La finta ammalata/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di Pantalone.
Beatrice da una parte, il dottor Onesti dall’altra.
Beatrice. Oh signor dottore, quanto volentieri vi vedo! Appunto desiderava estremamente di parlarvi da solo a sola. Il signor Pantalone non è in casa, onde il tempo è opportuno.
Onesti. Sono qui ritornato, per la pietà ch’io sento della signora Rosaura e del signor Pantalone: quei medici hanno loro imbarazzata la testa: hanno fatto creder quel che non è; e l’apprensione può far ammalar davvero la figlia, e far disperare il povero padre: son venuto per disingannarli.
Beatrice. Prima di parlare con loro, è necessario che parliate meco; apposta mi son qui trattenuta; non ho cuore di ritornarmene a casa, se a voi non comunico questo arcano.
Onesti. Eccomi ad ascoltarlo: qui nessuno ci sente.
Beatrice. Sappiate, signor dottore, che Rosaura è innamorata.
Onesti. Me ne sono avveduto ancor io.
Beatrice. Ma sapete di chi sia innamorata?
Onesti. Quest’è quello ch’io non so.
Beatrice. Ella è innamorata di voi.
Onesti. Di me?
Beatrice. Sì, di voi.
Onesti. Con qual fondamento potete dirlo?
Beatrice. Credetemi, che me ne sono assicurata.
Onesti. Ve lo ha ella confidato?
Beatrice. No, ma l’ho rilevato da varie circostanze, le quali tutte mi hanno manifestato quello che la buona ragazza non ha coraggio di palesare.
Onesti. È lodabile il suo contegno, assoggettandosi ad una specie di malattia per non palesare la sua passione.
Beatrice. Io credo ch’ella coltivi espressamente il suo male, pel desiderio di avere le vostre visite.
Onesti. E le mie visite saranno quelle che daranno fomento alla sua passione.
Beatrice. Dunque che risolvete di fare?
Onesti. Risolvo di non visitarla mai più.
Beatrice. Odiate forse la signora Rosaura?
Onesti. Io non sono in caso nè di odiarla, nè di amarla.
Beatrice. Sprezzerete un’eredità doviziosa, come quella del signor Pantalone?
Onesti. Certamente ella non è cosa da disprezzarsi, ma io sono stato da lui chiamato per curargli la figlia, e non per esibirgli un genero.
Beatrice. Potete far l’uno e l’altro nel medesimo tempo.
Onesti. No, signora Beatrice, non posso farlo. La mia onestà non lo vuole.
Beatrice. Siete voi nemico del matrimonio?
Onesti. No certamente; anzi per gl’interessi della mia casa, essendo io solo, mi converrà prender moglie.
Beatrice. E questo non vi pare un partito buono per voi?
Onesti. Sarebbe ottimo, se fossimo in altre circostanze.
Beatrice. Come sarebbe a dire?
Onesti. Se io fossi stato in grado di far chiedere la figlia al signor Pantalone, e di potermi lusingare ch’egli non me la dovesse negare.
Beatrice. Per qual ragione temete ch’egli ve la neghi?
Onesti. Perchè non sono ricco quanto lui, perchè ha qualche impegno con certo signor Lelio, e poi perchè, essendomi io introdotto come medico, crederà ch’io abbia con cattivo artifizio innamorata la figlia,1 si chiamerà da me offeso, e non me la vorrà assolutamente concedere.
Beatrice. Signor dottore, siete troppo scrupoloso.
Onesti. Conosco il mio dovere, e non mi lascio acciecare dall’interesse.
Beatrice. Voi volete veder morire la povera Rosaura.
Onesti. Eh, che per amor non si muore. Ella sarà agitata intanto2 che si lusingherà di poter essere da me corrisposta. S’io lascio di visitarla3, se mi ritiro da questa casa, in capo a otto giorni non si ricorda più di me, guarisce dell’amorosa sua malattia, e si dispone ad accettar per marito il primo che da suo padre le viene offerto.
Beatrice. Dunque volete licenziarvi?
Onesti. Sì assolutamente.
Beatrice. Almeno visitatela un’altra volta.
