La gelosia di Lindoro/Atto III

Atto III

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Atto II Appendice

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA.

Don Roberto e Lindoro.

Lindoro. Come sperate, signor padrone, di poter scoprire la verità in mezzo a tante menzogne, a tante cabale, a tanti artifizi?

Roberto. Finora non abbiamo pensato alla cosa più necessaria, e dalla quale si doveva principiare. Non abbiamo pensato a sentire, ad interrogare, a costituire mio figlio.

Lindoro. Non dirà niente, o mentirà come gli altri1.

Roberto. C’è una maniera assai facile per iscoprire o dubitare almeno della segreta sua inclinazione. Sei ricusa di maritarsi, si può temere; s’egli sposa la vedova, non v’è niente che dire. [p. 156 modifica]

Lindoro. Un uomo ch’ama una femmina maritata, può ben anche maritarsi e conservare la sua passione.

Roberto. Oh, questo è troppo. Il vostro sospetto, la vostra malizia eccede i limiti dell’onestà. Se siete capace di pensar sì male degli altri, fate sospettare di voi stesso.

Lindoro. Orsù, signore, voglio arrendermi ancora per questa volta ed attendere questa nuova scoperta. Come pensate voi di condurvi col signor don Flammio?

Roberto. Gli ho scritto una lettera, l’ho consegnata al contadino ch’ha portato il cesto di peri... A proposito, guardate se la gelosia v’accieca, se la passion vi trasporta! Mio figlio manda i peri per la famiglia, e voi lo prendete per un presente particolare a Zelinda, insultate quell’uomo, perdete il rispetto a me, alla mia casa, ed io ho ancora tanto amore per voi?

Lindoro. È vero, avete ragione, sono acciecato, son fuori di me stesso. Vi domando perdono... E così, signore, che cosa gli dite nella vostra lettera?

Roberto. Gli ordino di ritornare immediatamente in città.

Lindoro. Ma! se la lettera scritta in francese è scritta dal signor don Flaminio, oggi sarà segretamente in Pavia, e il contadino non lo ritroverà più.

Roberto. Ecco quello che mi fa credere maggiormente che quella lettera non è sua. Mingone m’assicura che l’ha lasciato al castello, e che l’aspetta innanzi sera con un abito e della biancheria che ha mandato a prendere.

Lindoro. Bisognerebbe mandarlo subito.

Roberto. Subito. In due ore di tempo sarà arrivato.

Lindoro. Oh, ce ne vorranno ben quattro.

Roberto. No, perchè è qui colla sedia.

Lindoro. Colla sedia? Un contadino avea bisogno di venir in sedia?

Roberto. Ne ha bisogno per portar l’abito e la biancheria.

Lindoro. (Scommetto che, colla stessa sedia, è venuto alla città don Flaminio). (da sè)

Roberto. Vado a spedirlo immediatamente.

Lindoro. Signore, vi vorrei pregar d’una grazia. [p. 157 modifica]

Roberto. Dite, dite, ma fate presto.

Lindoro. Permettetemi che vada anch’io colla sedia...

Roberto. No, no, non vonei che faceste peggio. Il vostro caldo... I vostri sospetti...

Lindoro. Vi giuro sull’onor mio che non parlerò.

Roberto. Ma che premura avete d’andar voi stesso?

Lindoro. Vi dirò... La premura è giustissima. Voi gli scrivete ch’ei venga, ma egli potrebbe aver delle ragioni per non venire. Se vado io in persona per ordine vostro, crederà che la cosa sia molto più premurosa, e non mancherà di venire.

Roberto. Se potessi compromettermi della vostra prudenza...

Lindoro. Non dubitate. Vi do la mia parola d’onore.

Roberto. Quand’è così, andate. Vi mando qui il contadino, partirete con lui.

Lindoro. Sì, signore, e partiremo immediatamente.

Roberto. Andate che il cielo vi benedica... Ma non volete prima veder vostra moglie?

Lindoro. Sì, signore, la vedrò, le dirò addio.

Roberto. Poverina! è serrata nella sua camera. Piange, si dispera, si lamenta di voi, la chiamerò, e la farò venire. Consolatela, poverina! Amatela... Sì, lo spero, vedrete ch’ella Lo merita. (L’amo come s’ella fosse del sangue mio. Quest’è effetto della bontà, del merito e della virtù). (da sè, e parte)

SCENA II.

Lindoro, poi Mingone.

Lindoro. Nessuno mi leverà dalla testa che don Flaminio non sia in Pavia, ch’egli non sia venuto con questa sedia, e che non sia d’accordo con Zelinda e Fabrizio. Ma ecco Mingone, scoprirò io bene da lui...

Mingone. (Io sono in un imbarazzo del diavolo). (da sè)

Lindoro. Galantuomo, dove avete la sedia? [p. 158 modifica]

Mingone. Signore... Il padrone può dir quel che vuole... Con voi in sedia io non ci voglio venire.

Lindoro. E perchè non ci volete venire?

Mingone. Perchè... Perchè... Sono pover’uomo, ma sono galantuomo, e non voglio essere strapazzato.

Lindoro. Scusatemi, caro amico. Ero in collera con mia moglie... Siete voi maritato?

Mingone. Così non lo fossi.

Lindoro. Griderete anche voi qualche volta.

Mingone. Qualche volta? Dalla mattina alla sera.

Lindoro. E non vi nascono mai di questi accidenti?

Mingone. Signor no, mai. Quando sono in collera, bastono mia moglie, e non insulto nessuno.

Lindoro. Oh se sapeste quante volte sono stato in procinto... Ma la convenienza non lo permette.

Mingone. Oh, voi altri signori mariti, colle vostre convenienze, ne sopportate di belle!

