La guerra del vespro siciliano/Capitolo VII
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Dolore e rabbia di Carlo all’annunzio della rivoluzione. Ordina la passata in Sicilia, con l’esercito disposto alla guerra di Grecia. Bolla del papa contro i ribelli; risposta loro, e legazione del cardinal Gherardo da Parma. Preparamenti di Carlo, e de’ Messinesi. Rotta dei nostri a Milazzo. Sbarco di re Carlo. Principî dell’assedio. Pratiche del cardinale entrato in Messina. Assalti minori. Stormo generale contro la città. Respinti i Francesi. Tentata la fede d’Alaimo capitano del popolo di Messina. Aprile a settembre 1282.
A corte del papa, ebbe Carlo dall’arcivescovo di Morreale l’annunzio
della siciliana strage; che il colpì di presentimento di ruina, e fè
nascere in quel superbissimo animo, prima dell’ira stessa, una
disperata rassegnazione; ond’ei si volse tutto umile al cielo, e fù
udito pregare: «Sire Iddio! dappoi t’è piaciuto farmi avversa la mia
fortuna, piacciati che il mio calare sia a petitti passi1.»
Sopraccorse ansando a Napoli; e trovate le nuove del progredimento
della ribellione, diessi a furor bestiale, senza serbar contegno
alcuno di re. A gran passo misurava le stanze; forsennato, muto, torvo
agli sguardi, rodendo un bastone come cane in rabbia; finchè prese a
sfogarsi in parole: andrebbe, sì, gli parea mill’anni, andrebbe in
Sicilia a schiantar città, a bruciar contadi, a sterminare con orrendi
supplizi tutta la ribalda generazione; lascerebbe quello scoglio
spopolato, ignudo, esempio della giustizia d’un re, terrore alle età
più lontane. E i Siciliani, certo innocenti, ch’erano in Napoli per
cagion di commerci, furon costretti a nascondersi o fuggire. Intanto egli mettea insieme i soldati scritti per l’impresa di Grecia;
facea rassegne, esortava, preparava, e attendea impazientissimo gli
altri avvisi; che tutti furon sinistri, finchè venne quell’ultimo
della rivoluzione di Messina, che il fece prorompere a nuovi eccessi
di rabbia2; ma nel fondo del cuore, l’agghiacciò. Spacciò
incontanente al re di Francia, dettata certo da lui stesso, una
lettera che mal cela l’animo sconfortato e abbattuto: essere rivoltata
la Sicilia; sovrastar grandi mali se non vi si correa con grosso
esercito; piacesse al re di Francia mandar subito cinquecento uomini
d’arme col conte d’Artois, o altro valente capitano, e fornir le
spese, delle quali sarebbe ristorato senza ritardo3.
Mentr’egli, in tal subito rovescio di fortuna, implorava soccorso di gente dalla madre patria, la corte di Roma aiutavalo di consigli, di danari forse, di preghiere al cielo, e di maledizioni su i ribelli senza misura4. Il dì dell’Ascenzione, Martino IV bandiva da Orvieto a tutta la cristianità: che niuno s’attentasse a favorir questa rivoluzione; i disubbidienti, se vescovi o prelati, sarebber deposti, se principi o signori, spogliati de’ feudi e sciolti lor vassalli dal giuramento; cassate e annullate quante confederazioni si fossero fatte tra le città di Sicilia; aspramente ammoniti i Palermitani e gli altri capi del movimento, che tornassero sotto re Carlo; minacciati, a chi s’indurasse nella fellonia, mille gastighi nell’avere, nella persona, e nell’anima5.
Ma gli fu risposto con parole riverenti, e fermo proposito; sì che
Martino, uditi gli oratori di Sicilia, replicò ch’e’ facean come i
manigoldi intorno a Cristo: «salutavanlo re dei Giudei, e davangli uno
schiaffo6.» E tal era alla corte di Roma, se non la prima
ambasciata, certo una rimostranza indirizzatale dopo la sua
ammonizione o dopo la prima scomunica, la quale rivolgesi ai padri
coscritti, così chiama i cardinali, partecipi della piena potestà del
pontefice, sedenti nel sacro collegio per tener le bilance della
giustizia, e intendere all’util pubblico, spogliandosi d’ogni privato
riguardo; e, con stile spesso ridondante, talvolta confuso, e più
spesso vivo e poetico, duolsi che la romana corte favorisse gl’iniqui
governi di Carlo d’Angiò, venuto dall’estremo Occidente fino alle
spiagge della Sicilia, e comandasse ai Siciliani di tornar sotto la
servitù d’Egitto e il giogo che aveano scosso per ispirazione e aiuto
divino; barbarico giogo, che il papa non conoscea, e volea rimetterlo
sul collo gonfio e insanguinato dall’averlo portato tanti anni. Con
pari intemperanza di rettorica, mette a confronto le due genti
francese e latina, esagera il biasimo dell’una, la lode dell’altra.
«Costoro, dice, ci dovean reggere, costoro amministrar la giustizia!
Chi sosterrebbe le loro mani pronte alle ingiurie e al sangue, i truci
volti, i minacciosi aspetti, l’arrogante parlare, l’alito stesso? O
morte, speranza de’ tribolati, riposo ancora ai felici, ti sospiravano
le anime nostre, impazienti d’esser tratte al cielo o all’inferno,
finchè questi condannati nostri corpi nulla servirono al ben della
patria! Non è ribellione, o padri coscritti, quella che voi mirate;
non ingrata fuga dal grembo d’una madre; ma resistenza
legittima, secondo ragion canonica e civile; ma casto amore, zelo
della pudicizia, santa difesa di libertà. Rivanghiamo la voragine de’
nostri mali; traggiamo a riva l’alga corrotta nel profondo del mare.