Onesti. Oh, questo poi no; fintanto ch’io non lo credeva, dava innocentemente degl’incrementi al suo male; ora sarei colpevole se, in vece di curarla, cercassi precipitarla. Signora Beatrice, vi ringrazio; riverite il signor Pantalone, assicurandolo che sua figlia non ha alcun male; procurerò illuminarlo, acciò non creda nè agl’ignoranti, nè agl’impostori. Io non rinunzio pazzamente ad una fortuna4; ma garantisco l’onor mio a fronte di un bene incerto. Se vedrò col tempo che mi si apra la strada a poter aspirare alle nozze della signora Rosaura, farò conto e della sua bellezza e della sua ricchezza, i quali sono beni, se si acquistano direttamente, sono mali, se si procacciano ingiustamente. (parte)
SCENA II.
Beatrice sola.
Ora sì che la povera Rosaura sta fresca! Credeva di far bene, e ho fatto male. Povera ragazza! Quando sa che il dottor Onesti l’abbandona, ha da dar nei deliri, ha da fare delle pazzie.
SCENA III.
Pantalone e detta.
Pantalone. Siora Beatrice, cossa fa mia fia?
Beatrice. AI solito. Avete incontrato il dottor Onesti?
Pantalone. Siora no; son vegnù su per la scaletta, no l’ho incontrà. Cossa diselo de mia fìa?
Beatrice. Credo non voglia più venire a visitarla.
Pantalone. Ch’el lassa star. No ghe penso nè de lu, nè d’altri miedeghi. No voio altri miedeghi.
Beatrice. Farete bene. La signora Rosaura non ha male.
Pantalone. No la gh’ha mal? Pur troppo la gh’ha mal; ma i miedeghi fin adesso no i l’ha savesto cognosser. Finalmente, grazie al cielo, spero d’aver trovà chi darà la salute alla mia povera fia.
Beatrice. E chi mai?
Pantalone. Do persone me xe sta suggerìo. Mio compare m’ha dito che ghe xe una donna, muier d’un zavatter5, che sa far certo unguento, che onzendo le donne sotto le siòle del piè, le guarisse seguro.
Beatrice. Oh, voi credete a queste donnicciuole ignoranti! Costoro meriterebbero essere bastonate; s’introducono per le case, danno ad intendere aver dei segreti, e rovinano chi loro crede.
Pantalone. Se pol provar.
Beatrice. Io non vi consiglio fidarvi.
Pantalone. Me xe sta po insegnà un spargirico, che gh’ha dei segreti spaventosi.
Beatrice. Coss’è questo spargirico?
Pantalone. Un omo che fa dei medicamenti che no se trova alle spezierie; un omo che ha vario più zente, che no gh’ho cavei in testa. Son sta a casa soa. Oh se vedessi! El gh’ha dei libri pieni de attestati de zente che l’ha guarìo.
Beatrice. Sarà qualche ciarlatano.
Pantalone. Oh oh, giusto, un zaratan! Nol monta miga in banco. Chi lo vuol, bisogna o andar a casa soa, o mandarlo a levar. Sentì che boccon de omo che l’è: lu no vuol gnente, se la cura no xe fenìa. El fa elo i medicamenti, e ghe basta tre o quattro zecchini, per comprar la roba che ghe va drento.
Beatrice. E con quei tre o quattro zecchini è pagato e strapagato, e se la cura va male, non perde niente.
Pantalone. Mo za, vualtre donne pensè sempre al mal.
Beatrice. Io parlo per vostro bene, e per quello di vostra figlia.
Pantalone. Ve ringrazio del ben che volè a mia fia; ma in casa mia comando mi, e so quel che fazzo.
SCENA IV.
Colombina e detti.
Colombina. Signora Beatrice, la mia padrona vi prega di venire da lei.
Pantalone. Cossa vorla? Cossa xe sta? Gh’ha chiappà mal? Son qua mi, vegno mi.
Colombina. Ora non ha bisogno di voi, vuole la signora Beatrice.
Pantalone. Son so pare, posso andar.
Colombina. Suo padre non può andar sempre, signor no.
Pantalone. Mo cossa ghe xe?