Lindoro. Sì, avete ragione. Ma la vostra sedia dov’è?

Mingone. Io sono obbligato a ritornare a piedi.

Lindoro. Perchè ritornare a piedi, se siete venuto in sedia?

Mingone. Perchè il cavallo s’è fatto male, e bisogna ch’io lo conduca dal maniscalco.

Lindoro. Voi non l’avete detto al padrone.

Mingone. No, perchè non dica ch’io l’ho storpiato, e che non mi gridi.

Lindoro. E come farete voi a portare l’abito e la biancheria?

Mingone. Non è che un fagotto, lo2 porterò sulla testa.

Lindoro. Andiamo a vedere il cavallo che male ha. Non sarà forse gran cosa; lo faremo visitare in passando.

Mingone. Se non può camminare. (scaldandosi)

Lindoro. Ne prenderemo un altro.

Mingone. Io non ci voglio venire.

Lindoro. Amico, ci conosciamo.

Mingone. Di che? (confuso) [p. 159 modifica]

Lindoro. Oh via.

Mingone. Non capisco.

Lindoro. Vi capisco io.

Mingone. Di che?

Lindoro. Orsù, alle corte. Il signor don Flaminio è in città.

Mingone. In città? (confuso)

Lindoro. Ed è venuto con voi.

Mingone. È venuto con me?

Lindoro. E v’ha ordinato di non parlare.

Mingone. Di non parlare?

Lindoro. E di fingere di portargli l’abito e la biancheria.

Mingone. Come diavolo sapete voi tutto questo?

Lindoro. Non sapete ch’io sono il suo segretario?

Mingone. Ma questa cosa non l’ha da sapere nessuno.

Lindoro. Nessuno fuori di me. Me l’ha scritto.

Mingone. Ve l’ha scritto?

Lindoro. Sì, certo, e mi raccomando di non dir niente, e v’avverto di non parlare con nessuno.

Mingone. Io? Non parlo se mi danno la corda.

Lindoro. Bravissimo, così mi piace.

Mingone. Ma... voi volevate montar in sedia con me.

Lindoro. Ho fatto per provarvi.

Mingone. Ah, ah, per provarmi! per vedere s’io son secreto! bravo bravo; ah io! O corpo di bacco! in materia di segretezza farei a tacere con un muto a nativitatibus.

Lindoro. E dov’è presentemente il signor don Flaminio?

Mingone. Non lo so.

Lindoro. Dov’è smontato?

Mingone. Non ve l’ha scritto?

Lindoro. No; m’ha detto ove sarà questa sera, ma ora mi premerebbe infinitamente di vederlo.

Mingone. È smontato in una casa sulla piazza del Castello, ma io non so chi ci stia. nota 3 [p. 160 modifica]

Lindoro. Me la sapreste insegnar questa casa?

Mingone. Non sono molto pratico della città, ma la troveremo.

Lindoro. Prendete il vostro fagotto, e incamminatevi, che vi terrò dietro.

Mingone. V’aspetterò all’osteria del Biscione. Ho da riscuotere certo denaro, e poi qui non mi hanno dato nemmeno un bicchier di vino; ho bisogno di reficiarmi un poco.

Lindoro. Sì, andate e aspettatemi; vi pagherò io da bevere. Ma non parlate a nessuno.

Mingone. Chi? Io? Puh! Fate conto ch’io sia una muraglia, (parte)

SCENA III.

Lindoro solo.

Posso sentir di più? Può esser la cosa più chiara, più convincente? Dica ora don Roberto, se può, che la lettera non è di suo figlio, e ch’io sono un pazzo, un malizioso, un maligno. Questa volta l’artifizio m’ha servito più della collera. Seguitiamo così, finchè giunga a scoprire il gran punto, ed a far toccar con mano la verità. Mi crederanno in campagna; non avranno alcun sospetto, alcun timore di me. Farò la ronda al luogo dov’è smontato don Flaminio; lascierò delle spie qui d’intorno. Vedrò chi va, chi viene, chi entra da una parte, e chi esce dall’altra. Ma ecco Zelinda. Facciamo de’ sforzi, e continuiamo a dissimulare.

SCENA IV.

Zelinda e detto.

Zelinda. Andate via, Lindoro?

Lindoro. Sì, ve l’avrà detto il signor don Roberto.

Zelinda. Me l’ha detto. Ritornarete4 voi presto? Dialettale. [p. 161 modifica]

Lindoro. Oh sì. Domani sarò qui di ritorno.

Zelinda. Domani? E perchè no questa sera?

Lindoro. (Finta! menzognera!) Vedete bene: l’ora è tarda. Non si può andare e tornare.

Zelinda. È vero. L’aria della notte vi potrebbe far del male.

Lindoro. (Che finissima carità).

Zelinda. Ma come andate?

Lindoro. In sedia.

Zelinda. Voglio dire: non vi mettete5 niente per ripararvi dall’aria?

Lindoro. Faccio conto di andar così come sono. Datemi il mio cappello.

Zelinda. Mettetevi il gabbano.

Lindoro. No, no, non è freddo.

Zelinda. Aspettate. Voglio che vi mettiate il gabbano. (va all’armadio e tira fuori un gabbano)

Lindoro. (Chi mai crederebbe ch’ella sapesse fingere a questo segno).

Zelinda. Eccolo qui, credetemi, starete meglio. (viene col gabbano)

Lindoro. Sì, sì, come volete. Datelo qui.

Zelinda. Lasciate che ve lo metta in dosso.

Lindoro. Me lo metterò io.

Zelinda. No, no, voglio far io. Infilate il braccio.

Lindoro. Me lo metterò sulle spalle.

