La gelosia di Lindoro/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Don Filiberto solo.

Ecco fatte inutilmente le scale, ecco perduto il tempo senza poter vedere donna Eleonora. Non è ritornata, e sa il cielo quando ritornerà. Parmi di veder qualcuno. Sì, è il mastro di casa. Signor Fabrizio. (chiamandolo)

SCENA II.

Fabrizio e detto.

Fabrizio. Mi comandi.

Filiberto. Scusatemi se vi do un incomodo.

Fabrizio. Mi maraviglio: sono a servirla. (Bisogna trattarlo bene per non essere mal veduto dalla padrona). (da sè) [p. 134 modifica]

Filiberto. La signora non è in casa; io non ho il tempo per aspettarla; vorrei pregarvi di dirle ch’io sono stato per riverirla, e per darle la risposta definitiva dell’affare che m’ha fatto l’onore di raccomandarmi.

Fabrizio. Perdoni, signore, non è ch’io voglia mischiarmi negli interessi de’ miei padroni, ma se la dimanda è lecita, di qual affare si tratta? Scusi, ho le mie ragioni per dimandarglielo.

Filiberto. Non so s’ella voglia che ciò si sappia da tutto il mondo. Ditele dell’affare della vedova, e questo basta.

Fabrizio. Della vedova? Le dimando umilmente perdono. È forse la vedova ch’hanno proposto in moglie al signor don Flaminio?

Filiberto. Oh siete dunque di ciò instruito?

Fabrizio. Oh sì signore, li miei padroni hanno della bontà per me.

Filiberto. Bene dunque, si tratta di questo; e direte alla signora donna Eleonora che la vedova ha accettate tutte le proposizioni, che riceverà in casa lo sposo, che gli fa donazione d’una parte de’ suoi beni, e che l’affare è concluso per parte sua.

Fabrizio. Signore, glielo dirò, ma vedendo vossignoria impegnato in questo affare...

Filiberto. Io ci sono impegnato in grazia di donna Eleonora.

Fabrizio. Lo so benissimo; ma temo che non riuscirà con onore.

Filiberto. Credete voi che don Flaminio ricuserà di prestarvi l’assenso?

Fabrizio. Ne dubito fortemente. Vede bene, un giovane come lui, sposare una vecchia di sessanta e più anni...

Filiberto. Sì, ma è ricca, e gli farà donazione...

Fabrizio. E che bisogno ha il signor don Flaminio de’ suoi beni, e della sua donazione? un figlio unico d’una ricca famiglia...

Filiberto. Non sapete, che più che si ha, più si vorrebbe avere?

Fabrizio. Non pensano tutti nella stessa maniera. Credetemi, signore, conosco il padrone, e so quel che dico.

Filiberto. Sento una carrozza fermarsi alla porta, mi pare...

Fabrizio. Sì certo; è la padrona che torna.

Filiberto. Andrò a darle braccio, e le parlerò, (in atto di partire) [p. 135 modifica]

Fabrizio. Non le dica niente, signore...

Filiberto. Eh lasciate operare a me. (parte)

SCENA iii.

Fabrizio, poi Zelinda.

Fabrizio. Mi pareva impossibile che questi amori non avessero da traspirare. Basta, se si sa, tanto meglio. Son contento che non si sappia per parte mia, che il padrone non s’abbia a dolere di me... Ma ecco Zelinda, è necessario ch’io l’avvertisca.

Zelinda. Ricuperiamo la lettera... (vuol correre al tavolino)

Fabrizio. Zelinda... (la trattiene)

Zelinda. Andate via. (affannata)

Fabrizio. Sappiate ch’or ora...

Zelinda. Andate via, che se ci vedono insieme... (spingendolo)

Fabrizio. Una parola, e vado; sappiate...

Zelinda. Ma andate via, non mi fate più disperare. (come sopra)

Fabrizio. Vado, vado. (Glielo dirò un’altra volta). (da se, parte)

SCENA IV.

Zelinda sola.

(Corre al tavolino, e resta sorpresa, cedendo la biancheria scomposta) Come! La biancheria non è più come l’ho lasciata! Le camiscie... (alza la cestella) Oh cieli! dov’è la lettera? Qualcheduno la presa. Ma chi? Lindoro non credo mai. Che sia caduta per terra? Mi trema il core. (cerca per terra)

SCENA V.

Don Roberto e detta.

Roberto. Zelinda.

Zelinda. Signore. (cercando in terra senza voltarsi)

Roberto. La padrona è ritornata. [p. 136 modifica]

Zelinda. Lo so. (cerca sul tavolino)

Roberto. Avrà bisogno di voi.

Zelinda. Sì signore. (Dove mai può essere questa lettera?) (da sè, cerca fra le camiscie)

Roberto. Ma chi volete che l’aiuti a spogliare?

Zelinda. Vado subito. (torna a cercar per terra)

Roberto. Che cosa cercate? Che cos’avete perduto?