Colombina. Via; ha bisogno della signora Beatrice, e non di voi.
Pantalone. Cara siora, andè là; vardè cossa la vuol.
Beatrice. Poverina! Vado subito.
Colombina. (Ha saputo che avete parlato col medichino, ed è curiosa di sapere che cosa gli avete detto). (piano a Beatrice, e parte)
Beatrice. (Povera ragazza! Se sa la cosa com’è, muore dalla passione). (da sè)
SCENA V.
Pantalone, poi Agapito.
Pantalone. Vorria provar l’unguento de sta donna; el costa poco, e se poderia dar che con poco la varisse; ghe n’ho buttà via tanti, no vôi vardar spesa: chiamerò sto spargirico; so ch’el gh’ha un balsamo, che varisse trenta o quaranta mali; possibile che noi varissa anca quello de mia fia?
Agapito. Signor Pantalone, con sua licenza.
Pantalone. Oh sior Agapito, la reverisso.
Agapito. Che dice?
Pantalone. La reverisso. (forte)
Agapito. Oh, obbligato. Sta bene la signora Rosaura?
Pantalone. La sta malissimo.
Agapito. Sì? Me ne rallegro.
Pantalone. Ve ne rallegrè? (forte)
Agapito. Sì signore, ho gusto che stia bene.
Pantalone. Ve digo che la sta malissimo, malissimo. (forte)
Agapito. Ah, ho inteso; me ne spiace.
Pantalone. (Co sto sordo se fa fadighe da bestie). (da sè)
Agapito. Come è andato il consulto?
Pantalone. No i ha concluso gnente affatto.
Agapito. Sì? L’anno fatto?
Pantalone. I l’ha fatto. (forte)
Agapito. Che cosa hanno concluso?
Pantalone. Gnente, gnente. (forte assai)
Agapito. Non dite tanto forte, che mi offendete l’orecchio.
Pantalone. Mo se sè sordo. (forte)
Agapito. Io sordo? Mi maraviglio di voi: sento ronzar le mosche. Voi mi offendete.
Pantalone. Compatime, no dirò più.
Agapito. Io sordo? Mi fate un bel credito!
Pantalone. Caro vu, ho fallà, no dirò più.
Agapito. Vendo l’oglio6 per la sordità, e volete ch’io sia sordo?
Pantalone. Cossa vuol dir, che qualche volta no ghe sentì?
Agapito. Con quest’oglio ho fatto prodigi.
Pantalone. Xe vero che qualche volta no ghe sentì?
Agapito. E se voi l’adoprerete, non patirete di sordità.
Pantalone. Adesso ghe sentìu?
Agapito. Che?
Pantalone. Ghe sentìu? (un poco più forte)
Agapito. Come?
Pantalone. Ghe sentìu? (assai forte)
Agapito. Sì, ci sento, ci sento.
Pantalone. (Siestu maledetto, l’è sordo, e nol vuol esser), (da se)
Agapito. Sicchè dunque i medici non hanno concluso niente?
Pantalone. Gnente. (forte)
Agapito. Ma piano, che ci sento. Che cosa pensate fare di vostra figlia?
Pantalone. No so gnanca mi.
Agapito. Che?
Pantalone. No so gnanca mi. (forte)
Agapito. Ho inteso; volete fare a mio modo?
Pantalone. Perchè no?
Agapito. No? Avete detto di no?
Pantalone. Ho dito perchè no? (forte)
Agapito. Sì, v’ho capito. Perchè no, vuol dire di sì. V’ho capito. Se volete fare a modo mio, datele due o tre prese di china.
Pantalone. La china a mia fia no ghe passa.
Agapito. Come passa?
Pantalone. La china no ghe passa. (forte)
Agapito. Bene; l’aiuteremo con un purgante.
Pantalone. Con un poco de cremor de tartaro. (forte)
Agapito. No, col cremor di tartaro no. La china col cremor di tartaro non va bene, non si unisce bene. China e cremor di tartaro sono due medicamenti contrari. Avete capito? Son due medicamenti contrari, che combattono fra di loro. Intendete? Due medicamenti nemici, appunto come sono nemici l’imperator della China e il Can de’ Tartari. Avete capito?