Zelinda. No, caro marito, voi avete un abito buono, e la polvere lo rovinerà.

Lindoro. (M’insegna a fingere a mio dispetto). (lascia fare)

Zelinda. Ah se potessi sperare un poco di consolazione! (mettendo il gabbano)

Lindoro. La consolazione l’avrete fra poco. (con ironia)

Zelinda. Il cielo lo voglia. (termina di vestirlo)

Lindoro. (Il cielo permetterà che la menzogna si scopra). (da se) Il cappello.

Zelinda. Il buono non ve lo do.

Lindoro. Datemi quel che volete. [p. 162 modifica]

Zelinda. (Va all’armadio, e torna con un cappello vecchio ed un bastone) Tenete questo. Per campagna è buonissimo. Tenete il vostro bastone.

Lindoro. (Tutte le pulizie immaginabili purch’io parta), (da sè)

Zelinda. Andate via...

Lindoro. A rivederci... (in atto di partire)

Zelinda. Aspettate. (toma all’armadio)

Lindoro. (Faccio una fatica orribile a contenermi). (da sè)

Zelinda. Tenete i vostri guanti.

Lindoro. Vi ringrazio.

Zelinda. Ah caro marito, se conosceste il mio cuore...

Lindoro. Sì, sì, lo conosco... a rivederci.

Zelinda. Andate via... (patetica)

Lindoro. Bisogna bene ch’io vada.

Zelinda. E andate via... così...

Lindoro. Come?

Zelinda. Senza... senza nemmeno abbracciarmi?

Lindoro. Ci rivedremo domani... ma... venite qui, abbracciamoci6. (S’abbracciano) (L’amo ancor quest’ingrata!) (da sè)

Zelinda. S’asciuga gli occhi piangendo.

Lindoro. (Oh cielo! che lagrime son quelle?) (commosso) (Ah lagrime di rossor, di rimorso, di tradimento). (da sè) Addio, a rivederci. (risoluto)

Zelinda. Sentite... (gli stende le braccia)

Lindoro. (Non posso più). (da sè) Non ho tempo da perdere, a rivederci. (parte senza guardarla)

SCENA V.

Zelinda sola.

E partito. Ah che cova tuttavia nel cuore il sospetto e la gelosia! Ma... e non parla più di sortir di questa casa. Cosa vuol dir questa novità? (resta sospesa) [p. 163 modifica]

SCENA VI.

Fabrizio e detta.

Fabrizio. Zelinda. (guardando intorno se è veduto)

Zelinda. Ah Fabrizio, voi m’avete messa nel grande imbarazzo!

Fabrizio. E andato via Lindoro?7

Zelinda. Sì, è partito. (dolente)

Fabrizio. V’ho da dire una novità.8

Zelinda. E qual novità?9

Fabrizio. Don Flaminio è venuto a Pavia.

Zelinda. E dov’è?

Fabrizio. In casa della cantatrice.

Zelinda. Presto, presto, correte; mio marito non sarà partito. Fermatelo che non parta più.

Fabrizio. Anzi è necessario ch’ei vada.

Zelinda. No, vi dico; anderò io ad arrestarlo... (in atto di partire)

Fabrizio. Ma no, ascoltatemi. Voi volete precipitarvi.

Zelinda. Per qual ragione? Che male c’è?

Fabrizio. Se voi trattenete Lindoro, bisogna che gli diciate il perchè. Se gli dite che don Flaminio è in città, voi autenticate la corrispondenza con lui.

Zelinda. E s’ha da permettere che Lindoro vada al Castello, e che non ritrovi il padrone?

Fabrizio. Che gran male è questo per lui? Che gran mancamento è per voi? Se non sapeste ch’egli è tornato, lo lasciereste partire liberamente.

Zelinda. Come avete saputo ch’egli è arrivato?

Fabrizio. M’ha scritto una lettera per Mingone.

Zelinda. Il contadino lo sa che don Flaminio è venuto?

Fabrizio. Sì, ma non l’ha detto a nessuno. Mi ha dato la lettera, ed io ho mostrato di non saperlo.

Zelinda. Ma voi dicevate che non avendo risposto alla lettera [p. 164 modifica] ch’ei v’ha scritto coll’inclusa per la signora Barbara, non sarebbe venuto.

Fabrizio. Io credeva così, perchè domandava alla sua bella un abboccamento concertato con me, e non vedendo questo concerto, io credeva che non venisse. Ma si vede ch’è innamorato davvero, e che l’impazienza l’ha fatto venire, e smontare alla di lei porta.

Zelinda. Eccolo precipitato.

Fabrizio. Giacchè Lindoro è in campagna, che mal sarebbe che voi andaste dalla virtuosa che vi conosce, e procuraste di parlare con don Flaminio, e che vedeste di ricondurlo per la strada del suo dovere e del suo interesse? Se non vi riuscite, non perdete niente, e avrete almeno adempito al dovere, alla gratitudine, alla cordialità.

Zelinda. E se si accrescono i sospetti contro di me?

Fabrizio. Prima di tutto, nessuno saprà dove voi andate, e poi, quand’anche si venisse a sapere, allora tutte le cose si pongono in chiaro, e voi avrete il merito d’una sì buon’azione.

Zelinda. Non so che dire. Mi dite tante buone ragioni che son forzata ad arrendermi, ed a tentare.

Fabrizio. Voi siete la più virtuosa donna di questo mondo.

Zelinda. Non vaglio niente, ma son certa di aver buon core. Sì, ho buon core per tutti, ma la sorte finor m’ha perseguitata. Voglia il cielo che sieno secondate le oneste mire della mia leale e perfetta riconoscenza. (parte)

SCENA VII.

Fabrizio solo.