Zelinda. Niente. (Povera me!) (seguita a cercare)

Roberto. Ma voi cercate qualche cosa sicuramente.

Zelinda. (Che l’avesse presa Fabrizio? Oh sì, senz’altro, sarà egli che l’avrà presa. Voleva dirmelo, e non l’ho lasciato parlare). (da se)

Roberto. Ma che diamine avete? non mi rispondete ne meno?

Zelinda. Scusate, signore, eccomi qui. La padrona è venuta? vado a servirla immediatamente. (in atto di partire)

Roberto. Si può sapere che cosa avete perduto?

Zelinda. Niente, signore, una cosa da niente.

Roberto. E per una cosa da niente v’affannate così?

Zelinda. Eh signore, un animo agitato come il mio, si altera, s’inquieta per ogni picciola cosa. Son fuor di me, non so quel che mi faccia; se il cielo non m’aiuta, io sono all’ultima disperazione, (parte)

SCENA VI.

Don Roberto solo.

Povera giovane! La compatisco. S’ella è innocente, come sicuramente lo credo, è cosa dura sentirsi trattar male senza ragione.

SCENA VII.

Lindoro e detto.

Lindoro. (Eccolo qui per l’appunto). (da sè, vedendo don Roberto) Servitor umilissimo, mio signore. (seriosamente) [p. 137 modifica]

Roberto. Oh, oh, la riverisco divotamente. (con ironia)

Lindoro. La supplico in grazia, aver la bontà di concedermi il mio congedo. (seriosamente)

Roberto. Davvero? (con ironia)

Lindoro. Sì signore: il congedo per me, e per Zelinda.

Roberto. Il congedo per tutti due? (come sopra)

Lindoro. Spero ch’ella me l’accorderà di buona voglia, e non vorrà obbligarmi a partire con mala grazia.

Roberto. Oh so, che vossignoria è un giovane proprio e civile, che non è capace di far male grazie, so ch’è un giovane serio e prudente, che ci penserà sopra, e non partirà. (con ironia)

Lindoro. Signore, voi la prendete in ischerzo, ed io vi dico seriamente che intendo d’andarmene, e di condur meco mia moglie.

Roberto. E tutto questo per un sospetto vano, mal fondato, ingiurioso...

Lindoro. Perdonatemi, ho delle ragioni fortissime... Accordatemi la grazia che vi domando, e non mi fate parlar d’avvantaggio.

Roberto. No, non v’accorderò mai che partiate, se non mi dite quali siano queste ragioni fortissime, che voi vantate d’avere.

Lindoro. Signore, quando m’avete licenziato di casa vostra, io sono stato costretto a sortire, e come voi eravate padrone di licenziarmi, io son padrone d’andarmene quando m’aggrada.

Roberto. V’è qualche differenza da voi a me.

Lindoro. In questo, scusatemi, non vi dee essere differenza alcuna. Le volontà sono libere, e i servitori di qualunque grado si sieno, non sono schiavi venduti.

Roberto. Voi prendete la cosa su un tuono un poco troppo serioso. Io non sono capace di usarvi nè violenze, ne ostilità. Se cerco di trattenervi, non è che l’amore che m’obbliga a persuadervi. Sapete quel ch’ho fatto per voi. Non posso dispensarmi dal dirvi che siete un ingrato, ma se volete andare, andate, che il cielo vi benedica.

Lindoro. E Zelinda ha da venire con me. [p. 138 modifica]

Roberto. Mi dispiace per lei, mi piange il core per voi, ma non lo posso impedire.

Lindoro. (Quant’il figliuolo è indegno, altrettanto il padre amoroso1). (da sè)

Roberto. Andate, figliuolo mio, andate poichè il vostro cattivo destino vi porta a procurarvi forse de’ nuovi disastri, delle nuove calamità; ma spero che prima di partire non mi negarete2 una grazia.

Lindoro. Ah signore, che dite mai! L’obbligo mio... la vostra bontà... Comandate.

Roberto. Svelarmi la ragione per cui partite.

Lindoro. (Non ho cuore di dirgliela; so che gli farà una pena infinita). (da sè)

Roberto. Voi conoscete l’animo mio per voi, e mi negarete una sì giusta soddisfazione?

Lindoro. Ah non vorrei dirvela per non inquietarvi. Ma poichè lo volete assolutamente, sono obbligato ad obbedirvi. Parto, signore, per la salvezza dell’onor mio.

Roberto. E in casa mia l’onor vostro non è sicuro?

Lindoro. Anzi è in pericolo più che mai.

Roberto. Qual fondamento avete per dirlo e per sostenerlo?

Lindoro. Leggete questa lettera. So che intendete il francese, leggetela, e giudicatene da voi stesso. (dà la lettera a don Roberto)

Roberto. Date qui. Oh cielo! Sono in un mare di agitazioni, (legge piano)

Lindoro. La lettera, signore, è del signor don Flaminio.