Pantalone. Aspetto un spargirico.
Agapito. Come? Un panegirico?
Pantalone. Un spargirico. (forte assai)
Agapito. Un spargirico? Ho inteso. Maledetti questi spargirici! Rovinano le spezierie. Tutti impostori, tutti ciarlatani. Non vi fidate, non credete loro. Ciarlatani, ciarlatani.
Pantalone. L’è un omo grando. (forte)
Agapito. Come si chiama?
Pantalone. Asdrubale.
Agapito. Chi? Annibale?
Pantalone. Asdrubale.
Agapito. Lo conosco, lo conosco; è venuto da me a comprar la genziana, e poi la dà per un suo segreto particolare per la febbre. Con dieci soldi busca trenta scudi. Avete inteso? (forte)
Pantalone. Ho capìo.
Agapito. Io con sette paoli gli ho fatto una boccia di spirito aromatico, ed egli guadagnerà dei zecchini. Avete capito? (forte)
Pantalone. Sior sì, ho capìo. (forte)
Agapito. Ma non gridate sì forte.
Pantalone. Criè anca vu. (forte)
Agapito. Lo fo per farmi sentire.
Pantalone. Cossa concludemo de mia fia?
Agapito. Come?
Pantalone. (Oh poveretto mi!) Per mia fia cossa ghe vol?
Agapito. Mogol?
Pantalone. Ghe voi china?
Agapito. Mogol e China?
Pantalone. Son desperà.
Agapito. Vi dirò: il principe del Mogol ha dato la sua figlia per moglie al principe della China. Avete capito? E il matrimonio è fatto, e non si può più disfare. Avete inteso? Oh, vi è il gran Can dei Tartari...
SCENA VI.
Colombina e detti.
Colombina. Signor padrone, alla povera signora Rosaura è venuto un accidente. (parte)
Pantalone. Oh poveretto mi! Presto.
Agapito. Che cosa è stato?
Pantalone. Mia fia xe in accidente.
Agapito. Non sapete niente?
Pantalone. Aveu gnente?
Agapito. Via, non sarà7 niente.
Pantalone. Aveu qualche spirito?
Agapito. Se ho spirito?
Pantalone. No me intendè? (forte)
Agapito. Sì, v’intendo.
Pantalone. Mia fia xe in accidente. (forte)
Agapito. Accidente?
Pantalone. Mia fia gh’ha mal. (forte)
Agapito. China, china.
Pantalone. Presto, presto. (parte)
Agapito. China, china. (parte)
SCENA VII.
Camera di Rosaura.
Rosaura svenuta, Beatrice e Colombina.
Beatrice. Povera Rosaura! Non vi è rimedio che voglia tornare in sè.
Colombina. Cara signora Beatrice, perdonatemi, avete fatto male a dirle che il dottor Onesti l’abbandona.
Beatrice. Ma che? Aveva da lusingarla?
Colombina. Si poteva lusingare e tirar innanzi.
Beatrice. Son donna, ma non ho il vizio di dir bugie.
Colombina. Avete quell’altro di non poter tacere.
SCENA VIII.
Pantalone, Agapito e dette.
Pantalone. Coss’è? Come xela?
Beatrice. Eccola qui; ancora svenuta.
Pantalone. Oh poveretto mi! Sior Agapito, sior Agapito. (forte)
Agapito. Ih, ih! Siete spiritato? Son qui.
Pantalone. Mia fia xe in accidente. (forte)
Agapito. Ho inteso.
Pantalone. No la puol revegnir. (forte)
Agapito. Ho inteso.
Pantalone. Aiutela, me raccomando a vu. (forte)
Agapito. Se potesse prender la china...
Pantalone. No vedeu? No la pol.
Agapito. Lasciate ch’io senta il polso.
Pantalone. Caro vu, me raccomando. (forte)
Agapito. Presto, presto, non ha polso.
Pantalone. Come? (forte)
Agapito. Siete sordo? Non ha polso.
Pantalone. Cossa vuol dir? (forte)
Agapito. Il sangue non circola.