Donna savia, onesta, amorosa! Donna veramente di garbo. Eh davvero, davvero non si può negare la dovuta stima alle donne: hanno dello spirito, del talento e del cuore. Ve ne sono moltissime che fanno arrossire gli uomini. Il loro sesso è adorabile per le attrattive della bellezza, e per la delicatezza dei sentimenti. (parte) [p. 165 modifica]

SCENA VIII.

Camera in casa di Barbara, colla spinetta.

Tognina sola.

(Accomoda la spinetta, le carte di musica, le sedie) In verità sono ormai annoiata di dover far io sola tutte le faccende di casa. La padrona mi va sempre dicendo che prenderà un servitore, e in quindici giorni che sono qui, non l’ha ancora preso. Ho paura che le cose sue non vadano troppo bene. Dice ch’è nata bene, che fa il mestiere per necessità, ma la necessità combatte colla miseria. Sarebbe meglio per lei che si maritasse. Se questo signor don Flaminio dicesse davvero, sarebbe una fortuna per lei. Ma è venuto a posta dalla campagna, è venuto segretamente. Sono nel giardino che parlano seriosamente, tutto questo mi par buon segno, e mi dà buona speranza. Avrei piacer che si maritasse. È una buona giovane, una buona padrona; in quel caso, avrebbe in casa dell’altra gente, ed io la servirei col maggior piacere del mondo.

SCENA IX.

Don Filiberto e detta.

Filiberto. Si può venire?

Tognina. Venga, venga.

Filiberto. Vi riverisco, quella giovane.

Tognina. Serva sua. Che cosa comanda?

Filiberto. Sta qui la signora Barbara?

Tognina. Sì signore.

Filiberto. È in casa?

Tognina. Sì signore; è in casa, ma presentemente è impedita. Se ha qualche cosa da dirvi...

Filiberto. Non si potrebbe riverirla un momento? In due parole mi spiccio, e la lascio in tutta la sua libertà. [p. 166 modifica]

Tognina. Signore, scusatemi, io non andrò a sturbarla presentemente, perchè so ch’ella ha per le mani un affare di gran premura.

Filiberto. (Vorrei pure assicurarmi se Fabrizio mi ha detto la verità). (da sè) Quello ch’io devo dire alla signora Barbara, non è forse meno interessante per lui, e può essere ch’ella ci trovi il suo conto, meglio dell’affare ch’ha per le mani.

Tognina. Oh mi pare difficile che vi sia di meglio per lei. Ma, se è lecito, signore, qual è l’affare che le dovete comunicare? Se veramente preme, anderò ad avvertirla.

Filiberto. Andate immediatamente. Ditele ch’io sono un mercante assai conosciuto in questa città, ch’ho da farle vedere una lettera di un mio corrispondente di Genova, e ch’ho ordine di trattarla per quel teatro.

Tognina. Se non è altro che questo, dispensatemi per ora dall’incomodarla.

Filiberto. Ma ella potrebbe perdere l’occasione...

Tognina. Non serve niente. Credo che la mia padrona non sia più in caso di accettar questa recita?

Filiberto. Perchè? È forse impegnata per qualch’altro teatro?

Tognina. Non signore, ma vi dirò. Sappiate ch’ella fa il mestiere mal volentieri.

Filiberto. Non lo so, ma non importa. E così?

Tognina. È così, è in trattato di maritarsi.

Filiberto. Veramente di maritarsi?

Tognina. Veramente di maritarsi! Che dimanda curiosa! Se si marita, non si ha da maritar veramente?

Filiberto. Vi dirò, vi sono qualche volta de’ matrimoni...

Tognina. Sì, vi ho capito. Ma la mia padrona non è di quelle.

Filiberto. Tanto meglio per lei. E credete voi che il marito le impedirà di cantare?

Tognina. Oh se prende questo, v’assicuro che non avrà più bisogno di montar sulle scene. E poi un uomo della sua condizione!... E anche assai che la sposi dopo di aver cantato.

Filiberto. (Pare che sia tutto vero, ma non posso ancor [p. 167 modifica] persuadermi). (da sè) Ditemi, quella giovane, in confidenza, si potrebbe sapere chi è questa persona che la vorrebbe sposare?

Tognina. Siete venuto qui per proporle una recita, o per proporle qualch’altra cosa?

Filiberto. No, sono un galantuomo, e m’interesso per il bene di tutti. Mi dite che la vostra padrona è buona, di buon carattere, e potrebb’essere facilmente ingannata. Vi sono dei discoli, vi sono degl’impostori, non sarebbe gran fatto che qualcuno tentasse di rovinarla. Se sapessi chi è la persona, potrei illuminar voi, e voi farvi merito, illuminando lei.

Tognina. In verità, voi mi mettete in grande apprensione. Il partito è buonissimo. Ma appunto il troppo bene mi potrebbe far dubitare...

Filiberto. Eh eh, figliuola mia. I giovinotti la sanno lunga. Se trovano il terreno debole, non mancano di profittare.

Tognina. Se questo fosse, darei alla disperazione per conto suo.

Filiberto. Conoscete voi la persona?

Tognina. La conosco sicuramente.

Filiberto. Come si chiama?

Tognina. È un gentiluomo di questo paese...

Filiberto. Un gentiluomo?

Tognina. È figlio unico...

Filiberto. Figlio unico?

Tognina. Alle corte, è un certo signor don Flaminio...

Filiberto. Figliuolo del signor don Roberto?

Tognina. Per l’appunto. Lo conoscete?

Filiberto. Oh non conosco altri che lui.

Tognina. Vi pare che sia cattivo partito?

Filiberto. Sarebbe ottimo.

Tognina. Lo credete capace d’ingannare la mia padrona?