Roberto. Di mio figlio? (con sorpresa)

Lindoro. Sì signore, è di lui.

Roberto. Eh andate, che siete pazzo. Credete voi ch’io non conosca il carattere di mio figlio? Dovreste conoscerlo ancora voi. No, la lettera non è scritta da lui.

Lindoro. V’accordo che non pare scritta da lui; ma si vede ch’il carattere è alterato, è affettato. Esaminatela bene, e ci troverete dei tratti della sua mano. [p. 139 modifica]

Roberto. (Osserva bene la lettera) (Ah sì, pare anche a me... Se fosse mai vero?... Se foss’egli capace d’una simile iniquità!) Questa non è ragione che basti per accusare mio figlio; e voi gli fate un torto ch’egli forse non merita.

Lindoro. Oltre il carattere che si manifesta, esaminate le circostanze. Chi scrive è lontano dalla persona...

Roberto. Che scioccherie! quelli che scrivono son lontani sicuramente.

Lindoro. Sapete quanto il signor don Flaminio ha amato un tempo Zelinda?

Roberto. Lo so, ma dopo ch’è maritata...

Lindoro. Sapete che Fabrizio è stato sempre il suo consigliere?

Roberto. (Pur troppo). (da se)

Lindoro. V’è nota la conferenza fra lui e Zelinda, il segreto, il giuramento, la parola d’onore? in somma questa lettera trovata su quel tavolino...

Roberto. Non so che dire. Non so più in qual mondo mi sia. Aspettate. Chi, chi è di là? Servitori, mandatemi qui Zelinda, mandatemi qui Fabrizio se c’è. (verso la scena)

Lindoro. Siete ancor persuaso?

Roberto. No, non sono ancor persuaso, e si ha da venir in chiaro della verità.

SCENA VIII.

Zelinda e detti.

Zelinda. Signore... che cosa mi comandate? (a don Roberto, un poco confusa)

Lindoro. Favorisca, signora mia... (a Zelinda con sdegno)

Roberto. Tacete, lasciate parlare a me.

Zelinda. (Prevedo quello che vogliono, e ci vuol coraggio). (da sè)

Roberto. E bene, Zelinda... avete voi trovato ciò ch’avevate perduto? (placidamente)

Zelinda. (Eccolo). (da sè) Non signore, non l’ho trovato. (con franchezza) [p. 140 modifica]

Roberto. Si può sapere che cosa voi cercavate?

Zelinda. Signore... Io cercava una lettera. (pensa un poco, e poi lo dice con franchezza)

Lindoro. Sentite? Una lettera. (a don Roberto con calore)

Roberto. Lasciate parlare a me. Questa lettera a chi era scritta? ed a chi andava diretta? (a Zelinda placidamente)

Zelinda. Signore, capisco benissimo che quella lettera è stata da qualchedun ritrovata, e può darsi ch’io sia così disgraziata, che qualcheduno abbia l’ardire di credere ch’ella sia a me diretta. (verso Lindoro con un poco di sdegno) Non posso giustificarmi su quest’articolo che colla semplice negativa. Non ho altre prove in contrario che quelle che ho date della mia onestà, dell’attaccamento di mio marito, e d’una condotta che voi conoscete meglio d’ogn’altro. Tutto questo dovrebbe bastare a difendere l’onor mio, e disingannare chi pensa male di me. Se ciò non basta, chiamo il cielo in testimonio della mia innocenza, giuro per quanto v’è di più sacro che la lettera non m’appartiene, ma dopo questo sono risoluta e costante a non dir chi l’ha scritta, a non isvelare a chi fu diretta. (a don Roberto)

Lindoro. Segno ch’ella è colpevole, e che l’affettata sua ipocrisia... (a don Roberto)

Zelinda. Mi maraviglio di voi che così parlate. Voi mi conoscete ch’è molto tempo, voi m’avete seguitata per tutto, voi conoscete quanto me stessa il mio cuore, il mio animo, i miei pensieri. Sapete ch’io mal v’ho negato piacere alcuno, che mal v’ho nascosto i segreti dell’animo mio, e se ora non parlo, potet’esser sicuro che una forte ragione m’obbliga a non parlare. Ho promesso, ho giurato, ma questo non basta ancora. S’io parlo son certa d’offendere e di pregiudicare, e sono disposta a soffrir tutto prima di recare altrui pregiudizio. Ditemi ora se è ipocrisia, o se è virtù.

Lindoro. Non sarà nè l’uno, ne l’altro. Sarà menzogna.

Zelinda. Ah, questa vostra insistenza è una marca crudele d’ingratitudine, di perfidia, di poco amore.

