sacrificare sull’altare della dolcissima patria il sangue dei figliuoli, dei figliuoli, pei quali le madri temono troppo fredda l’acqua del battesimo, troppo ruvido il soave pannolino che ne fascia, per la prima volta, le piccole membra delicate.
    Poi, a sollevarvi dalle sublimi ma dolorose visioni, una gentil fanciulla napoletana vi narrò di sante creature, ohe, pur sentendosi strette alla terra dai vincoli della famiglia, dell’amicizia e della carità cittadina, vissero pel cielo, in una dolcissima ma non sterile estasi. E la grande figura di Caterina da Siena campeggiò luminosa nel vostro pensiero, o signore, destandovi forse nel cuore commosso un indistinto, eppure intenso desiderio di rivivere quei tempi, quelle lotte, quello glorie immortali.
    Nè in queste geniali conversazioni, informate ad antica cortesia, vennero dimenticate le donne che coltivarono lettere, scienze ed arti in modo più o meno degno: e furono anzi studiate con singolare amore e con severa imparzialità....
    Oggi, ah! oggi cominciano per voi — e fortunatamente finiscono ~ le dolenti note. Ed ecco perchè, signore belle e buone, vi ho chiesto perdono fino dal principio di questa chiacchierata, che non è, non vuol essere una dotta conferenza, ma il semplice e caldo sfogo d’un cuore con altri cuori, ma lo slanciò spontaneo d’un’anima che si sente circondata — direi quasi carezzata — da molte, da tante anime affettuose: dalle vostre, o signore.
    ... Ma andiamo, che è tempo. E dove? Ahimè! Non aule universitarie, non profumati salotti di belle studiose non santuari di sacre vergini, non severità di musei ove si accoglie il fiore dell’ingegno, aspettano la nostra visita. Noi la dobbiamo, se non v’incresce, a quelle pazze orde di fanciulli che ogni giorno, nelle ore pomeridiane, si rovesciano nella strada, empiendola di tumulto, di atti villani, di oscene apostrofi. E chi sono quei fanciulli? — I nostri figliuoli. — Di dove escono? — Da scuola. — E che hanno mai fatto in iscuola? — Hanno studiato. — E che hanno studiato, e bene, ve lo proveranno gli esami di licenza elementare, le ammissioni al ginnasio, al liceo e, più tardi, alle università. Ma per uno strano fenomeno che darebbe da pensare al mio medico — un illustre alienista — io precorro i tempi e vedo molti di quei fanciulli già mezzi nomini, coi baffetti nascenti, con le labbra atteggiate ad un sorrisetto fra l’ironico e il bambinesco, sorriso caratteristico, tout à fait fin de siècle.
    Li vedo sbracciarsi, scalmarsi nelle aule universitarie, dove i più violenti improvvisano fulminee proteste contro gli ordinamenti politici, mentre i più miti si contentano di approvarli; dove si demoliscono provetti insegnanti e se ne eleggono dei nuovi: dove si meditano e si mettono in esecuzione pronte e nobili violenze, come l’atterrar porte, l’oltraggiar professori e l’impugnar bandiere, avvezze a sventolare su ben altri ardimenti; dove, in somma, si vedono tante belle cose e qualche volta, anche, in via d’eccezione, lo studente che studia. E i fanciulli più poveri che cosa sono diventati? Oh! non me lo chiedete, signore! Le cronache giornalistiche, i