Filiberto. No, ma mi pare impossibile ch’egli si sia impegnato, come voi dite.

Tognina. Oh per impegnato lo è, ne son certa. L’ama teneramente. È qui tutto il giorno da lei. È andato per affari in campagna, non ha potuto resistere, è venuto segretamente [p. 168 modifica] a vederla, ed ora sono tutti due nel giardino, che parlano, che trattano, e credo, credo che concluderanno l’affare.

Filiberto. (Ho sentito tanto che basta. Non l’avrei mai creduto). (da sè)

Tognina. Sento gente. (guardando verso la porta) Oh ecco la mia padrona. La conferenza è finita. Se volete, l’avviserò.

Filiberto. Ma è inutile dopo quel che m’avete detto.

Tognina. Non serve, io non posso sapere come siano restati. Può ancora aver bisogno di recita, e poi quel ch’ho detto, ve l’ho detto in confidenza, e dovete considerarlo come non detto; se ho parlato, ho parlato per bene, e credo aver parlato con un galantuomo. (Non so chi sia, ma non preme. Ho parlato perchè ho parlato, e ho parlato perchè non posso tacere). (da sè)

SCENA X.

Don Filiberto solo.

Ecco come si è male interpretata la lettera che mi ha fatto legger Lindoro, e come io ho male interpretato quel che mi aveva detto Fabrizio. Quest’equivoco mi ha ingannato, e mi duole infinitamente di averne parlato a donna Eleonora, e di essere stato cagione dei disordini che ne son derivati. Ma tutto si porrà in chiaro, e quest’imbroglio sarà finito. Ecco la cantatrice. Non ho più bisogno del pretesto della recita, ma per convenienza convien ch’io resti.

SCENA XI.

Barbara e detto.

Barbara. Serva umilissima. È ella, signore, che mi domanda?

Filiberto. Sono io, ch’ho l’onore di riverirla e di supplicarla.

Barbara. In che cosa la posso servire? [p. 169 modifica]

Filiberto. Un amico mio di Genova mi dà la piacevole commissione di provveder una seconda donna per quel teatro; sapendo io il di lei merito e la di lei virtù...

Barbara. Mi fa troppo onore. (con una riverenza)

Filiberto. S’ella fosse in grado d’accettare l’offerta...

Barbara. Dirò, signore... Non la ricuso affatto, ma non posso sul momento accettarla. Ho un mezzo impegno per un altro teatro.

Filiberto. (Col teatro d’amore, e don Flaminio sarà l’impresario). (da sè)

Barbara. Aspetto a momenti la risoluzione, e se vi darete l’incomodo di ripassare da me...

Filiberto. Signora, l’offerta che faccio è poca cosa per voi. Desidero che l’altra recita vi consoli, ch’abbiate una bella parte, e che facciate sempre da prima donna, (fa una reverenza e parte)

SCENA XIl.

Barbara, poi don Flaminio.

Barbara. Che complimento ridicolo! Crede ch’io mi sia piccata perchè m’ha offerto una parte di seconda donna. Non sa egli la recita alla quale aspiro.

Flaminio. Signora, mi consolo con lei. (ironico e con sdegno)

Barbara. Di che? cosa ho fatto di male? Che cosa avete con me?

Flaminio. In ogni caso, s’io sono un impostore, s’io le mancherò di parola, ella avrà una recita in pronto per continuar la sua professione.

Barbara. Ma, caro don Flaminio, scusatemi, voi prendete le cose sinistramente. Volevate voi ch’io dicessi a quel signore, che non mi curo di recite, perchè spero di maritarmi?

Flaminio. Ah sperate? non ne siete ancora sicura?

Barbara. Sì, per voi ne son sicurissima. So che m’amate, so che siete un uomo d’onore, incapace di mancarmi di fede, ma vi replico costantemente quel che v’ho detto; a costo di tutto, [p. 170 modifica] a costo d’essere una miserabile come sono stata finora, non10 acconsentirò mai a sposarvi, senza l’assenso di vostro padre.

Flaminio. Ma v’ho detto e ridetto, e vi replico nuovamente, che conosco bastantemente mio padre, ch’è docile, ch’è amoroso, che sono il suo unico e il suo caro figlio, che non lascia in tutto di contentarmi, e mi contenterà in questo ancora, e v’abbraccierà qual nuora, e v’amerà come figlia.

Barbara. Ed io, quando sarò assicurata di questo?...

Flaminio. Ma ancora non lo credete?

Barbara. Scusatemi. Ho ragione di dubitarne.

Flaminio. Voi mi fareste dire e fare degli spropositi, delle risoluzioni, delle bestialità...

Barbara. Ma compatitemi. Esaminate bene lo stato vostro; la mia condizione presente...

SCENA XIII.

Tognina e detti.

Tognina. Signora, è una giovane che vi domanda.

Barbara. E chi è?

Tognina. Non so, non l’ho mai veduta.

Barbara. Cosa vuole?

Tognina. Dice che v’ha da parlare.

Barbara. Fatela entrare.

Tognina. Signora, se mai fosse una cameriera, io non credo d’avermi demeritato...

Barbara. No, no, non v’inquietate per questo.

Tognina. (In oggi v’è tanta carestia di pane, che tutti cercano di levarlo al compagno). (da sè, parte)

Flaminio. Vedete cosa vuole, ch’io mi ritirerò.

Barbara. Perchè ritirarvi? Io non ho segreti. È una donna, non vi può dar soggezione.

Flaminio. Cosa vedo? Zelinda? (osservando fra le scene)

Barbara. Zelinda? (voltandosi) [p. 171 modifica]

SCENA XIV.

Zelinda e detti.

Zelinda. Serva umilissima di lor signori.