Ecco le donne sforzate al cospetto de’ mariti; viziate le donzelle;
accumulate le ingiurie, sì che par non resti luogo ad altre nuove:
ecco le battiture su le spalle; le mani che s’alzano a percotere una
faccia ritraente l’immagine del Creatore; gli omicidî; le prigionie;
le rapine; il disprezzo; l’occupazion de’ beni delle chiese; la brutal
forza che comanda; il principe fatto solo arbitro de’ matrimoni. Nè la
corte di Roma ignorava, nè potea ignorar questi mali, notissimi alle
genti più lontane. Avvi, o padri coscritti, un estremo furore della
sventura, una forza di necessità, una reazione dell’umana libertà: e
allora nessun eccesso di crudeltà è tanto immane, che non giovi con
l’esempio, reprimendo i malvagi. Fu squarciato il corpo alle donne;
furono uccisi i bambini anzi che nati: la storia il narrerà ai secoli
più lontani; e così periscano i vizi prima di venire alla luce; si
dissipi il veleno con la prole de’ serpenti.» A queste empie parole
non manca la sublimità della disperazione e della ferocia. «A voi,
ripiglia l’ignoto autore, lasciando i cardinali e addentando il papa,
a voi si volge ora il sermone; su voi voterò il calice. Fremono d’ogni
intorno le guerre; minacciano i nemici; tremano le nazioni, lacerate
dalle guerre civili e dalle straniere: son questi, o padre, i frutti
delle opere vostre!» E qui tocca la connivenza alla sommossa di
Viterbo, e tutti gli abusi di re Carlo in Roma; e ritrova non pochi
torti a Martino; e gli ricorda che, seguendo un interesse di parte,
menomasse l’autorità del pontificato; che i misfatti permessi perchè
piacciono, portan poi i misfatti che spiacciono; ch’ei non dovea
promuovere i suoi partigiani, e trascurar le altre faccende
della Chiesa; che i disordini consuman sè stessi: «la scure è alzata; accenna di percuotere; fate d’impugnarla voi stesso pria che tronchi l’albero alla radice.» Con queste, e molte altre parole è esortato papa Martino a mutar via, se gli preme la sua salvazione. Alle idee, allo stile, agli eccessi della passione, l’autore sembra chierico, non ignorante, e patriotta audacissimo. Niuno potrebbe o affermare o negare che tal rimostranza si mandasse a corte di Roma, quando si conobbe chiusa la via del perdono, e altro non restava che protestare fortemente. Ma se i governanti della Sicilia non scrissero in quelle parole, scrissero per certo in que’ sensi: e in ogni modo il documento che ci resta è irrefragabilmente del paese e del tempo; ha la rovente impronta della rivoluzione; estinto quel fuoco, non si potea contraffare7.
La corte di Roma, vedendo che i Siciliani nulla non rimoveansi da’ loro proponimenti, tentò nuovi consigli. Deputò con autorità straordinaria il cardinal Gherardo da Parma pontificio legato nel regno8. «Mossi, dicea la bolla, da sviscerato amore alla Sicilia, e dolentissimi degli scandali con che il nemico dell’uman genere la vien turbando, te mandiamvi, o fratello, angiol di pace; e svelti tu, struggi, dissipa, sperdi, edifica, pianta; tutta usa l’autorità nostra ad onor di Dio e riformazion del reame9.» L’accorgimento de’ consigli sacerdotali trasparisce ancora da uno statuto promulgato di quel tempo da Carlo, dove accagionando del mal governo gli officiali inferiori, moderava i più grossi aggravî del fisco, dei magistrati, e di lor famigliari; e sì la crudeltà di alcuna legge, le usurpazioni de’ castellani nelle faccende municipali, e lor violenze nei contadi10. Lusinghe a’ Siciliani eran queste; blandimenti ai popoli di Puglia e Calabria, che, dalla medesima signoria travagliati, non si muovessero all’esempio, ma grati e soddisfatti aiutassero il re. E per vero assai difficoltà nel raccorre quelle feudali milizie ebbe egli a vincere con la sua passione e potenza11. Aggiunsevi mille Saracini di Lucera, co’ fanti e’ cavalli di Firenze e d’altre città guelfe di Lombardia e Toscana; i Francesi, tra vassalli e stipendiati, furono il nerbo dell’esercito. Genova e Pisa mandaron galee; quelle del regno s’accozzaron tutte; altre ventiquattro chiamonne di Provenza il re, poichè la più parte delle preparate alla impresa d’Oriente era chiusa nel porto di Messina. Forniti inoltre uscieri, teride, trite quanti abbisognassero a traghettar le genti. Ordinò Carlo che si ritrovasser le genti a Catona, picciola terra di Calabria, posta sullo stretto di contra a Messina, ch’egli volea prima assaltare; e mandò innanzi quaranta galee, e gran copia di grani e altra vivanda, e ogni cosa bisognevole all’esercito. Quivi poi rassegnò pronti a servir sua vendetta da quindicimila cavalli e sessantamila pedoni, con cencinquanta o dugento legni, tra di trasporto e di corso12: macchina enorme di guerra, che non parrà esagerata riflettendo esser Carlo apparecchiato di già a grande impresa, e aiutato da mezza Italia, dalla Francia e dalla corte di Roma; e che pria della lotta tra principato e baronaggio, e dell’uso delle bande stanziali che ne seguì, gli eserciti d’Europa si poteano adunar numerosi poco meno ch’ai nostri tempi, con un sol bando a’ baroni per la cavalleria, e poca moneta per lo scarso stipendio de’ pedoni. Un cardinale armato di censure e di piena balìa; un re uso a vittoria, indurato nelle battaglie; un esercito grossissimo, ansioso di vendetta, assetato di preda; un bollor francese, un’astuzia di Roma, un furor d’offeso tiranno, tutte l’arti di guerra, tutte l’arti di regno a conquider l’isola ribelle, minacciando si raggrupparono sulla estrema punta d’Italia.
Reina del Faro, siede tra due mari in faccia ad oriente, maestosa e
lieta Messina; che a manca, il Peloritan promontorio sta contro il
Tirreno; a destra, il braccio di san Ranieri sì ardito mette nel mare
Ionio, rientrando come punta in falce contro la curva del lido, che un
vasto cinge, e profondo, e da tutti venti sicurissimo porto. In mar
bagnansi le falde de’ colli, talchè parte non poca della città
s’appoggia su la pendice; donde il seno, lo stretto, l’opposta Calabria magnifico teatro spiegano alla vista. Largheggia un po’ di pianura a settentrione; e più vasta ad ostro, amena per vigneti e ville: boscosi i poggi, e più di que’ tempi ch’ai nostri. Non è mutata del resto la sembianza del paese, nè il sito della città, quantunque più d’una catastrofe l’abbia percosso; e poco men che spiantata da’ tremuoti del millesettecentottantatrè, si sia murata nuova dalle fondamenta.
Questa nobil città gli animi e le braccia apprestava a difesa; più intenta a munirsi nel porto che altrove, perchè non s’aspettava sì pronto un esercito ad assaltarla di terra. Rispianano a settentrione la campagna, svelte le viti, e abbattuti gli sparsi casolari; del legname di questi risarciscono le mura; fabbrican macchine ed armi: oper non sì compiute, da non dovercisi affaticare e sudar poi nel maggior uopo. Ma salde catene di ferro, legate a travi galleggianti, gittavan a traverso l’imboccatura del porto, a chiuderlo contr’ostili navigli: il braccio di san Ranieri afforzavano d’eletta gioventù, sotto il comando di Niccolò Bivacqua, e Giacomo de Brugnali, stanziata nella chiesa del Salvadore, sulla estrema punta, ov’oggi è una fortezza del medesimo nome. E un buon augurio fu principio alla guerra, quando il due giugno, viste far vela da Catona quaranta nimiche galee, i Messinesi ne mandavano trenta allo scontro. I nemici non aspettandole, in fretta rifuggironsi a Scilla; e sbarcarono le ciurme, spiegandosi a lor protezione in battaglia i cavalli d’Erberto d’Orléans, e del conte di Catanzaro: ma la traversia che levossi, non la mostra del nemico, fu quella che rattenne i nostri, anelanti a dar dentro, e abbruciare le navi13.