Lindoro. Sì, chiamatela come volete. [p. 141 modifica]

Zelinda. Signor don Roberto, siate voi il mio protettore, il mio difensore. (con tenerezza)

Roberto. Zelinda carissima, io vi conosco: so che siete onestissima, comprendo tutto quello che dite, lo credo, sarà così; ma a fronte di tutto, a costo d’ogni pericolo e d’ogni riguardo, si tratta dell’onor vostro, si tratta della quiete di vostro marito, e credo che siate in debito di parlare.

SCENA IX.

Fabrizio e detti.

Fabrizio. (Resta in disparte, e ascolta.)

Zelinda. Possibile, signore, che un uomo saggio come voi siete...

Lindoro. Ell’avrà l’ardire di condannarvi... (a don Roberto)

Roberto. Mi pare la resistenza un po’ troppo forte... (a Zelinda)

Fabrizio. Con permissione. M’hanno detto ch’ella mi cercava. (a don Roberto con qualche agitazione)

Roberto. Oh appunto... (verso Fabrizio)

Lindoro. Ecco lì l’interprete, il confidente...

Roberto. Lasciate parlare a me. (a Lindoro)

Zelinda. Voi vedete, Fabrizio...

Roberto. Badate a me. (a Fabrizio, tirando fuori la lettera) Siete voi informato di questa lettera che fu trovata sul tavolino di Zelinda?

Fabrizio. Sì signore, la conosco benissimo, e Zelinda l’ha avuta dalle mie mani.

Lindoro. Ecco s’io diceva la verità...

Roberto. Tacete.

Zelinda. Fabrizio, io ho mantenuta la mia parola a costo di mille ingiurie, ci vogliono obbligar a parlare. Voi sapete di che si tratta, tocca a voi a decidere se s’ha da parlare, o tacere. [p. 142 modifica]

Fabrizio. Io ho molto più interesse di voi in quest’affare. V’è noto se mi giovarebbe3 a tacere, ma trattandosi dell’onor nostro, per giustificare anche la vostra condotta, sono costretto a confessare la verità. (a Zelinda)

Zelinda. (Don Flaminio è sacrificato). (da sè)

Lindoro. Vedete, signore, se i miei sospetti... (a don Roberto)

Roberto. Ma tacete una volta. Lasciate parlare a lui... (a Lindoro, accennando Fabrizio)

Fabrizio. Signore, voi sapete che le colpe d’amore son colpe umane... (a don Roberlo)

Lindoro. Amori simili sono delitti, sono iniquità...

Roberto. Voi mi fareste venir la rabbia. (a Lindoro)

Fabrizio. Ma voi, Lindoro, perchè cosa vi riscaldate?

Lindoro. Corpo di bacco! non ho motivo di riscaldarmi?

Roberto. Perderò la pazienza. (a Lindoro) Seguitate il vostro discorso. (a Fabrizio)

Fabrizio. Amor m’ha acciecato, amor m’ha consigliato.

Roberto. Siete voi quello ch’ha scritto questa lettera?

Fabrizio. Sì signore, l’ho scritta io.

Lindoro. Siete voi che ama, e che seduce Zelinda?

Fabrizio. Che parlate voi di Zelinda?

Roberto. Questa lettera fu trovata su quel tavolino.

Lindoro. Questa lettera parla chiaro... Ma no, non siete voi che l’avete scritta. Chi l’ha formata è lontano, voi siete qui: siete un impostore, un bugiardo.

Fabrizio. Adagio un poco: se mi darete tempo a parlare, saprete tutta la verità. (Prego il cielo di non imbrogliarmi). (da sè)

Zelinda. (Non capisco niente. Dove mai va a battere la sua finzione?) (da sè)

Lindoro. V’assicuro... (a don Roberto)

Roberto. Sentiamo. (a Lindoro con impazienza)

Fabrizio. Voi conoscete, signore, la figlia dello speziale del vostro castello. [p. 143 modifica]

Roberto. La conosco benissimo.

Fabrizio. Figlia unica d’un padre ricco...

Roberto. È bella, è giovane, ma un po’ fraschetta.

Fabrizio. Confesso la verità, signore, mi è riuscito d’innamorarla, sarebbe per me il miglior affare del mondo, prevedo che suo padre non ne sarebbe contento, coltivo il di lei amore, e le scriveva la lettera che voi vedete.

Zelinda. si signore, Fabrizio è innamorato della figlia dello speziale, me ne ha fatto la confidenza, mi ha mostrato la lettera, ecco il segreto, ecco la ragione della mia parola, e del mio silenzio. (con spirito e con franchezza)

Roberto. Ah? cosa dite? (a Lindoro)

Lindoro. Non credo niente. Dov’è la soprascritta che provi la verità?

Fabrizio. La soprascritta non era fatta, e la lettera non fu spedita. (a Lindoro)

Lindoro. E per qual ragione quella lettera era in man di Zelinda?