Flaminio. Che fate qui?

Barbara. Qual nuova avventura vi conduce da me?

Zelinda. Vi domando perdono...

Barbara. Venite in traccia di don Flaminio? (con caldo)

Zelinda. Sì signora, vengo in traccia di lui, ma per ragione onesta e decente.

Flaminio. E chi v’ha detto ch’io sono qui?

Zelinda. Me l’ha detto Fabrizio.

Flaminio. Ah! m’ha tradito l’indegno.

Zelinda. Non signore, non vi ha offeso, non vi ha tradito; non è capace d’offendervi, di tradirvi. È un servitore onorato, interessato per il bene del suo padrone, come lo sono io; e mi manda qui con quel zelo che conduce me stessa, per arrestare, se siamo a tempo, il fulmine che vi sovrasta.

Barbara. Qual fulmine? Qual novità?

Flaminio. Capisco il zelo, o la macchina, o la scioccheria. Voi venite senza proposito ad inquietarmi.

Zelinda. Eh signore, guai a voi se sa vostro padre che siete qui,11 e se penetra... (a don Flaminio) Scusatemi, signora, s’io parlo con libertà: (a Barbara) e se penetra l’attacco vostro. (a don Flaminio)

Flaminio. E che, finalmente? Non sono io il padrone della mia libertà? Non posso maritarmi a mia fantasia?

Zelinda. Non signore, non lo potete, senza perdere il rispetto a vostro padre, perdere l’amor suo, e forse forse la sua eredità.

Barbara. (Povera me! Il core me lo diceva). (da sè)

Zelinda. E molto meno lo potete presentemente, sapendo l’impegno fatto per voi colla vedova che voi dovrete sposare. [p. 172 modifica]

Barbara. (Ancora di più?) (da sè)

Flaminio. Questo è un matrimonio immaginato da mia matrigna.

Zelinda. Ma approvato, voluto, e concluso da vostro padre.

Flaminio. Ci ha da essere l’assenso mio, ed io non mancherò mai di fede a questa giovane onorata e civile... (accennando Barbara)

Barbara. Questa giovane onorata e civile si maraviglia di voi che ardite d’ingannarla e di lusingarla. Questa è la seconda volta che vi burlate di me. Non ci venite la terza...

Flaminio. Ah vi giuro sull’onor mio...

Barbara. Credo all’onor vostro, ma mi cale del mio. Non son capace di tentare la mia fortuna a costo della rovina d’una famiglia. Soffro in pace la povertà, non soffrirei i rimproveri, le male grazie, gli insulti. Ho per voi della stima; dirò anche la verità, ho per voi dell’amore, ma non a segno d’obliare me stessa, e la mia nascita, e il mio dovere. Conoscetemi meglio, e in casa mia favorite di non venire mai più. (parte)

SCENA XV.

Don Flaminio e Zelinda.

Zelinda. (Son contenta. Ho fatto il colpo. Son fortunata), (da sè)

Flaminio. Ah voi mi avete assassinato, m’avete tradito, m’avete precipitato.

Zelinda. Io tradirvi? Io assassinarvi? Voi non mi conoscete, e però parlate così. Sì, sì è veduta la lettera che avete scritta in francese. Una parola ch’io avessi detta, voi eravate precipitato; ed ho sofferto di essere maltrattata per non iscoprirvi, per non esporvi all’ira di vostro padre; e per salvare me stessa non ho altro mezzo che pubblicare la vostra debolezza, l’attacco vostro per la virtuosa.

Flaminio. Ah Zelinda, vi chiedo scusa, compatitemi per carità. Vi ringrazio di tutto quello che avete fatto per me, non vi stancate d’essermi favorevole. Non m’abbandonate, vi supplico, non m’abbandonate. [p. 173 modifica]

Zelinda. Credete voi ch’io voglia seguitare ad esservi amica, per farvi condurre a fine il disegno vostro colla signora Barbara?

Flaminio. È tanto amabile, e l’amo tanto...

Zelinda. Sì, è vero, ella è amabile, ma ha più giudizio di voi. Profittate de’ suoi sentimenti, e fate il vostro dovere.

Flaminio. Se mi fosse possibile, lo farei.

Zelinda. Bene dunque, senza nissun scrupolo ne parlerò al signor don Roberto.

Flaminio. No, vi supplico per amor del cielo.

Zelinda. Promettetemi d’abbandonare la cantatrice, se non volete ch’io parli.

Flaminio. E dovrò sacrificarmi a sposare una vedova ch’io detesto?

Zelinda. io non vi dico che sposiate la vedova, mi basta che non sposiate la cantatrice.

Flaminio. Se voi avete della bontà per me...

Zelinda. O datemi questa parola, o vado subito da vostro padre. (in atto di partire)

Flaminio. Non so che dire. Voi mi prendete in un punto...

SCENA XVI.

Tognina e detti, poi Lindoro da viaggio.

Tognina. Dov’è la padrona? V’è qui un giovane che la domanda. (alli due che sono in iscena)

Zelinda. È andata via, già un momento.

Lindoro. (Entra furioso) Ah v’ho sentita alla voce. V’ho trovati sul fatto, e più non servono le menzogne, i raggiri, le macchine, le imposture.

Tognina. (Cos’è questo negozio?) (da sè)

Zelinda. Ah Lindoro, se voi vi siete ingannato, questa è la volta, ve l’assicuro.

Lindoro. No, mi sono solamente ingannato quando ho creduto, quando ho prestato fede ad una perfida, ad un’indegna.

Tognina. Ehi, parlate bene in casa della mia padrona, (a Lindoro) [p. 174 modifica]

Flaminio. Voi siete uno sciocco, e non sapete quel che vi dite. (a Lindoro)

Tognina. Ehi, ehi, signore. (a don Flaminio)

Lindoro. Voi siete un perturbator della pace, un seduttor dell’ onestà.