piccanti fatti diversi destinati a divertir l’ozio di tanta brava gente che sogna grandi riforme sociali tra una sorsatina di caffè e una boccata di fumo, informino. Io non rubo il mestiere a nessuno. Ma, risalendo dagli effetti alle cause, come spiegare questi fatti dolorosi? Su chi farne ricadere la tremenda responsabilità? Spesso sulla stupida, ostinata contrarietà tra i metodi educativi della famiglia e quelli della scuola: ma troppo spesso, ahimè, ricade su di voi, povere maestre elementari, che recate all’alto ufficio vostro un cervellino pieno zeppo di date, di nozioni scientifiche, di precetti retorici, e — pur troppo — un cuore freddo, un’anima sonnacchiosa ed inerte. Ma, d’altra parte, la colpa è tutta vostra, o non piuttosto dei vostri genitori che — tanto per assicurarvi un pezzo di pane — vi hanno scaraventato alle scuole normali, così come altri metterebbe le figliuole a cucir di bianco o a far le occhiellaie?
    E voi, care, ci avete mai pensato che la patente non fa la maestra, come la laurea non fa il dottore?
    Tra una lezione e l’altra di pedagogia avete mai studiato voi stesse la vostra vocazione e — perdonatemi — il vostro temperamento? Vi siete sentite d’avvero accese d’un amore ardente, passionato, fatto tutto di sante abnegazioni e d’eroici sacrifizi, per le creature che la società vi avrebbe affidato? Ditemi, lo avete sentito? Avete avuto presso di voi, nell’ora fatale della decisione, un amico sincero, esperto, che vi abbia fatto intravedere tutto le asprezze, i triboli, i macigni, che avrebbero ingombrato il vostro cammino? Lo avete avuto vicino il medico discreto, ma schietto, che guardando alla vostra giovinezza, al lampo fascinatore dei vostri occhi belli, al fresco sorriso promettitore di arcane dolcezze, vi abbia sussurrato all’orecchio: — Ragazza mia, non andate a rinchiudervi in una scuoletta angusta, triste, in mezzo a un nuvolo di bambini ignoranti e spesso cattivi; ne soffrireste orribilmente: il vostro trono non deve essere una povera cattedruccia elementare, ròsa dai pettegolezzi e da invidie abiette o puerili, ma il cuore ardente d’un giovane sposo innamorato, di cui sarete l’idolo, la dolcezza, l’orgoglio.
    Tutte queste cose, ditemi, le avete mai intuite, sentite, ve le hanno dette? Ahi! Quanti lamentevoli no, mi giungono da ogni parte d’Italia! Quanti no tristi ed eloquenti, si sprigionano dall’aureo libro che uno dei più grandi educatori d’Italia — il De Amicis — ha mandato in questi giorni pel mondo!n 1.
    Ma, e perdonatemi l’insistente domandare, non vi hanno neppure fatto sapere che oggi grazie al cielo, l’operosità femminile può esercitarsi su campo più vasto e — lasciatemelo dire — più confacente all’indole di molte di voi! Vedete: non si nasce pittrici di ventagli, cucitrici a macchina, sarte da uomo e da donna, aggiuntatore di stivaletti, trinaie, telegrafiste e fabbricanti di bambole, ma per far le maestre bisogna nascer maestre: e le bambine che strappano la coda ai passerotti, scodinzolano alla spera, e magari — per far la scimmia alla mamma — si tingono gli occhi col nero fumo, non possono diventar maestre.