Fabrizio. Lindoro mio, vi domando scusa. Conoscendo il talento e la probità della vostra sposa, prima di spedire la lettera, ho voluto prendere il suo consiglio. Ella m’ha fatto comprendere il torto ch’io aveva di subornare la figlia d’un galantuomo. Mi sono arreso alle sue ragioni, ho trattenuto la lettera, ed è rimasta sul tavolino.

Zelinda. Ecco la pura e semplice verità.

Roberto. E bene, che ve ne pare? (a Lindoro)

Lindoro. Non ne sono ancor persuaso. Perchè questa gran segretezza? Perchè insistere a non parlare? perchè esporsi piuttosto?...

Zelinda. Perchè Fabrizio m’avea domandato il segreto...

Fabrizio. Perchè poteva essere di pregiudizio a me, e di pregiudizio alla figlia.

Zelinda. Ed io non ho cuore di recar pregiudizio a nessuno.

Fabrizio. E l’ho pregata di non parlare.

Zelinda. Ed io gli ho data la mia parola d’onore.

Roberto. Lindoro, la cosa è tanto semplice e naturale, che non si può sospettare in contrario. [p. 144 modifica]

Lindoro. Eh signore, signore... a proposito, mi sovviene una cosa. La lettera è scritta ieri, l’appuntamento d’essere insieme è per il giorno d’oggi, come potete voi... Voi che siete obbligato al servizio, come potevate impegnarvi d’esser oggi al castello segretamente? (a Fabrizio)

Fabrizio. Se la lettera fosse partita, avrei pregato il padrone... Confesso la verità, avrei trovato un pretesto d’affari, d’interessi, con qualche mercante di grano, con qualche fattor di campagna. Il padrone non me l’avrebbe negato.

Roberto. Oh no certamente. Il mastro di casa, poteva facilmente credere che gliel’avrei accordato.

Fabrizio. Nè la colpa sarebbe stata sì grave... Tutto il male ch’io ho fatto si è d’avermi confidato a Zelinda senza la permission di Lindoro.

Lindoro. Anzi, obbligata Zelinda a non dir niente a Lindoro. (con sdegno)

Roberto. Via, non è poi un delitto. (a Lindoro)

Lindoro. E Zelinda preferisce gl’interessi altrui alla quiete ed alla tranquillità del marito.

Zelinda. Vi domando perdono. So che ho fatto male, ma ho creduto far bene.

Fabrizio. E il bene ch’ha4 fatto è grandissimo, poichè in grazia dei suoi buoni consigli, ho abbandonato l’idea ch’aveva sopra la giovane, ed ho conosciuto il torto ch’io faceva a suo padre.

Roberto. Lodo la vostra risoluzione. Ma vorrei veder qualche segno fra voi di vera, perfetta riconciliazione. (a Zelinda e Lindoro)

Zelinda. Se il mio caro marito me lo permette... (in alto di accostarsi a lui)

Lindoro. Scusate, l’amore, la gelosia... (s’avanza verso Zelinda) [p. 145 modifica]

SCENA X.

Donna Eleonora e detti.

Eleonora. Signor marito vi ho da parlare. (Zelinda e Lindoro s’arrestano)

Roberto. Eccomi qui, parlate. Via andate, e che la pace duri, e che non ci siano mai più gridori. (a Zelinda, e Lindoro, e Fabrizio)

Eleonora. No, no, che restino. Ci è qualche cosa per loro.

Zelinda. (Oh cieli! mi fa sempre tremare). (da sè)

Eleonora. È venuto a parlarmi don Filiberto; mi ha recato la risposta della vedova, ella accorda tutto, e accorda fino la donazione. (con aria brusca)

Roberto. Questa è una buonissima nuova; e voi me la date sì bruscamente e col fiel sulle labbra.

Eleonora. Se sono alterata, ho giusta ragione d’esserlo, lo sono nell’impegno che voi sapete. Don Filiberto si è interessato ad istanza mia, e son sicura che tutti due ci farà restar svergognati.

Roberto. Chi?

Eleonora. Don Flaminio...

Roberto. Per qual ragione?

Eleonora. Perchè è innamorato.

Roberto. Di chi?

Eleonora. Di quella frasca, di quell’indegna... (accenna Zelinda)

Zelinda. Come, signora?

Lindoro. Ah pur troppo sarò tradito... (agitalo)

Roberto. Come potete voi asserirlo? (ad Eleonora)

Eleonora. Io lo so da don Filiberto.

Fabrizio. (Come va quest’imbroglio?) (da sè)

Zelinda. Sono una donna d’onore, son conosciuta per tale, e il signor don Filiberto non sa quel che si dica. (ad Eleonora)

Eleonora. E voi ardirete con tanta temerità... (a Zelinda)

Lindoro. Scusatemi, signora mia. Con qual fondamento don Filiberto lo dice? (placidamente) [p. 146 modifica]

Eleonora. Ha veduto una lettera...