Tognina. Che parole? Che bestialità son queste? (a Lindoro)

Zelinda. Ah marito mio, cosa dite?

Tognina. (È sua moglie, ora ho capito). (da sè)

Lindoro. Andate, che siete una perfida, un’ingannatrice. Oh donne, donne, chi si può fidar delle donne?

Tognina. Ehi, ehi, parlate ben delle donne, che cospetto!... (a Lindoro)

Flaminio. Vostra moglie è l’esempio della prudenza e dell’onestà.

Lindoro. Lo era, ma non l’è più.

Zelinda. Siete in inganno, ascoltatemi, ora posso dir tutto, ora saprete la verità...

Lindoro. Non vo’ sentir altro. Ne ho sentito abbastanza. Siete una perfida, e v’abbandono per sempre.

Zelinda. Abbandonarmi? Oh cieli! no, non lo merito. Ascoltatemi per carità.

Lindoro. Non vo’ sentire altro, vi dico.

Tognina. (Gli spaccherei la testa colle mie mani). (da sè)

Flaminio. Venite qui, acchetatevi. Consento che Zelinda vi dica tutto.

Lindoro. Non vo’ sentir altro.

Tognina. Ma ascoltateli, che vi venga la rabbia. (a Lindoro)

Zelinda. Il signor don Flaminio... (a Lindoro)

Lindoro. È un cavaliere indegno.

Flaminio. Ah temerario! se non rispettassi Zelinda...

Tognina. Fermatevi. (a Flaminio) Andate via. (a Lindoro)

Lindoro. Non crediate di spaventarmi... Ma saprò farmi conoscere, (parte)

Tognina. Va, che il diavolo ti trascini. Finite placidamente il vostro discorso, (dolcemente e politamente a don Flaminio e Zelinda) [p. 175 modifica]

SCENA XVII.

Don Flaminio e Zelinda.

Zelinda. Eccomi precipitata per sempre. (parie)

Flaminio. Ah il pericolo di Zelinda è urgente. Preferiscasi la giustizia all’amore. (parte)

SCENA XVIII.

Camera in casa di don Roberto.

Don Roberto e donna Eleonora.

Eleonora. Signor marito, dov’è la vostra dilettissima cameriera?

Roberto. Che parlare ridicolo! Ella non è più mia che vostra.

Eleonora. Anzi non è mia niente affatto, poichè io non me ne posso servire.

Roberto. Io credo che quando le comandate, non ricusi di far il suo debito.

Eleonora. Ecco qui; ora aveva bisogno di lei, e non c’è, e non si trova. Sarebbe per avventura nel vostro appartamento?

Roberto. Voi siete una mala lingua. Avete sempre perseguitato quella ragazza, ed io dico e sostengo ch’ella non lo merita...

Eleonora. E ch’è savia, e dabbene... (ironicamente)

Roberto. Sì, savia, dabbene, virtuosa e morigerata.

SCENA XIX.

Lindoro e detti.

Lindoro. (Entra agitato, e non fa che cavarsi il cappello.)

Roberto. Come? siete già ritornato? (a Lindoro)

Lindoro. Sì, signore, sono ritornato senza esser partito. Così fossi partito, senza esser ritornato. [p. 176 modifica]

Roberto. Cosa c’è, cos’è stato? Avete voi veduto mio figlio?

Lindoro. L’ho veduto, sì, l’ho veduto. In Pavia, in un terzo luogo, in una camera con Zelinda.

Roberto. Con Zelinda?

Eleonora. Colla giovane savia, dabbene, morigerata? (ironica)

Roberto. Oh cieli! Li avete ritrovati insieme?

Lindoro. Soli, in conferenza, in colloquio... Eh giuro al cielo, la mia riputazione non è in sicuro.

Eleonora. Eh via che siete una mala lingua! non perseguitate una giovane sì virtuosa! (a Lindoro con ironia, guardando don Roberto)

Roberto. Son fuor di me. Non so in che mondo mi sia.

SCENA XX.

Zelinda e detti.

Zelinda. Signore, sarà finalmente conosciuta la mia innocenza. (con franchezza, correndo verso di don Roberto)

Roberto. Che innocenza? Che parlate voi d’innocenza? Siete indegna dell’amor mio.

Zelinda. Ascoltatemi per carità...

Roberto. No, levatevi dagli occhi miei...

Zelinda. Signore, movetevi12 a compassione di me. (a don Roberto, piangendo e gittandosi in ginocchio, e ritiene la faccia coperta col fazzoletto.)

Roberto. Mi son lasciato ingannare abbastanza.

Eleonora. Per voi sono stata imputata di mala lingua. (a Zelinda)

Lindoro. Donna senza amor, senza fede, senza riconoscenza. (a Zelinda)

Zelinda. (Resta in ginocchio con la faccia coperta.) [p. 177 modifica]

SCENA XXI.

Don Flaminio e detti.

Flaminio. Ah padre mio amorosissimo, vi domando perdono.

Roberto. Indegno! persisti ancora nell’amare Zelinda?

Flaminio. Io amar Zelinda?

Roberto. E di che mi chiedi perdono?

Flaminio. D’un altro amore che potria dispiacervi. Zelinda è donna onorata, ed io non son capace di fiamme indegne.

Roberto. Come! Non è dunque vero?... (a don Flaminio) Alzatevi. (con ansietà a Zelinda che s’alza piangendo) E voi che m’andate dicendo? (a Lindoro)

Lindoro. Non gli credete, li ho trovati da solo a solo.

SCENA XXII.