L’animo d’un frate siciliano ammiraron gli stessi nemici in quel tempo. Veniva re Carlo il dieci giugno alla Catona con un grosso di genti; arrivavan da Brindisi ogni dì le allestite navi; e a tanto romor del nemico, i Messinesi struggeansi di saperne a punto le forze e i disegni. Allora a’ preghi del consiglio della città, Bartolomeo da Piana de’ frati minori, uom litterato, di specchiati costumi, e di gran nome, prese a esplorarli; non vile spiatore d’eserciti, ma cittadino, ch’all’uopo della patria affronti la mannaia, com’altri la spada. Nè furtivo, nè dimesso va dunque in Calabria il frate; dove addotto a Carlo: «A che da’ miei traditori ne vieni?» brusco domandavalo il re. Ed ei più fermo: «Non io traditor, disse, nè terra di tradimento lasciai. Mosso da religione e coscienza vengo ad ammonir qui i frati minori, che non seguano queste tue ingiustissime armi. La Provvidenza ti commise un’innocente popolo, e tu lo lasciavi a dilaniare a lupi e mastini: tu indurasti il cuore alle querele, a’ pianti: e allor noi ci volgemmo al Cielo; e il Cielo ne ascoltò, e ci fe’ vendicare santissimi dritti. Ma se speri oggi vincendo chiamar ciò fellonia, sappi, o re, che indarno tant’armi a’ danni de’ Messinesi aduni. Torri hanno e mura, e forti petti rinfocati dal divin raggio di libertà; onde maggiori che uomini, ti aspettan pronti a morire. A Faraone tu pensa!» Per terror di lassù, o istinto d’accarezzar Messina, il re si ritenne dall’offendere il frate. Die’ sfogo all’ira con ordinare una prima fazione: e Bartolomeo tornandosi a’ suoi, narrava la potenza dell’oste, e le truci voglie di Carlo14.
Contro Milazzo quell’assalto si drizzò, perchè traeane Messina le
vittuaglie, che il parlamento avea deliberato di provvedersi; e mal
s’era fatto tra l’universale sospezione e penuria. I conti di Brienne
e di Catanzaro, Erberto d’Orléans, e Bertrando d’Accursio, capitani di
questa fazione, aveano a bruciar le messi, dar guasto al paese, rapire
gli armenti per uso dell’esercito, e occupar indi Milazzo: i
quali a dì ventiquattro giugno, con cinquecento cavalli e mille
pedoni, sur una sessantina di barche salpavano dalla Catona. Contro
tal forza, e cento altri legni che si vedean surti alla spiaggia, il
capitan della città non volle mettere a rischio la sua poca armata, ma
piuttosto sull’asciutto far testa. Frettoloso armò dunque cinque cento
cavalli, e grosse bande di fanti; co’ quali, poichè la flotta francese
girava il capo, ei valicò i colli della Peloriade, e lunghesso la
settentrionale riva, a Milazzo conducea le genti, come i nemici a
quella volta pur via navigavano. Molte miglia da Messina si dilungan
così i nostri; non usi all’andar in ischiera; trafelanti dal caldo,
dalla via, dal peso dell’armi, ciascun dassè, sparsi chi a cercar
ombre o acqua, chi a chiamare ad oste i contadini: quando presso il
canneto di San Gregorio, alla fonte d’Aleta, il nimico vedendoli sì
mal presi tra quelli scogli, d’un subito approda. Baldovino pensava
sostare, e, raccolti gli sbrancati, mandare per rinforzo a città; ma
dandogli sulla voce Arrigo d’Amelina per nimistade privata, tutti
appigliaronsi al partito che parea più generoso. Audaci sì, ma radi e
stanchi, investono il nimico: il quale ordinato e fresco, li sbaragliò
al primo scontro. Quell’Arrigo stesso d’Amelina, Anfuso de Camulio,
Bertoldo Alamanno, Pietro Cafici, cavalieri; Bartolomeo Mussone,
Martin di Benincasa, Abramo d’Ambrosio, Niccolò Rosso, e di minor nome
mille a un di presso, nella zuffa o nella fuga fur morti. Assai
n’andar anco prigioni; tra’ quali notan le istorie i nomi di Roberto
de Mileto cavaliere, che perì ne’ ceppi francesi, e d’Arrigo Rosso
mercatante, ricattatosi per mille once d’oro dopo la fine
dell’assedio15.
Come la sconfitta si riseppe in città, il popolo infellonito da
rammarico, e più stigandolo Baldovin Mussone, l’inesperto capitano che
a discolparsi gridava tradimento, levasi a romore in cerca di
traditori. Chiama al supplizio i partigiani de’ Francesi, gli odiati
de Riso: tratti Baldovino e Matteo dalla rocca di Matagrifone, ove li
avea chiuso da pria, li mette in pezzi; Giacomo decollato per man del
carnefice; strascinati i cadaveri per la città; senza tomba gittati;
con tanto eccesso d’ira, che gli amici non osavano pur piagnerli, e i
congiunti a mala pena si sottrassero. La moltitudine intanto, come se
quelle morti fosser vittoria, scordata già l’infelice fazione,
girava tripudiando intorno le mura della città, e per le strade
gavazzava. Ma in brev’ora il popolo stesso a una voce, persuadendol
forse i più savi, deposto d’uficio il Mussone, gridò capitano Alaimo
da Lentini, nobil di sangue, nobil di fama, vecchio robusto e animoso,
espertissimo in guerra. Fu somma ventura di Messina e di tutta
l’isola. Ei, preso appena il comando, con più alto militare argomento
ordinò le difese della città, riparò, sopravvide, indefesso addestrò
il popolo all’armi16. Catania e i comuni tutti del vasto tratto di
paese da Tusa ad Agosta, il crearon anco, ignorasi se prima di Messina
o appresso, lor capitano di popolo17.