Lindoro. Ah! questa lettera la conosco. Don Filiberto parla per bocca mia. (placidamente)

Fabrizio. Sì signora, ei non sa che la lettera è mia, ch’io l’ho scritta, che la giovane in questione è la figlia d’uno speziale, ch’io sono il reo, ch’io sono l’innamorato...

Eleonora. Che andate ora inventando che la lettera è vostra? che siete voi il galante di cui si tratta? siete un mentitore, un bugiardo. Poichè voi stesso avete accordato a don Filiberto, che don Flaminio fa l’amor con Zelinda, e non è sulla lettera ch’ei si fonda, ma sul fondamento delle vostre parole.

Lindoro. Ah son tradito senz’altro. (a Fabrizio)

Zelinda. (Misera me! non so in che mondo mi sia). (da sè)

Roberto. Sarebbe dunque possibile?... (a Fabrizio)

Fabrizio. Signore, sono un galantuomo, incapace di mentire e di commettere delle bricconate. Quello di don Filiberto è un equivoco, e so da dove proviene. Lo troverò, gli parlerò, gli farò toccar con mano la verità. Conoscerete la mia innocenza, e quella di questa povera sfortunata. (parte)

SCENA XI.

Don Roberto, donna Eleonora, Zelinda, Lindoro.

Eleonora. Non credete a quell’impostore. (a don Roberto)

Lindoro. No, non si può credere a quel ribaldo. (a don Roberto)

Zelinda. Sospetterete dunque di me? (a don Roberto)

Roberto. Non so che dire. Sono incerto... sono confuso... Per dirvi la verità... principio a dubitare anch’io. (a Zelinda)

Zelinda. Povera me! a qual miserabile condizione son io ridotta? Sospettare di me? dubitar della mia innocenza? E chi? Il mio padrone, il mio sposo. Della padrona non parlo: so che non mi ama, e che non perde l’occasion di mortificarmi. Ma il mio buon padrone, ma il mio caro marito! È possibile ch’io mi sia meritata una sì poca fede, un così indegno [p. 147 modifica] concetto? Mi potrei giustificar d’avvantaggio. Potrei convincere chi mi accusa, chi mi perseguita, ma non voglio farlo. La persecuzione cadrebbe allora sopra d’un altro, e sarebbe meglio fondata. La mia posso soffrirla, perchè ha da finire, perchè s’ha da scoprire la verità. Vedrete allora chi sono, si pentirà chi m’insulta, sarà convinto chi non mi crede. Amabile padron mio, sospendete, vi supplico, un giudizio che m’offende e mi disonora. Caro sposo, s’io v’amo, s’io son fedele, domandatelo al vostro cuore. Ah signora mia, meno astio, e un poco più di giustizia. (parte)

SCENA XII.

Don Roberto, donna Eleonora, Lindoro.

Roberto. Mi pare ancora impossibile ch’ella sia rea, e che possa fingere a questo segno.

Eleonora. Vi pare impossibile? Frutto dell’antica passione vostra per lei, e temo che non ne siano estirpate le radici.

Roberto. Voi siete nata per pensar male.

Lindoro. Signore, avete troppa parzialità, troppa condiscendenza per lei.

Roberto. Voi siete uno stolido... un temerario.

Eleonora. Voi preferite Zelinda a tutta la vostra famiglia. Avete più riguardo per lei che per vostra moglie medesima, e la poca pena che vi prendete di mortificare una serva, e di correggere un figlio...

Roberto. E che ardireste di dire? (sdegnato)

Eleonora. È inutile che mi spieghi. Ma se don Flaminio mi farà scomparire con questa vedova, se voi non l’obbligarete5 a sposarla... Sì, non avrò alcun riguardo a precipitarmi. (parte) [p. 148 modifica]

SCENA XIII.

Don Roberto e Lindoro.

Roberto. (Che moglie! Oh cieli! Che moglie m’è mai toccata?) (da sè)

Lindoro. Signore, accordatemi il mio congedo.

Roberto. Eh, seccatemi voi pur col congedo. (Tutte le ore del giorno, tutt’i momenti, burbera, minacciosa, inquieta!) (da sè)

Lindoro. Signore...

Roberto. (Non gli bada, e passa dall’altra parte) (Sospetta di tutto, tormenta tutti).

Lindoro. Signore, datemi il mio congedo.

Roberto. Eh andate al diavolo ancora voi, Zelinda, mia moglie e tutto il mondo: sono stanco, sono annoiato, non posso più. (parte)

SCENA XIV.

Lindoro solo.

Sì, anderò, anderò al diavolo, giacchè andar non posso colla buona avventura. Voglio andarmene di questa casa. E Zelinda ci verrà a suo dispetto, e avrà che fare con me, e saranno finite le cabale, le superchierie, le menzogne. Finchè si resta qui, non son padrone, non posso reggerla a modo mio. Fuori fuori di questa casa. (grida e batte i piedi)

SCENA XV.

Zelinda e detto.