    Riassumendo il fin qui detto: le giovani licenziate dalle scuole normali che s’incamminano alla meta del loro faticoso pellegrinaggio, sono degne di giungerla? Sanno che sia lo studio della facoltà dell’anima? Sono ben preparate ad intraprendere l’educazione del sentimento nel cuore dei loro futuri alunni? E — sopratutto — hanno esse rinunziato a tutto ciò che non è la scuola?
    Cominciamo dal rispondere alla prima domanda:


    Non solo, oggi, i filosofi, gli scienziati, i romanzieri e i poeti (ohimè! sì, anche i poeti) s’arrabattano per assicurare il trionfo dell’uomo-bestia sull’uomo-anima: ma, ed ecco ciò che più mi sgomenta, anche le donne, le donne gentili, molte delle quali educatrici esimie, ostentano un superbo disprezzo per quanto si riferisce alle facoltà dell’anima e sono giunte a chiamar retorica il sentimento, beghineria la fede.
    Il trionfo dell’intelligenza! Ecco il loro programma! È giusto?
    L’uomo ha della pianta e dell’animale insieme. Avvengono infatti nel nostro corpo, come nell’organismo di un albero, molte operazioni sulle quali la volontà non ha alcun potere: il sangue circola, i capelli crescono, le unghie si allungano, la carne si rinnova; e noi vegetiamo, cresciamo, esistiamo e moriamo senza che la volontà determini o modifichi queste funzioni. Ecco l’uomo-pianta, che certamente, mie gentili maestre, voi avrete studiato nei trattati di zoologia. Ed avrete studiato anche, non è da dubitarsi, l’uomo-animale, che riunisce in sè tutte le tendenze, le passioni, gl’istinti, le intelligenze, di tutti gli esseri organizzati: è più industrioso dell’ape, più crudele della tigre, più accorto della volpe, più vario, più vizioso, più insaziabile di tutti gli animali riuniti insieme; e ciò è così vero che i soli nomi di questi ultimi esprimono i suoi diversi caratteri! Non diciamo forse che il tale è una tigre, il tal’altro un leone, questi una volpe e quegli un coniglio? Parla l’uomo dei suoi affetti, della sua previdenza, della sua memoria? Ecco riprodotte nelle bestie le facoltà o le attitudini di cui si vanta. L’uccello che vola, la rondine che si slancia in mezzo alle fiamme per salvar la nidiata, la volpe, la cui astuzia, sempre nuova, delude la sagacità del bracco, mi rivelano tesori d’immaginazione, d’intelligenza, di tenerezza e di furberia. Sono quindi obbligata a riconoscere negli animali, come nell’uomo, dei sentimenti innati, quali l’amicizia, l’odio, la gelosia, la riconoscenza e la vendetta. Essi sentono ciò che noi sentiamo, e vogliono ciò che noi stessi vogliamo.
    L’uomo non sarebbe dunque altro che un animale dagli organi perfezionati, un animale che, come i suoi simili, pensa e si ricorda, riflette e desidera, si accende e vuole. Ma l’uomo è tutto qui, mie giovani maestre, è tutto qui, in queste facoltà che egli ha comuni con le piante e gli animali?
    Tutta l’anima dell’uomo è dunque rivelata dai bisogni del suo corpo? Tutti i suoi pensieri sono nella percezione dei suoi sensi, nell’impero delle sue passioni, nei furori delle sue gelosie, nell’ebbrezza dei suoi amori? No, no, per pietà: gli atti interni della coscienza ci riveleranno l’essere nascosto che vive in noi, che è in noi e che si manifesta per mezzo della virtù. L’anima ci avvertirà della sua potenza ispirandoci una volontà contraria alle nostre passioni animali: della sua moralità, col sentimento del giusto e dello ingiusto; della sua grandezza con gli atti spontanei d’una ragione che aspira al Vero eterno; della sua origine celeste, con le sublimi aspirazioni ad un Bello ideale; della sua immortalità, col desiderio dell’infinito che trova il suo compimento in Dio!

    Professori illustri, che cercate — come dice il Montaigne — se l’uomo è qualche cosa meno o più d’un bove, ecco il momento di esercitare la vostra scienza: impadronitevi di questo cadavere, buttatelo sulla lavagna dei vostri anfiteatri, frugate nel suo cuore, nel suo sangue, nelle sue fibre, nelle sue viscere: spianate le innumerevoli piegoline del suo cervello; empitevi le mani di materia, brancicatela, rivoltatela, tagliuzzatela col ferro anatomico, studiatela con la lente, verificate subito a prima vista la memoria, la volontà, l’astuzia, l’avarizia, il calcolo, tutte le arti amane, tutte le passioni animalesche: misurate l’intelligenza dallo sviluppo degli organi; sopprimete una facoltà tagliando un nervo: e quando ben padroni del vostro soggetto, avrete bene afferrato le relazioni delle fibre con le sensazioni e le relazioni delle sensazioni col pensiero, voi mi direte, sulle rovine di quelle povere carni, mi direte dove risiede quella coscienza energica, quel severo padrone che comanda alle passioni animali, che s’oppone ai loro piaceri, che gode della loro depressione: voi mi direte qual è il nervo, il muscolo, il senso che ha dato l’idea dell’infinito a quella povera creatura finita, il sentimento del bello ideale a quel corpo imperfetto, l’energia di morire per la verità a quell’essere fragile che la bucatura di uno spillo fa prorompere in un gemito d’angoscia! Voi mi direte — e ve lo chiedo col Montaigne — quali bestie sono la virtù e la giustizia!
    La civiltà, signore, non si ottiene con la sola educazione dell’intelligenza. Gli uomini e i popoli, separati gli uni dagli altri dalla diversità dei costumi, delle abitudini, delle opinioni e dalle passioni hanno due soli punti di contatto: il sentimento morale e il sentimento del bello. E questo laccio invisibile basta per formare la grande famiglia umana.
    Da oltre tremila anni, i filosofi non cessano di sottoporre all’esame dell’intelletto le ardue questioni dell’esistenza di Dio, e dell’immortalità dell’anima; e si maravigliano di non esser giunti che al dubbio. Io non stupisco del loro stupore. Come giungere alla scoperta dell’infinito, impiegando nella grande ricerca facoltà finite? Spetta all’anima lo studio dell’anima.