Nei preparamenti d’ambo i lati un altro mese volgeasi: poscia con
tutto il pondo dell’oste il re mosse a dì venticinque
luglio18. Le salmerie, le vittuaglie, i cavalli, indi le genti imbarcò; ultimo egli ascese la sua nave superbamente parata di porpora, che parea tenere in pugno le sorti del mondo; e con tutto ciò, schivato quel formidabil porto di Messina, fe’ porre a quattro miglia ver mezzodì, alla badia di Santa Maria Roccamadore; nuovamente sperando trar lungi i cittadini alla pugna. Ma Alaimo affrenò l’intempestivo ardore, che s’era pur desto. Deluso dunque, attendavasi Carlo; e trucidar fea, dice Neocastro, i monaci della badia, che io nol credo, perchè taciuto dagli altri istorici, e dissonante dai consigli del re, che cominciarono con simular clemenza. Ben lasciò a marinai e soldati metter a guasto il paese, sperando che i Messinesi per salvar le facultà chiedessero accordo; ma fe’ il contrario effetto. Come da Roccamadore infino al torrente di Cammàri sparve il ridente giardino, tagliati gli alberi, stralciate le vigne, saccheggiate masserie e canove, diroccate le case, quanto rubar non poteasi distrutto; e come il dì appresso, mutati gli alloggiamenti, lo sterminio s’avvicinò, i Messinesi che a niente guardavano fuorchè all’onore e alla libertà, con tanto maggior dispetto si fecero a provocar l’Angioino. Appiccan fuoco a settanta galee delle costruite contro i Greci; fabbrican armi delle ferrerie tratte dalle ceneri; disfatte altre navi, ne riattano mura e steccati; il borgo di Santa Croce, posto a mezzodì ove in oggi è quel di Zaera, non potendol fortificare, abbandonano. Occupollo al terzo giorno re Carlo; da quella banda ponendo il campo, sì stretto alla città, ch’appena nel partiva il picciol torrente di porta de’ Legni. Egli alberga nel munistero de’ frati predicatori che sorgea sul poggio, da ciò chiamato vigna del re; e fa alzar su i comignoli una torricella di legno, per ispecolare dentro la città, e anco offenderla con macchine. Ma i Messinesi se n’avvidero appena, che dato di piglio a’ mangani, a furia di pietre sconficcaron la torre19: e furon questi i primi saluti all’antico lor principe.
Or se la città debbasi assaltare impetuosamente pria che s’avvezzi al
pericolo, o travagliar tanto d’assedio che stanca ed affamata
s’arrenda, agitano tra loro i capitani, ristretti a consiglio. I più
focosi diceano andarne, l’onor di tant’oste contro una plebe assiepata
con legni e macerie, non muta: l’impeto vincer le guerre: a che
tardare sì giusta vendetta? Dubbio altri opponea il successo
dell’arme: grossa la città: presa d’assalto, metterebberla a sacco i
ribaldi20 del campo; e qual pro al monarca? Senza sangue
certissimamente s’avrà per tedio o paura. A questo appigliossi Carlo,
contro la sua natura feroce; perchè il vinse avarizia, e lusinga che
Messina si lascerebbe prender sempre a lusinghe21.
Perciò rimanendosi alla espugnazione dei posti più avvantaggiosi di
fuori, il dì sei agosto movea possente stormo contro il monistero del
Salvatore, chiave di quell’assedio, per tener la bocca del porto.
Cento Messinesi il difendeano: i quali nè sbigottiti dal numero degli
assalitori, nè scossi dal battito della prima affrontata, fieramente
combattendo dalle soglie e da’ muri, li ributtarono; tantochè Alaimo
venia con freschi combattenti dalla città: e allora più aspra
mescolandosi la battaglia, con morti ed onta si ritrasse alfine il
Francese. A questa prima vittoria l’animo de’ cittadini oltremodo si
rinfrancò. Indi il dì otto, con pari fortuna fu combattuta maggior
fazione al monte della Capperrina; il quale signoreggiando la città da
libeccio, l’avea fortificato Alaimo di steccato e fosso e giusta
guardia d’arcieri. Or avvenne ch’essi, come nuova milizia, quel dì a
un rovescio di gragnuola e di pioggia spulezzaron da’ posti; onde i
Francesi e i Fiorentini, colto il tempo, pronti saliano per gli
uliveti, e guadagnavan già l’erta. Seppelo Alaimo; comprese ch’a un
altro istante era perduta Messina; e di tutto fiato si lanciò alla
riscossa, traendo con sè il popolo: e urtò; e ripigliò il ridotto; e
in faccia a’ nemici affranti per molta strage, caduta già la notte, a
lume di fiaccole risarcir fe’ le barrate. La notte del Campidoglio fu
questa a Messina. S’eran gli ufici ordinati per tal modo nella città,
che scritti in drappelli, dì e notte s’avvicendasser gli uomini a
vegliare in scolte e poste; girassero in pattuglie le donne.
Ritentando i Francesi a notte scura l’assalto della Capperrina,
superati chetamente i ripari, abbattonsi in una delle donnesche
guardie. Dina e Chiarenza, donnicciuole di cui l’istoria
ingiusta ne tramanda appena il nome, salvaron allora la patria: e fu
prima la Dina a gridare all’arme, scagliando insieme un masso che
atterrò parecchi soldati; l’altra a martellare a stormo le campane:
onde il romore si leva, si spande: «Alla Capperrina il nemico» altro
il popol non sa, e nel buio, nel rovinio, non misura il periglio, sì
il cerca. Sugli attoniti e delusi nemici piombò col suo
fortissim’Alaimo; nè solamente rincacciolli, ma saltando fuor dal
ridotto, borghesi i nostri e a piè, incalzavano fin sotto il
padiglione di Carlo quei fanti vecchi spalleggiati da cavalli22.
L’insperata virtù di codesti scontri miracol parve a’ nemici, e a’
nostri stessi: il che accrescea i miracoli veri e naturali. Donna in
bianco paludamento sorvolar lunghesso le mura; stender soave un velo
contro a’ colpi, e ribatterli; innanti sue divine sembianze cascar
l’animo agli assalitori; presi d’un ghiaccio volgersi in fuga; e
saette inchiodarli, che il feritor non vedeasi; tribolato anco il
campo di mortifera epidemia: tanto narravano i nemici soldati a’
nostri, facendosi sotto le mura a parlamentare. L’attestavano con
sacramento per lo Iddio adorato da tutti gli umani, i Saracini stessi
di Lucera; e chiedeano una volta qual fosse la diva, e più diceano, se
non che surto un subito allarme dileguaronsi. Pertanto tenacissima
surse in Messina, sprone a fatti più egregi, la fede di quest’aita
soprannaturale della Vergin Madre, nella quale teneansi inespugnabili.
Sgombro poi che fu l’assedio, alla celestiale proteggitrice alzavano
un tempio nel lieto nome della Vittoria: il miracol tramandossi di
generazione a generazione, e la facile istoria il registrò23.