Pantalone. Presto el chirurgo, femoghe cavar sangue.
Agapito. Che?
Pantalone. Sangue, sangue. (forte)
Agapito. Oibò! Lasciate fare me. (vuol partire)
Pantalone. Dove andeu?
Agapito. Vado alla spezieria e torno.
Pantalone. Cossa andeu a tor? (forte)
Agapito. Le voglio mettere i vessicanti.
Pantalone. Cossa diavolo diseu? (forte)
Agapito. So quel che dico. So quel che fo. Vado e vengo. Se non le metto i vessicanti, è spedita.
Pantalone. Presto donca, presto. (forte)
Agapito. Subito, subito.8 (parte)
SCENA IX.
Pantalone, Rosaura, Beatrice e Colombina.
Beatrice9. Animo, animo; principia a rinvenire.
Colombina. Via, via, non è nulla.
Pantalone. Fia mia, fia mia.
Rosaura. Oimè! Dove sono?
Pantalone. Care le mie raìse? Cossa te sentistu, vita mia?
Rosaura. Ahi, il mio povero cuore!
Pantalone. Via, sollevete un pochetto. Levete suso, chiappa un poco de aria. Agiutela, creature, agiutela.
Rosaura. (s’alza) Oimè! Non posso star in piedi.
Pantalone. Tiremola più avanti, che l’aria da quel balcon no ghe fazza mal. (tira avanti una sedia, e Rosaura, sostenuta da Beatrice e Colombina, va a sedere.)
Rosaura. Il medico; dov’è il medico?
Pantalone. Vustu el miedego? Adesso subito lo anderò a cercar.
Rosaura. Voglio il dottor Onesti.10
Pantalone. Sì, lo cercherò, ma se no lo trovo, manderò qualcun altro. Senza miedego no vôi che la staga. Se vien i miedeghi, lassè che i scriva; se vien sior Agapito, diseghe che el se ferma. Se el la trova in accidente, che el ghe metta i vessiganti; se vien el chirurgo, che el ghe cava sangue; se vien el spargirico, che el ghe daga qualcossa per bocca. (va e torna) Oe, se vien la zavattera11, che la ghe onza le siòle dei piè. (parte)
SCENA X.
Rosaura, Beatrice e Colombina.
Beatrice. Povero vecchio! il dolore lo fa impazzare.
Colombina. Con tanti medici, con tanti imbrogli vuol rovinare questa povera giovane.
Rosaura. Signora Beatrice, il dottor Onesti non verrà più a visitarmi?
Beatrice. Così ha egli detto.
Rosaura. Oimè! (in atto di svenire)
Colombina. Eh, che verrà. Ha detto a me che verrà.
Rosaura. Ha detto che verrà? (respirando)
Colombina. Sì, in verità; l’ha detto.
Rosaura. Quando?
Colombina. Poco fa, che l’ho incontrato per la strada.
Rosaura. Dopo che ha parlato colla signora Beatrice?
Colombina. Sì, dopo, dopo.
Rosaura. Sentite, signora Beatrice? Il dottor Onesti verrà.
Colombina. (Dite di sì). (piano a Beatrice)
Beatrice. Sì, sì, verrà.
Rosaura. Par che lo diciate per forza: verrà o non verrà?
Colombina. Se vi dico che verrà.
Rosaura. E voi che dite? (a Beatrice)
Beatrice. Dico anch’io che verrà.
Rosaura. Oimè! respiro.
SCENA XI.
Lelio e dette.
Lelio. Signore mie, con loro permissione. Il signor Pantalone mi ha detto ch’io venga, e perciò preso mi sono la libertà di venire.
Rosaura. Che cosa vuole? Che cosa comanda?
Lelio. Signora, la stima che ho di voi, non merita che mi trattiate con tanta asprezza.
Beatrice. Compatitela, è oppressa dal male.
Lelio. Appunto per questo son qui venuto. Incontrai il signor Pantalone, e vicino a questa casa mi narrò piangendo lo stato miserabile di sua figlia. Gli dissi avere con me le gocce mirabili d’Inghilterra, le quali sogliono operare prodigi. Mi raccomandò di venire a offerirle alla signora Rosaura, ed io non ho tardato di farlo. Eccole, signora; se voi le prenderete, credetemi, vi troverete contenta.