Don Filiberto e detti.

Filiberto. Con buona grazia di lor signori. Signora donna Eleonora, datemi la permissione di ritirare la mia parola colla vedova di cui si tratta.

Eleonora. Sì, avete ragione: perchè don Flaminio ama perdutamente Zelinda.

Filiberto. No signora mia, v’ingannate. Scusatemi, amico, s’io son costretto a svelare la verità; egli ama perdutamente una virtuosa di musica.

Flaminio. È vero, non so negarlo, e di questo io vi domandava perdono.

Lindoro. Sono cabale, siete Tutti d’accordo. (a don Filiberto)

Filiberto. Mi maraviglio di voi. Siete un impertinente a parlare così. (a Lindoro, con sdegno)

Zelinda. Ah signore, scusatelo per amor del cielo. (a don Filiberto, accennando Lindoro)

Roberto. Ah Lindoro, guardate s’ella v’ama, s’ella merita di essere amata! [p. 178 modifica]

Lindoro. Che facevate voi con mia moglie? (a don Flaminio)

Flaminio. Dirò la verità. Amore mi ha condotto segretamente; era in casa di Barbara, ch’è l’amor mio. Venuta è Zelinda a sorprendermi, a correggermi, a illuminarmi, ed è opra sua il sagrifizio che fo della mia passione, ed il perdono ch’io imploro dal genitore.

Roberto. Oh cielo! (giubilante) ah che ne dite? È una femmina virtuosa? (a donna Eleonora)

Eleonora. Sposerà la vedova il signor don Flaminio? (a don Flaminio)

Flaminio. Farò tutto quello che mi comanderà il genitore.

Roberto. Sì, caro figlio, che tu sia benedetto. Ti perdono, ti abbraccio. Sono pien di consolazione. E voi siete ancor persuaso? (a Lindoro, con ansietà)

Lindoro. Ma quella lettera verificata a puntino? Quella lettera trovata in man di Zelinda?

Roberto. Non era scritta da Fabrizio alla figlia dello speciale?

SCENA ULTIMA.

Fabrizio e detti.

Fabrizio. Non signore, vi domando perdono. Ecco la soprascritta, ecco il nome a cui era diretta, ed ecco la lettera scritta a me dal padrone, per recapitarla alla cantatrice. (fa vedere tutto a Roberto)

Roberto. Leggete, se sapete leggere. Ah, che ne dite? (a Lindoro)

Lindoro. (Son confuso, non so che dire). (da sè)

Roberto. Conoscete ora qual moglie avete? Conoscete ora il merito suo, la sua innocenza, la sua bontà?

Lindoro. (Arrossisco di me medesimo. Non ho cuore di mirarla in faccia). (da sè, addolorato)

Roberto. Zelinda, vostro marito è confuso, è pentito, non ha coraggio. Eccitatelo voi; fategli animo voi.

Zelinda. Ah non mi guarda nemmeno. Mio marito ancor mi crede... Mio marito non m’ama più. (piangendo) [p. 179 modifica]

Lindoro. Sì, anima mia, che t’adoro. (voltandosi pateticamente)

Zelinda. (Gli corre vicino, e s’abbracciano.)

Roberto. Mi fanno piangere dall’allegrezza. Che diavolo fate voi? Che cuore avete che non piangete? (a donna Eleonora)

Eleonora. Perchè volete ch’io pianga? Non piangerei nemmeno...

Roberto. Nemmeno s’io crepassi, ne son sicuro.

Eleonora. Signor don Filiberto, potete continuare l’impegno colla vedova. Don Flaminio la sposerà.

Flaminio. Signora, io dipenderò da mio padre. (a donna Eleonora)

Roberto. Abbiamo tempo, e ne parleremo. Mi basta per ora la vostra rassegnazione: opera delle insinuazioni di Zelinda. Tutto merito della virtù di Zelinda; e voi avete avuto cuore di tormentarla, e di sospettare di lei? (a Lindoro)

Lindoro. Signore, vi domando perdono...

Roberto. Domandatelo a lei, e non vi vergognate di farlo; una moglie simile merita amore, umiliazione, e rispetto.

Lindoro. Sì, perdonatemi, o cara, v’ho tormentato, egli è vero, ma considerate che tutto quello ch’ho fatto, l’ho fatto per eccesso d’amore.

Zelinda. Per eccesso d’amore? (dolcemente a Lindoro)

Lindoro. Sì, per amore.

Zelinda. Oh, una colpa sì bella merita bene che si perdoni, (si abbracciano) Son fuor di me stessa dal piacere, dalla consolazione. Chi conosce la gelosia, saprà il tormento che ci ha recato. Chi conosce il piacere di far la pace, saprà la consolazione che noi proviamo. E chi s’investe della passion dell’autore, e di quella dei recitanti, saprà la gioia che può recarci il loro benignissimo aggradimento.

Fine della Commedia.


Note

  1. Nell’ed. Zatta: gl’altri. E così, più sotto: degl’altri, gl’ho ecc.
  2. Nell’ed. Zatta è stampato la, forse riferendosi a biancheria.
  3. Veramente nel testo è stampato: bravo; bravo ha io! ecc.
  4. Nelle edizioni posteriori: ritornerete.
  5. Ed. Zatta: Voglio dire. Non vi mettete ecc.
  6. Ed. Zatta: abbracciamosi.
  7. Nel testo c’è il punto fermo.
  8. Nel testo c’è l’interrogativo.
  9. Nel testo c’è il punto fermo.
  10. Ed. Zatta: come sono stata fin’ora. Non ecc.
  11. Ed. Zatta: che siete qui. E se penetra ecc.
  12. L’ed. Zatta, con errore evidente: movetemi.