    Ho detto elle la maestra deve rinunziare a tutto ciò che non è scuola. E perchè? Qui m’è forza toccare un tasto molto delicato, ma avrò coraggio e dirò schiettamente la mia opinione. Io credo che la maestra, se davvero vuole elevarsi all’altezza del suo santo ministero, debba rimaner fanciulla, come rimangon fanciulle le suore di carità e le donzelle sacrate a Dio.

    Sbaglio, o un sommesso mormorìo di protesta si fa strada fino a me? Sbaglio, o molte delle mie belle uditrici meditano una vivace confutazione alla severità di questo mio principio, ed evocano, trionfanti, il tipo molto più ideale che vero della maestra madre?

    Ah! io m’inchinerei riverente alla sublime creatura che pure allattando, idoleggiando, ed educando i propri figli, trovasse modo, tempo, energia bastevole per fare da mamma ad altre quaranta o cinquanta creaturine irrequiete. Io vorrei baciar le mani alla donna miracolosa che durante le sei o sette ore di scuola non perdesse di vista i figliuoli che sono a casa, che s’accostano al fuoco, si spenzolano dalla finestra e che imparano dalla serva la retorica del mercato!

    Ma — sento dirmi — non sempre i bimbi piccini nell’assenza della madre, vengono affidati alla donna di servizio. Ci sono le nonne, le zie, le cugine, le pigionali! E sia. Ma mentre io mi rendo perfettamente ragione dei contratti e anche dei matrimoni per procura, non riesco a immaginar la procura della maternità.

    La maestra madre! Ah! signore mie buone! Voi non le avete vedute venire a scuola, come le ho viste io, per otto anni di seguito, tante povere sposine col petto turgido di latte, con le guance smunte, con gli occhi rossi di pianto; voi non le avete udite dire singhiozzando alle direttrici e — ohimè — anche ai direttori scapoli: — Scusi il ritardo, la prego; il bambino è mezzo malato e inghiottisce il latte con difficoltà!... — Voi non le avete udite far lezione con quel supremo spasimo nell’anima!
    La maestra madre! Signore, io proporrei di farne un lascito ai poeti e tutti i pedagogisti senza cattedra e senza cuore, che s’ispirano a tavolino, vivono a tavolino e moriranno, se Dio vuole, a tavolino!
    Ma dunque la maestra dovrà vivere senza marito, senza figliuoli, senza amore? Perchè no, se la scuola le terrà luogo di tutto? Perchè no, se, all’altissimo ufficio ella sarà stata scorta da una profonda, irresistibile vocazione?
    Non fo della poesia, signore. La donna dev’essere maestra per vocazione e non per calcolo, dacchè il magistero sia il più nobile, il più divino dei sacerdozi: e quando il sacerdote non reca all’altare un cuore mondo da ogni altro affetto terreno, si attira, presto o tardi la vendetta del Nume.

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    1. Il Romanzo del Maestro. — Nel Fanfulla della Domenica seguitai a collaborare, anche dopo avere assunta la direzione della Cordelia. Mi ricordo di essere stata fra i primissimi a scrivere del De Amicis com’egli si meritava.
      Al mio lungo articolo entusiastico su Cuore, pubblicato nel Fanfulla della Domenica del 24 ottobre 1886 l’illustre scrittore rispondeva con questa lettera che fra tutte quelle del mio ricco epistolario tengo specialmente cara:
      «Pregiatissima Signora,
      «Come trovar parole abbastanza gentili per ringraziarla del suo articolo, così bello di forma, cosi affettuoso d’ispirazione, così nobile di cortesia e di indulgenza? Dopo averci assai pensato non ho trovato che il solito Grazie, ma ella comprenderà che glielo scrivo con un sentimento insolito. Il suo non è un articolo critico, è il grido di un’amica, il saluto di una sorella d’arte, che ha trovato nel libro molta parte dell’anima sua, e si rallegra di essere stata indovinata ed espressa. Come mi ha fatto bene dopo tanti mesi di fatica e d’incertezza! Ella non può immaginare quante volte, scrivendo, mi sono domandato con viva curiosità e non senza inquietudine, che cosa avrebbe pensato Lei del mio lavoro, Lei appunto, che oggi fa alla mia domanda segreta una così festosa e sonora risposta! Grazie, cara signora; le ridico grazie dieci volte, con tutta l’anima mia.
      «Torino, 24 ottobre 1886.

      «De Amicis».