Rosaura. Obbligatissima, non le voglio.
Lelio. Eh signora Rosaura, so io che rimedio ci vorrebbe pel vostro male.
Rosaura. Voi non sapete niente.
Lelio. Vi vorrebbe uno sposo.
Rosaura. Mi maraviglio di voi. Con le fanciulle civili non si parla così. Mio padre ha fatto uno sproposito a permettervi che mi venghiate a inquietare col pretesto delle gocce d’Inghilterra. Ma io correggerò l’error suo, con non rispondervi, con non abbadarvi, con darvi quella retta che meritate.
Lelio. (La signora ammalata ha parlato con dello spirito). (da sè)
Beatrice. (Capperi! quando occorre, sa dir bene la sua ragione). (da sè)
Colombina. (È una malattia, che non le impedisce d’adoperar la lingua). (da sè)
Lelio. Basta, in qualunque maniera voi mi trattiate, soffrirò tutto, attribuendolo al male che v’infastidisce. Io devo attendere il signor Pantalone, per rendergli conto di non aver mancato al debito di servirlo.
Rosaura. Eh, non importa. Farò io con mio padre le vostre scuse.
Lelio. Perdonatemi; so il mio dovere.
Rosaura. Oh Dio! Mi sento venir male.
Lelio. Volete le gocce d’Inghilterra?
Rosaura. Signor no. Lasciatemi in libertà.
Lelio. (Costei sa aver male quando vuole; non le credo e non voglio partire). (da sè)
Colombina. Ma caro signore, quando una donna dice ad un uomo che vuole restar in libertà, la civiltà vorrebbe che se ne andasse.
Lelio. La civiltà non ho da impararla da voi.
Beatrice. Ecco il medico.
Rosaura. Il dottor Onesti? (s’alza con allegria)
Beatrice. No, è il dottor Buonatesta.
Rosaura. Vada al diavolo. (siede)
SCENA XII.
Il dottore Buonatesta e detti.
Buonatesta. Buon giorno a loro signore. Che cosa c’è? Disgrazie? Il signor Pantalone per fortuna mi ha ritrovato. Eccomi qui. Vi aiuterò io, vi soccorrerò io; non morirete no, non morirete. Ditemi, che cosa vi sentite? Avete febbre? Ah? Avete febbre?
Rosaura. (Non gli voglio rispondere, non voglio parlare), (da sè)
Buonatesta. Non rispondete? Avete perduta la parola? Che? Mi vedete? Mi conoscete? Non risponde; ha gli occhi incantati. Signora Beatrice, questa ragazza è quasi morta, ha perduta la parola, non vede, non sente. Io l’aveva detto che il male era grande. Ho conosciuto dal polso che doveva peggiorare; e quel caro dottor Onesti diceva che il polso era giusto, che non era alterato. Che bravo medico! Non sa niente.
Beatrice. Eppure poco fa parlava, e non era in questo stato. Che dice il signor eccellentissimo?
Buonatesta. Oh gran caso! Gli accidenti vengono da un momento all’altro; sentiamo il polso. Oh che polso! Dov’è il polso? Non si trova, non si sente. Balza, s’incanta. Presto a me. Carta, penna e calamaio.
Colombina. (Che le sia venuto male davvero?) (a Beatrice)
Beatrice. (Ho paura di sì. Il dottore al polso lo deve conoscere). (a Colombina)
Buonatesta. Presto. Carta, calamaio; a me.
Lelio. Signor dottore, le gocce d’Inghilterra sarebbero buone?
Buonatesta. Oh pensate! tutte ciadatanerie. Tutto quello che non viene ordinato dal medico, è veleno.
Corallina. Ecco la carta e il calamaio.
Buonatesta. Presto, presto. Recipe margaritarum præeparatarum dracmas duas. Coraliorum et perlarum ana dracmas tres. Succinorum præaparatorum dracmam unam. Saccari albi uncias tres. Solve in aqua melissa quantum sufficit, et fiat potio cordialis.