Or narrinsi i miracoli umani: fornite le fortificazioni nel tempestar
dell’assedio: fatto un popol di soldati: nè età, nè sesso provarsi
imbelle: null’opra dura a niuno: vigilie, interminabil disagio,
penuria sostenuti senza fiatare: uno scherzo la morte: e più, invidia
e discordia incatenate: pensiero in tanta moltitudine un solo, far
salva Messina. In pochi dì, là dov’era accostevole a scale, arduo
drizzasi il muro; ove fiacco, si rassoda; ove il luogo nol comporta,
steccati, argini di botti, fascine: a giusta distanza dalle cortine
esteriori fabbricano un contramuro. E cavan fondamenta, e murano, e
assestan travi, e insieme combattono, quanti son umani nella città;
vincendo lor passione gl’infermi corpi, le schive usanze, le vanità
degli ordini. Nobili, giuristi, mercatanti, artigiani, infima plebe,
sacerdoti, e frati, e vecchi, e fanciulli all’opra tutti secondo lor
posse; intenti ed ansiosi, dice Saba Malaspina, quale sciame
ch’affatichi intorno a suoi favi. Donne cresciute in dilicatissimo
vivere, d’ogni età, d’ogni taglia fur viste a gara sudar sotto il peso
di pietre e calcina; e lì, tra il fioccar de’ colpi, recarne a’
lavoranti; girare per le mura dispensando pane e polenta, dissetandoli
d’acqua, mescendo vini; e più di belle parole confortavanli: «Animo,
cittadini! Nel nome della Beata Vergine, durate alle fatiche. Vi serbi
alla patria Iddio. Egli il vede e difenderà Messina.» In questo gli
altri Siciliani, eludendo l’oste pe’ tragetti de’ monti, aiutavano la
città di gente, d’armi, e di vittuaglie. Crebbe la virtù de’ Messinesi
con l’uopo e coi rischi, durò tutto l’assedio, e più valida ogni
giorno rendea la difesa24.
Perseverando siffattamente i cittadini, e stando fermo Carlo nel
disegno di ridurli senza battaglia, s’aprì una pratica per mezzo del
cardinal Ghepardo, ch’entrovvi, richiedente o richiesto (varian su di
ciò le istorie),25 e carico certamente di clemenze del papa e del
re; ma uom non era da maneggiarle con inganno. Il preso reggimento
portò che i cittadini l’accogliessero con onori di principe, come
legato del pontefice; onde fu condotto tra’ plausi alla cattedrale;
appresentategli le chiavi della città, e da Alaimo il baston del
comando. Pregavanlo prendesse lo stato nel nome della santa romana
Chiesa; desse un reggitore alla città; a questi pagherebbero i tributi
debiti al sovrano; ma lungi, lungi i Francesi; dalla terra della
Chiesa li scacciasse per Dio. A che Gherardo, secondo suoi mandati,
rispondea: gravissime lor peccata; pure la Chiesa richiamarli con
affetto di madre; a lui commesso di riconciliar Messina col suo
re, e lietamente il farebbe; ma non parlasser di patti, che non n’è
luogo tra sudditi e monarca; sperassero in Carlo, magnanimo, clemente,
il quale perdonar saprebbe alla città, serbare i gastighi a’ soli
efferati omicidi; vano architettar altre pratiche; ubbidissero, e ne
rimarrebber contenti. «Messina, conchiudea, s’affida nel grembo della
Chiesa; in suo nome la risegno io a re Carlo.» E Alaimo: «A Carlo no,»
con voce di tuono proruppe, e gli strappava il baston del comando:
«No, padre, vaneggi: i Francesi mai più, finchè sangue e spade avrem
noi!» Somiglianti parole in suon di varie voci scoppiarono dalla
moltitudine; alla quale invan replicava Gherardo, invan essa a lui:
perilchè cessando il negoziato a pien popolo, deputaronsi trenta de’
più notevoli cittadini, a cercare in ragionar più queto, qualche
strada agli accordi.
Venian proponendo patti al re disdicevoli, a Messina pericolosissimi, e peggio al rimanente della Sicilia: perdonasse Carlo alla città; gli bastasser l’entrate de’ tempi del Buon Guglielmo; nè soldato nè ministro francese in Messina mettesse pie’; la si reggesse per uom latino a scelta dal re: dai quali termini il legato non valse a rimuoverli un passo. Onde, o ch’ei se ne riferisse al re, e questi ricusasse tutt’altri patti che di resa a discrezione, com’alcuno scrive; o che il cardinale conoscesse la mente di Carlo sì addentro da non averla a ricercar nuovamente, risoluto ei disdisse l’accordo; con isdegno grandissimo de’ cittadini. E tra i popolani più ardenti, che fremeano e schiamazzavano a tal niego, alcuno drizzandosi a Gherardo il rimbrottò26: «Vedi candor di pastori che consiglianti ignudo porgere il collo al manigoldo perch’abbia clemenza! Quante ore dura la clemenza di Carlo? Lungi da noi cuor di selce, torti ingegni, insidiose lingue: voi ne vendeste al Francese; ci riscattammo con l’arme noi; ed or che vi offriamo temperata signoria della bella Sicilia, la schifa Martino, e si fa mezzano al Francese, non vicario del Cristo di mansuetudine e amore. Oh temete, temete la giustizia del Cristo! E tu riedi al tiranno angioino, per dirgli che nè lioni nè volpi mai più entreranno in Messina!» Allibito al minaccevole aspetto del popolo, frettoloso uscia Gherardo; scomunicata pria la città; e ingiunto a tutti chierici che in tre dì ne sgomberassero; ai rettori del comune, che in quaranta dì comparissero a corte del papa27.
Tacqui d’una epistola di Martino, che Giachetto, il Villani, e la Storia della cospirazione portan come letta da Gherardo a’ Messinesi, non riferita punto dagli scrittori degni di maggior fede, e zeppa d’ingiurie, fuor dal sonante stile della romana curia, da’ concetti della bolla che deputava Gherardo, e dall’oprar tutto del papa e di Carlo in que’ primi tempi. Fabbricata la giudico perciò da’ detti autori, che mal intrecciano, com’altrove notai, queste istorie del vespro. Nè meglio regge l’altro supposto28, che Gherardo suggerisse a Carlo d’assentir l’accordo con Messina, e violarlo, insignorito che fosse della città; perocchè s’ai Messinesi spiacque nel caldo di loro speranze la ripulsa del legato, ammirava tutta la Sicilia poi, com’afferma Speciale, quel suo onesto e franco negoziare; talchè se l’ebbe in rinomanza di santo29.