Zelinda. Cosa sono questi strepiti? cosa sono queste disperazioni? (con sdegno, e con voce alta)

Lindoro. Meno ciarle, e più obbedienza e rispetto. Fuori di questa casa.

Zelinda. Fuori di questa casa? (rabbiosamente) [p. 149 modifica]

Lindoro. Sì, lo comando, lo voglio, e sarò capace di farmi rispettare e obbedire.

Zelinda. Non mi volete credere? volete ancor sospettare? (alterata)

Lindoro. Fuori di qui, e poscia ne parleremo.

Zelinda. Volete ch’io manchi alla mia parola? Volete ch’io commetta una mal’azione? ch’io parli? ch’io dica? ch’io vi soddisfi? animo. Eccomi qui, son pronta, parlerò, vi soddisferò. (rabbiosamente)

Lindoro. Tutte cabale; tutte invenzioni...

Zelinda. Sì, cabale, invenzioni, per far del bene, per evitar dei scandali, delle turbolenze. Sappiate che il signor don Flaminio... Ma no, non è giusto, non vo’ mancare. Caschi il mondo, non parlerò.

Lindoro. Non mi curo di saper altro. Fuori subito di questa casa.

Zelinda. Volete uscire di questa casa?

Lindoro. E voi dovete venir con me.

Zelinda. E dove volete andare?

Lindoro. Ove mi pare e piace. Seguitemi, e non ci pensate, e non mi fate scaldar maggiormente il sangue.

Zelinda. Avete risolto? (con sdegno)

Lindoro. Ho risolto. (con sdegno)

Zelinda. S’ha da partire?

Lindoro. S’ha da partire.

Zelinda. Subito?

Lindoro. Immediatamente. (con sdegno)

Zelinda. Aspettatemi che saprò soddisfarvi, (con sdegno, e parte)

SCENA XVI.

Lindoro, poi Zelinda.

Lindoro. Son marito, son padrone, posso comandare, e a suo dispetto mi dee obbedire. (con forza)

Zelinda. (Tutta sdegno e collera, strascinando il baule che s’è veduto nella prima commedia, e lo tira in mezzo la scena) Eccomi qui, [p. 150 modifica] andiamo, partiamo. Ecco il mio maladetto baule. Animo via. Fuori di questa casa. (apre il baule con forza) Così sarete contento. Ci pensate voi a mantenermi, a darmi da vivere, a sostenermi. (getta nel baule con dispetto tutta la biancheria ch’era sul tavolino) Sono una moglie indegna, una moglie infedele, bisogna strapazzarmi, mortificarmi, farmi morir di fame, di sete, cacciarmi un stile nel cuore. (corre all’armadio, lo apre, tira fuori una cesta lunga ove vi sono tutti i suoi abiti, e qualche cosa di suo marito, e strascina la cesta vicino al baule, poi leva la roba dalla cesta, e la getta nel baule con collera e dispetto.)

Lindoro. (Resta ammutolito, sorpreso, e non parla.)

Zelinda. Andiamo, sì, andiamo a cercar l’elemosina, a cantar canzonette, a vendere, a impegnare, a mangiarci tutto... (caccia il resto nel baule, e vi pesta dentro con un piede)

Lindoro. Ih, ih, fermatevi. Non è roba rubata. (un poco raddolcito, e mostra dispiacere che guasti la roba)

Zelinda. Sì, è roba che m’ho guadagnato co’ miei sudori. Ma non serve niente. Tutto ha d’andare al diavolo, tutto ha d’andare in rovina. Eccola lì, andiamo fuori di questa casa, sì fuori di questa casa. (con tutta la forza, e si getta sopra una sedia)

Lindoro. Ma che diavolo è questo? Siete ora più imbestialita di me.

Zelinda. Oh quanto volentieri mi andrei a gettar nel Ticino.

Lindoro. Che bisogno c’è di rovinar tutta questa roba? (tira fuori qualche abito, e lo mette nella cesta)

Zelinda. Che cosa fate? Si ha d’andar via, e voglio andar via.

Lindoro. Sì, si ha d’andare, e ci voglio andare; ma si potrebbero far le cose con un poco meno di caldo.

Zelinda. Veramente voi siete fatto di ghiaccio. (con ironia)

Lindoro. Questi abiti si potrebbero piegare un poco meglio. (mette un altro abito nella cesta)

Zelinda. Lasciateli lì, che li piegherò. (un poco pacificata)

Lindoro. (Cercando nel baule trova un ventaglio, e lo tira fuori) Che cosa è questo? (a Zelinda)

Zelinda. Non lo vedete? E un ventaglio.

Lindoro. Io non ve l’ho mai veduto questo ventaglio. [p. 151 modifica]

Zelinda. È necessario che voi vediate tutt’i miei stracci?

Lindoro. Ma questo è un ventaglio ricco. Costerà tre zecchini almeno. (scaldandosi a poco a poco)

Zelinda. E se costasse anche sei? (scaldandosi un poco)

Lindoro. Chi v’ha dato questo ventaglio?

