Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1922, XXI.djvu/174

168 ATTO TERZO


a vederla, ed ora sono tutti due nel giardino, che parlano, che trattano, e credo, credo che concluderanno l’affare.

Filiberto. (Ho sentito tanto che basta. Non l’avrei mai creduto). (da sè)

Tognina. Sento gente. (guardando verso la porta) Oh ecco la mia padrona. La conferenza è finita. Se volete, l’avviserò.

Filiberto. Ma è inutile dopo quel che m’avete detto.

Tognina. Non serve, io non posso sapere come siano restati. Può ancora aver bisogno di recita, e poi quel ch’ho detto, ve l’ho detto in confidenza, e dovete considerarlo come non detto; se ho parlato, ho parlato per bene, e credo aver parlato con un galantuomo. (Non so chi sia, ma non preme. Ho parlato perchè ho parlato, e ho parlato perchè non posso tacere). (da sè)

SCENA X.

Don Filiberto solo.

Ecco come si è male interpretata la lettera che mi ha fatto legger Lindoro, e come io ho male interpretato quel che mi aveva detto Fabrizio. Quest’equivoco mi ha ingannato, e mi duole infinitamente di averne parlato a donna Eleonora, e di essere stato cagione dei disordini che ne son derivati. Ma tutto si porrà in chiaro, e quest’imbroglio sarà finito. Ecco la cantatrice. Non ho più bisogno del pretesto della recita, ma per convenienza convien ch’io resti.

SCENA XI.

Barbara e detto.

Barbara. Serva umilissima. È ella, signore, che mi domanda?

Filiberto. Sono io, ch’ho l’onore di riverirla e di supplicarla.

Barbara. In che cosa la posso servire?