Com’ei scornato e mesto fe’ ritorno al campo, tanto furor prese i soldati, assetati della vasta preda della città, che, non aspettato comando, tumultuosi diero a stormeggiar le mura: e venner indi con più agevolezza respinti30. Bella prova anco feano i nostri ne’ minori ma ordinati assalti rinnovellati poscia ogni dì; perchè Carlo, vedendo che per sole minacce non si piegava la città agli accordi, volle farle sentir più viva la punta del coltello alla gola. Ma ne seguì l’effetto contrario; perchè la vigilanza de’ nostri deludea tutt’ingegni dell’inimico; il loro saettame l’affliggea di morti e ferite; la fortuna favorevole in ogni fazione a’ cittadini dava a’ loro animi la sicurezza della vittoria; ne togliea la speranza ai soldati di Carlo. E invano il re, fatte venir le genti da Milazzo, poneale a campo nel borgo di San Giovanni, ov’oggi, estesa la città oltre l’antico cerchio, è il Priorato e indi il borgo di San Leo, e così l’accerchiava da settentrione e da mezzogiorno, ove il terreno parea più comodo alle offese; lasciando libero solo l’aspro colle guardato dal castel di Matagrifone. Questo a’ Messinesi fu nulla; se non che temendo pei difficoltati sussidi qualche stremo di penuria, mandaron via, duro ma inevitabil partito, la minutaglia più inetta all’arme; la quale tapinando per le campagne, cadde, inutil preda, in man dei nemici. Con molto lor sangue ritentavan essi poi con forti impeti, il dì quindici agosto la Capperrina, il due settembre le mura a settentrione. Ributtati sempre, sfogarono risarchiando con nuove scorrerie il contado; steser fino alle chiese le mani ladre; manomisero i sacerdoti; trascinarono al campo il sacro arredo, la croce, la effigie della divina madre, e li barattarono vilmente31: atti d’impotente furore, che dovean mostrare a’ più veggenti come Carlo disperasse già dell’impresa.
Acerbe novelle conturbavano l’animo di Carlo: venuto d’Affrica con forte stuolo di navi Pier d’Aragona; cintagli in Palermo la corona del reame; gli animi de’ Siciliani avvalorarsi; adunarsi le forze; riguardare all’assediata città, che non fiaccavasi nè per insulto di guerra, nè per fame. A un assalto pertanto si deliberò, universale ed estremo32. Era il quattordici di settembre. Allo schiarire del dì, appresentossi l’oste a cerchio, dal piano, dal monte in ordinanza, con macchine e infiniti ordegni; splendenti in lor armature cavalcano per le schiere i baroni; Carlo esorta i suoi a combatter no, sclamava, ma a far macello de’ vili borghesi. A un tempo l’armata con una tramontana gagliarda, a golfo lanciato investia la bocca del porto; ed era primo in fila uno smisurato naviglio, pien d’uomini e di macchine, guernito di cuoia contro i fuochi, il quale col possente urto spezzasse la catena. Ma questa Alaimo avea con maravigliosa cura affortificato. Schieravansi dentro dalla catena quattordici galee armate di strenua gioventù, e tramezze sei navi cariche di mangani e altri ingegni; fuori, s’ascondean tese sott’acqua, grosse reti che rompessero il momento degli ostili navigli: sorgea sulla riva un ridotto di forte legname; e in quello munitissimi d’arme i combattenti più feroci.
Quivi la prima zuffa appiccossi. Difilandosi la maggior nave sopra il
ridotto d’Alaimo, impigliasi nelle reti, con sassi e dardi tempestanla
i nostri, le gittano i fuochi, le squarcian le vele; e mentre pur
tenea la battaglia, saltato il vento a ostro, tutta sdrucita e
sgomenata fu forza che si ritraesse, e la flotta con lei. Il perchè
tutta la virtù de’ difenditori alla parte di terra fu volta; ove
terribile e diverso tante turbe portavan l’assalto. Qui a far breccia
drizzano i gatti33 contro la muraglia, o sottentrano a zapparla da
pie’; qui ov’è più bassa, appoggian le scale, approcciano le
cicogne34; gli altri stuoli co’ tiri delle saette fan prova a
cacciar dallo spaldo i Messinesi. Ed essi rispondeano virilmente con
un grandinar di ciottoli e frecce; versavan olio e pece bollente su i
più innoltrati: gittavan massi e fuoco greco alle scale.
Nell’ondeggiar della sorte in sì accanita lotta, ascesero
alquanti sul muro; ma non n’ebber che diversa la via della morte, non
bersagliati da lungi, spacciati da petto a petto co’ brandi. Alaimo
sfavillante in volto, corre per ogni luogo, agli steccati, agli
spaldi, ov’è maggior l’uopo, ove più aspro il pericolo; sopravvede i
movimenti del nimico, regge tutta la difesa, rifornisce gli stanchi
co’ freschi guerrieri, supplisce l’arme, esorta, e combatte. Con esso
i condottieri, i cittadini di maggior nome adopran tutti secondo la
prova estrema e disperata: in tutto il popolo è una virtù. «Viva
Messina e libertà;» e torna la lena a’ petti, e s’addoppia il vigore
alle braccia, e non è chi curi di colpi e di morte. Nel fitto nembo
de’ tiri vedeansi le donne sopraccorrer franche, piene i grembiali di
sassi, cariche di saette a fasci, di fiaschi e cibi a ristorare i
forti fratelli. E quali mostrando lor bambini in braccio, ricordavano
che li sgozzerebbe quello spietato straniero; e che vedrebbero rapite
le sacre vergini, contaminati i casti letti, strage e vergogna, e
spianata Messina, se fino al l’ultimo fiato non si pugnasse. Così
infiammati i nostri da’ più santi affetti dell’animo, i nimici da
avarizia e paura de’ duci, travagliavansi da mattino a vespro; ma la
furia dello assalto indarno contro la nobil cittade si consumò.
Stendeasi a pie’ delle mura spaventosa ghirlanda di fracassate
macchine, spezzate armi, cadaveri mutili e abbronzati atteggiati in
ogni più strana convulsione di morte; e fu maggiore assai il macello
de’ Francesi che degli Italiani dell’oste, perchè, noti alle insegne,
men li bersagliavano i nostri. Il re sul limitare della chiesa di
Santa Maria, rodeasi di rabbia agli impotenti assalti, quando un
dottor Bonaccorso35 l’imberciò dalle mura con bel tiro di
mangano. Cadderne due cavalieri francesi, fattisi innanti in quell’attimo per caso, o eroic’atto; e il re lasciava precipitosamente il luogo, perdendo nell’avversa fortuna quell’indomito suo coraggio. Alfine visto ch’anelanti e sanguinosi d’ogni dove piegavano i suoi e il tristo dì volgeva a sera, fece suonare a raccolta. Un grido rintronò a questo per tutta la corona de’ muri; e impetuosamente i cittadini saltando fuora, inseguiano i ritraentisi come in rotta, motteggiavanli e ammazzavanli; che infin sotto gli occhi del re spogliarono i cadaveri. E seguiva in città un abbracciarsi a vicenda, un lagrimar di gioia, un tripudio cui null’altro al mondo agguaglia. Alaimo, l’eroe di Messina, ricordava le geste, rendea merto a’ più valorosi a nome della patria, e tra i più valorosi alle donne, delle quali alcuna riportò onor di ferite in quella tenzone. Poco lutto a queste gioie si mescolò, per aver pugnato i nostri da’ ripari. La notte uno stuolo condotto da Leucio arrisicatissimo combattitore, con nuova strage si saziò dei nemici, sorprese gli assonnati, i desti contenne con la paura, e tornossi carico di bottino.