Zelinda. L’ho comprato.

Lindoro. No, non è vero niente? (con sdegno)

Zelinda. Non è vero niente.

Lindoro. Ci scommetto la testa. Questo è un ventaglio nuovo; questo è un ventaglio che v’è stato donato.

Zelinda. Donato! e da chi?

Lindoro. Sarà un presente di don Flaminio.

Zelinda. Di don Flaminio? (con sdegno)

Lindoro. Sì, di lui.

Zelinda. Sì, bravo, è di lui, è un presente di don Flaminio. (con tutta la collera)

Lindoro. È un presente di don Flaminio? (straccia il ventaglio per mezzo)

Zelinda. È un presente di don Flaminio. (fremendo e battendo i piedi)

Lindoro. Di don Flaminio? (lo straccia in pezzi)

Zelinda. Di don Flaminio. (come sopra)

Lindoro. Fuori di questa casa. (getta via il ventaglio)

Zelinda. Fuori di questa casa. (corre alla cesta, e torna a gettar gli abiti nel baule)

SCENA XVII.

Mingone contadino, con un cesto di peri, e detti.

Mingone. Signora Zelinda.

Zelinda. Cosa c’è? (arrabbiata)

Mingone. Tenete questo cesto di peri che manda dalla campagna il signor don Flaminio...

Lindoro. Come! Come! Vieni qui. Chi manda questi peri? [p. 152 modifica]

Mingone. Il signor don Flaminio.

Lindoro. A chi li manda?

Mingone. M’ha detto di consegnarli alla signora Zelinda.

Lindoro. Regali di campagna? Finezze ancora dalla campagna? (leva il cesto al contadino con forza)

Zelinda. Che bestialità! Che furore!

Lindoro. E tu, briccone, sei il portatore de’ suoi presenti? (minaccia il contadino)

Mingone. Io non so nulla, signore. (fugge via)

Lindoro. Scellerato, indegno, ti arriverò. (prende i peri dal cesto, e li getta dietro a Mingane)

Zelinda. Fermatevi, pazzo, stravagante, furioso.

SCENA XVIII.

Don Roberto e detti.

Roberto. (Entra dalla parte medesima per dove fugge Mingone, e corre pericolo d’essere colpito) Cos’è quest impertinenza? (a Lindoro)

Zelinda. Ah signore, scusatelo per amor del cielo. (amorosamente a Lindoro e resta mortificato6 )

Roberto. Cosa fate voi qui? A che serve questo baule? (a Zelinda)

Zelinda. Sono costretta a partire, sono costretta a distaccarmi da voi. (piangendo)

Roberto. Chi lo dice?

Zelinda. Lindoro.

Roberto. Andate nella vostra camera. (a Zelinda)

Zelinda. Ma non vorrei che dicesse... (agitata)

Roberto. Andate nella vostra camera. (con forza)

Zelinda. V’obbedisco. (Stelle, abbiate pietà di me). (parte) [p. 153 modifica]

SCENA XIX.

Don Roberto e Lindoro.

Lindoro. Giuro al cielo... (battendo i piedi)

Roberto. Venite con me. (a Lindoro placidamente)

Lindoro. Come, signore...

Roberto. Venite meco, vi dico. (con forza)

Lindoro. Non v’è più rimedio, signore; son risoluto, voglio partire assolutamente.

Roberto. Sì partirete, ma venite con me.

Lindoro. Dove? Perchè? Qual intenzione avete sopra di me? (con sdegno)

Roberto. Ho ricevuto una lettera di vostro padre. (sdegnoso)

Lindoro. Di mio padre? (si addolcisce un poco)

Roberto. Sì, l’ho ricevuta in questo momento.

Lindoro. Oh cielo! buone nuove, signore? (placidamente, ma con ansietà)

Roberto. Migliori di quelle che meritate.

Lindoro. Ah, vi domando scusa, vi domando perdono.

Roberto. Ragazzaccio imprudente! Venite dunque con me. (parte)

Lindoro. Ah sì, sono diventato una bestia, una furia, un demonio. In qual misero stato riduce la gelosia!

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Nell’ed. Zatta è stampato: altrettanto è il padre è amoroso.
  2. Forma dialettale. Le edizioni più recenti correggono: negherete.
  3. Forma dialettale. Nelle altre edizioni: gioverebbe.
  4. Ed. Zatta: ch’ho.
  5. Forma dialettale. Nelle più recenti edizioni: obbligherete.
  6. Così è stampato nell’ed. Zatta, ma il testo non riesce chiaro. Il Cameroni, per es., corregge: amorosamente a don Roberto, e Lindoro resta mortificato (v. Capolavori di C. Goldoni, Serie II. Trieste, Coen, 1858). Si potrebbe anche intendere: amorosamente a don Roberto, e resta mortificata.