Rosaura. (Scrivi, scrivi; già non prendo niente). (da sè)
SCENA XIII.
Il dottor Merlino Malfatti e detti.
Merlino. Che cosa vi è di nuovo? È venuto il signor Pantalone alla spezieria a ritrovarmi, e son venuto immediate. Che è accaduto?
Buonatesta. Dottor Malfatti, non ve l’ho detto io che la povera signora Rosaura doveva precipitare? Ah, non ve l’ho detto?
Merlino. Ed io che cosa ho detto? Si ricorda, signor Lelio, quando gli ho detto che il male di questa signora era quasi incurabile?
Lelio. Certamente; me l’avete detto, e il signor dottor Onesti diceva che stava bene.
Buonatesta. Che cosa sa il dottor Onesti? La signora Rosaura ha perso la parola.
Merlino. Ha perso la parola? Signora Rosaura, come va? Che cosa si sente? E vero; ha perduto la favella.
Buonatesta. Tastatele il polso.
Merlino. Adesso! Oh che polso!
Buonatesta. Non è incantato?
Merlino. Certamente.
Buonatesta. Non balza?
Merlino. E come!
Buonatesta. Non è sintomatico?
Merlino. Lo volevo dire ancor io; è sintomatico.
Buonatesta. Venite qui. Le ho ordinato un cordiale. Osservate; so che l’approverete.
Merlino. Margaritarum, coraliorum, perlarum, succinorum. Va benissimo, non può andar meglio.
Buonatesta. Presto, signore, mandate alla spezieria. (alle donne)
Colombina. Ora non vi è nessuno.
Buonatesta. Signor Lelio, vada ella.
Lelio. Tanto io credo al vostro cordiale, quanto voi credete alle mie gocce d’Inghilterra.
SCENA XIV.
Tarquinio e detti.
Tarquinio. Eccomi, eccomi.
Beatrice. Che cosa comanda?
Tarquinio. Il signor Pantalone mi ha mandato a vedere, se la signora Rosaura ha bisogno di me.
Beatrice. Poverina, è in accidente, ha perso la parola.
Tarquinio. Sangue, sangue. Signora Rosaura, come sta? Non parla? Non risponde? Presto, presto; accendete questo cerino.12 Presto.
Buonatesta. Non si cava sangue senza l’ordinazione del medico.
Tarquinio. E in un caso simile lor signori non ordinan sangue?
Buonatesta. Voi fate il vostro mestiere, e noi facciamo il nostro. Unusquisque in provincia sua.
Merlino. Signor sì, in provincia sua.
Lelio. E intanto l’ammalata non si medica.
SCENA XV.
Pantalone, il dottor Onesti e detti.
Pantalone. Mo via, caro sior dottor Onesti, cossa hala recevesto da casa mia? Che difficoltà gh’ala de vegnir a visitar mia fia? Son galantomo, e recognosso le persone che merita.
Onesti. Che bisogno avete di me, se vostra figlia è assistita da tanti virtuosi signori?
Buonatesta. (Ehi, il dottor Onesti vede il caso disperato e si vuol cavare). (a Merlino)
Merlino. (Sì, si vuol cavare). (a Buonatesta)
Onesti. (La pietà m’ha indotto a ritornare. Povera giovine! La vogliono assassinare). (da sè)
Pantalone. Coss’è? Coss’hala mia fia? Cussì incantada la xe?
Buonatesta. Ha perduta la parola.
Pantalone. Come?
Merlino. Non parla più.
Pantalone. Oh poveretto mi! No la parla più? Mo per cossa?
Buonatesta. Il polso balza.
Merlino. Il polso è sintomatico.
Tarquinio. Sangue, sangue.
Onesti. Ha perduta la parola? (a Beatrice)
Beatrice. Osservatela.
Onesti. Non parla più? (a Merlino)
Merlino. È sintomatica.
Onesti. Io resto attonito! Signora Rosaura.
Rosaura. Che mi comanda, signor dottore?
Onesti. Come state?
Rosaura. Così, così.
Pantalone. Oe, la parla.