Indi quanta esultanza nella città, rammarico e spavento lasciava quel sanguinoso giorno nel campo. Qual toro sgarato, dice il Neocastro, gittossi Carlo a giacere, men da fatica che dal cruccio dell’animo: e girava intorno lo sguardo, e vedea scoramento; ripensava a Messina, alla Sicilia, a Piero, e maggiori dispetti il dilaniavano. L’assalto non rinnovò più mai; ma con forti posti occupò le uscite; pose i mangani a scagliar contro le porte una tempesta di sassi36. Scese anco il superbo a tentar la fede d’Alaimo, senza comprendere che da tanta altezza di virtù non si precipita al più schifo ed esecrando vitupero della tradigione. Offrivagli occultamente: perdonata ogni colpa a Messina, fuorchè a sei de’ più facinorosi; a lui diecimila once d’oro, rendita di annue once dugento, onori e dignità a suo grado: mandavagli pergamena bianca col suggello reale: Alaimo scrivesse. E Alaimo, fattagli fiera risposta, tornava ad esortare i cittadini; tornava a provveder le difese: e a rallegrar la plebe afflitta dallo stretto blocco, apriva i granai occultati da antiveggenza nei primi tempi. Del resto non si patì penuria; sovvenendo anco la pescagione, sì abbondante che Bartolomeo de Neocastro l’appone a miracolo37. Messina vincitrice rideasi ormai dell’assedio, quando l’avvenimento di Pier d’Aragona l’accelerò a lietissima fine.
Note
- ↑
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 61, 62. Queste son le parole, ch’egli mette in bocca a re Carlo.
- Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit. pag. 265.
- Giach. Malespini, cap. 210.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 31.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5. - ↑ Docum. VI. La rivelazione di Messina era accaduta il 28 aprile; il 9 maggio Carlo scrisse questa lettera a Filippo l’Ardito. Abbiamo nella citata raccolta di Rymer, tom. I, part. 2, pag. 204, l’avviso che Ferrante di Castiglia dava a re Eduardo d’Inghilterra il 26 maggio della rivoluzione di Sicilia, ma senza particolareggiare i fatti.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 361.
Gio. Villani, Giachetto Malespini, e Cron. della cospirazione di Procida, ne’ luoghi citati di sopra. - ↑ Bolla in Raynald, Ann. ecc. 1282, §§. dal 13 al 18.
- ↑ Ave rex Judeorum, et dabant ei alapam; ave rex Judeorum, et dabant ei alapam. Gio. Villani, lib. 7, cap. 63.
- ↑ Docum. VII.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 361, Villani, Giachetto Malespini, e la Cron. della cospirazione nei luoghi citati.
- ↑ Raynald, Ann. ecc. 1282, §. 20.
La bolla è data d’Orvieto a 4 giugno 1282. - ↑ Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282. Post corruptionis amara discrimina, pag. 26 e seg.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 367.
- ↑
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 64, 65.
- Paolino di Pietro, in Muratori, R. I. S., tom. XXVI, pag. 88.
- Anon. chron. sic., cap. 39.
- Saba Malaspina, cont., pag. 367, 368, 381.
- Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.
- Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 270.
- Montaner, cap. 43.
- Bart. de Neocastro, cap. 32.
- D’Esclot, cap. 82.
- Annali di Genova, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 31.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 32 e 34.
- ↑ * Bart. de Neocastro, cap. 33, 35, 36.
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 66.
Saba Malaspina, cont., pag. 373, porta 500 cavalli e 1,000 pedoni, ma riferisce questa fazione come avvenuta dopo il cominciamento dell’assedio di Messina. In questo s’accordan con esso Gio. Villani, e la Cron. della cospirazione, loc. cit., pag. 266.
A me è parso, quanto al tempo, seguir Neocastro e Speciale, sì per esser nazionali, e sì perchè non è probabile che i Messinesi quando furono assediati da tanto esercito, volessero o potessero mandar gente alla difesa di Milazzo.
I documenti che è venuto fatto di trovare ai tempi presenti, aggiungono molta fede all’autorità del Neocastro e dello Speciale, attestando irrefragabilmente molti particolari riferiti da loro. Tale il riscatto di Arrigo Rosso, di cui il Neocastro. Si ritrae dal diploma ch’io pubblico nel docum. XII, e da un altro dato di Avellino il 26 marzo 1284, che al par di moltissimi altri citerò senza pubblicarlo, per non raddoppiar la mole di questo libro, che non è codice diplomatico. La somma di tal diploma del 26 marzo, tratto come il primo dal r. archivio di Napoli, reg. 1283, A. fog. 125, a t. è questa: «per misericordia» abbiam liberato Arrigo Rosso da Messina, preso nel conflitto di Milazzo: egli ha domandato quetanza dall’amministrazione della Segrezia di Calabria che un tempo maneggiò, ed ha offerto a ciò mille once: accettiamo il danaro, e accordiam la quetanza.
Ma notisi che l’ordine della liberazione è dato il 29 marzo, e la quetanza per le mille once il 26, nella quale si dice, per salvar le apparenze, essersi già messo in libertà il prigioniero. Il ripiego fu trovato naturalmente perchè non volea confessarsi riscatto per un cittadino non preso, come credeano gli angioini, in giusta guerra, ma ribelle colto con le armi alla mano. - ↑ Bart. de Neocastro, cap. 36 e 37.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5. - ↑
- Diploma del 15 agosto 1282, in Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131.
- Diploma del ..... 1282, nei Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 117.
- Si ritrae che questo nobil uomo era stato nel 1274 giustiziere in Principato e terra Beneventana, da un diploma di agosto 1274, pubblicato dal sacerdote Buscemi nella vita di Giovanni di Procida, docum. 4, sopra una copia ms. della Bibl. com. di Palermo, cavata dal r. archivio di Napoli; nella quale è l’errore: Alaymo de Lentini militi Justitiario Principatus et Terræ Laboris in vece di Terre Beneventane, come dice l’originale, ch’io ho riscontrato nel registro segnato 1273, A, fog. 267 a t.
- In un altro diploma del r. archivio di Napoli, reg. segnato 1270, B, fog. 9, a t. in data del 29 ottobre 1279, per alcune prestazioni alla chiesa di Messina, si legge al margine: Alaymo de Lentini et sociis secretis Sicilie. Donde si conferma che Alaimo era nobile uomo, adoperato ne’ maggiori ufici dello stato, e ricco da prender in affitto quel della Segrezia. Un altro diploma del penultimo febbraio 1278, r. archivio di Napoli, reg. 1268, A, fog. 141, è indirizzato a Giovanni di Lentini milite, consigliere e famigliare del re: e questo Giovanni si vede portulano e procuratore di Sicilia in molti altri diplomi dello stesso anno 1278, reg. citato, fog. 96, 137, 138, ec.
- ↑
- Bart. de Neocastro, cap. 38.
- Gli Annali di Genova, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, portan lo sbarco a 3 agosto, forse confondendolo col cominciamento degli assalti.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 65, seguendo Giachetto Malespini, cap. 211, dice a 6 luglio.
- Saba Malaspina, cont., nota come le ciurme si dessero a mangiar le uve già mezzo mature per la bella esposizione del luogo; il che ne’ primi di luglio non potea certo avvenire.
E ciò sempre più mi conferma della poca fede che meritino il Villani e i suoi guidatori, o seguaci in queste istorie del vespro. - D’Esclot, cap. 82, dice senza data lo sbarco a Santa Maria de Rocha-Mador.
- ↑
- Bart. de Neocastro, cap. 38.
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5 e 7.
- Saba Malaspina, cont., pag. 368 e 369.
- D’Esclot, cap. 82.
- ↑ Ribaldi si diceano i saccomanni, o i soldati più vili. Questa voce appunto in sua latinità adopra lo Speciale.
- ↑
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 6.
- Saba Malaspina, cont., pag. 369-70.
- Giachetto Malespini, cap. 211.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 68.
- Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 268.
- Fra Tolomeo da Lucca, Hist. Ecc., lib. 21, cap. 6, in Muratori, R. I. S., tom. XI.
- ↑ Bart. de Neocastro, cap. 39. Si noti che qui e in altri luoghi io talvolta riporto le parole medesime dello storico contemporaneo, là dove mi sembrano più vivaci.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 68. - ↑ Bart. de Neocastro, cap. 40.
Rocco Pirri, Sicilia Sacra, tom. I, pag. 407. - ↑
- Nic. Speciale, lib. 1, cap. 7.
- Saba Malaspina, cont., pag. 372.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 6º.
- Giachetto Malespini, cap. 211; i quali due trascrivono il principio della canzone:
Deh com’egli è gran pietate
Delle donne di Messina,
A chi Messina vuol guastare, ec.
Veggendole scapigliate
Portando pietre e calcina.
Iddio gli dea briga e travaglia
- Bart. de Neocastro, cap. 42, narrando un assalto dato alla città, fa menzione degli stessi particolari.
- Gli aiuti delle altre città confermansi da un diploma del 15 agosto 1282, in Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 131, nel quale si legge il titolo: Tempore dominii sacrosanctae Romanae Ecclesiae, et felicis Communitatis Messanae anno primo. Nos Alaimus de Leontino, Miles, Capitaneus civitatum Messanae, Cataniae, et a Tusa usque ad Aguliam Augustae; consilium et comune praedictae civitates Messanae, etc. Per questo fu accordata ai cittadini di Siracusa nel comune e distretto di Messina, la franchigia delle dogane, dritti di pesi e misure, e altre gravezze, in merito d’aver mandato giusta forza di cavalli e di fanti, nel presente assedio dell’ingente esercito di re Carlo, e d’aver tenuto fede a Messina.
- ↑ Bart. de Neocastro tien la prima di queste opinioni; Giachetto Malespini, seguito dal Villani e dalla Cron. an. sic., la seconda; Saba Malaspina, senza dir nè l’uno nè l’altro, porta il fatto della venuta del cardinale a Messina.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 371, scrive quidam Antropi cives archipopulares. Alla interpretazione dellAntropi indarno mi sono affaticato. L’egregio mio amico G. Daita, professor di eloquenza in Palermo, giovane d’alto ingegno e molta perizia nelle lettere latine, pensa che con quella voce, che in greco suona uomo, Malaspina volesse significar filantropi, o veramente scaltri, bravi, uomini di tutta botta. Io aggiognerei che forse lAntropi (che si vede così con la prima lettera maiuscola nel testo pubblicato dal di Gregorio) potrebbe essere nome proprio di qualche famiglia.
- ↑
- Bart. de Neocastro, cap. 41.
- Saba Malaspina, cont., pag 370-71.
- Gio. Villani, lib. 7, cap. 66 e 67.
- Giachetto Malespini, cap. 211.
- Cron. della cospirazione di Procida, pag. 267.
- Nic. Speciale, lib. 5, cap. 9.
- ↑ Gio. Villani, lib. 7, cap. 66.
- ↑ Nic. Speciale, lib. 5, cap. 9.
- ↑ Saba Malaspina, cont., pag. 371.
- ↑ * Bart. de Neocastro, cap. 41.
- Saba Malaspina, cont., pag. 371-72-73.
- ↑ Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.
- ↑ Stromento da batter le mura, che terminavasi in un capo di gatto, come appo gli antichi l’ariete.
Chiamavasi anche gatto una fortissima tettoia mobile su ruote o altrimenti, di che coprivansi gli assalitori mentre percotean le mura. Era la tettoia di grosse travi a graticcio, coperta di assi, e foderata di cuoio, e talvolta anche sormontata di uno strato di terra, da scemare e sostener l’urto di ciò che gettasser d’in su i muri gli assediati. Vedi d’Esclot, cap. 161 e seg., e Bartolomeo de Neocastro, cap. 110, che ne fanno menzione, l’uno nell’assedio di Girona, l’altro in quel d’Agosta. - ↑ Torricciuole di legno mobili su ruote interiori. In cima v’era congegnata una lunga trave, che serviva di ponte agli assalitori, calandosi sul muro quand’era approcciata la torricella. Questa così somigliava a una cicogna che stenda il lungo collo; e propriamente si chiamava cicogna o telone la trave. Veg. Niccolò Speciale, lib. 3, cap. 22, nell’assedio del Castel d’Aci.
- ↑ Bartolomeo de Neocastro dice maestro. Questo vocabolo aggiunto a titoli d’uficio era dignità: maestro giustiziere, maestro de’ conti; aggiunto ad arte avea il significato che oggi conserva in Italia. Ma par che ai soli dottori in medicina o altra scienza si dicesse assolutamente maestro, in titolo d’onore: di che, per lasciar le tante memorie pubblicate e notissime de’ secoli XIII e XIV, citerò solo le numerose cedole reali ad avvocati, medici, e cerusici, chiamati tutti assolutamente magister, ch’è appunto il dottore o professore d’oggidì.
- ↑ Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.
Bart. de Neocastro, cap. 42. - ↑ Bart. de Neocastro, cap. 43.