Onesti. Che dite ch’ella non parla? (ai due medici)
Buonatesta. Cessato il parossismo, si è fatta dalla natura una benigna crisi: quae in casu nostro vocatur subita morbi in melius mutatio.
Merlino. Sì signore. Crisis in melius mutatio.
Pantalone. Sia ringrazià el cielo, respiro. Se m’aveva serrà el cuor.
Lelio. (Io credo che avesse perduta la parola, perchè non voleva parlare. Oh, queste donne la sanno lunga). (da sè)
Beatrice. (La crisi che ha mutato il male di Rosaura, è stata la venuta del dottor Onesti). (a Colombina)
Colombina. (Quei due medici non sanno che cosa si peschino).
Beatrice. (Poveri ammalati!)
Buonatesta. Cambiata l’indole del morbo, converrà passare a un’altra provincia di rimedi.
Merlino. Sicuramente, converrà uniformarsi al morbo.
Tarquinio. Il sangue è necessario, propter reparationem.
Pantalone. Mo via, cari siori, per amor del cielo femo qualcossa. Medichemo, reparemo, resolvemo.
Buonatesta. Carta e calamaio.
Merlino. Carta, penna e calamaio.13
SCENA XVI.
Agapito e detti.
Pantalone. Sior Agapito, cossa gh’aveu per mia fia? (Jorte)
Agapito. La pasta per i vessicanti.
Pantalone. E ela, sior dottor Onesti, no la fa gnente?
Onesti. Uno ordina,14 quello sangue, questo vescicatori: che cosa dice la signora Rosaura? Prima di dire la mia opinione, ho piacere di sentir la sua.
Beatrice. Signora Rosaura, mi date licenza che parli io per voi?
Rosaura. Sì, parlate voi; io non ho coraggio di farlo.
Beatrice. Quand’è così, signori dottori, signori eccellentissimi, stracciate le vostre ricette. Rosaura non ha altro male che quello che ha detto il dottor Onesti. Un’amorosa passione l’opprime, la tormenta, l’affligge. Via, signora Rosaura, fatevi animo, e confermate a vostro padre una tal verità.
Rosaura. Oh Dio! sono forzata a dirlo; mi conviene superare il rossore, per liberarmi non solo dal male che mi tormenta, ma dai medici che mi vanno perseguitando. Amo, sì, amo il dottor Onesti. Vederlo, amarlo e non ardir di spiegarmi, formava tutto il mio male. Che dite voi altri di polso, di crisi, di parossismi? Uno inventa, l’altro seconda. Voi che pretendete di fare col vostro sangue? Signor padre, ho scoperto il mio male, ecco il mio rimedio; avete promesso di non negarmelo. Se mi amate, se la mia salute vi preme, attendetemi la promessa.
Lelio. (Ho inteso; getto via le gocciole d’Inghilterra). (da sè)
Agapito. Che cosa ha detto? (a Tarquinio)
Tarquinio. Son confuso.
Agapito. Che?
Tarquinio. Eh, non mi seccate.
Pantalone. Cossa sèntio? Sior dottor Onesti, mia fia xe innamorada de elo?
Onesti. Se questo è vero, persuadetevi che io non ne ho colpa veruna.
Pantalone. No pol esser, l’avere lusingada.
Onesti. Signora Rosaura, parlate voi per la mia riputazione.
Rosaura. Giuro che mai gliel’ho detto, nè mai gl’ho dato indizi, dai quali immaginarselo egli potesse.
Beatrice. Io me ne sono accorta. Oggi l’ho confidato al dottor Onesti, ed egli per fare un’azione da suo pari, non voleva venire mai più.
Onesti. Ecco la ragione, per cui mi son fatto pregare a venir ora a vederla.
Pantalone. (L’è un omo savio e prudente). (da sè)
Agapito. Che cosa dicono? (a Merlino)
Merlino. (Son incantato!) (da sè)
Agapito. Come?
Merlino. Non mi rompete il capo.
Pantalone. Le ringrazio infinitamente delle so visite. Le ha sentìo el mal de mia fia; onde no gh’è più bisogno de lori. (ai medici)
Buonatesta. Se vostra figlia è pazza, pazzi non siamo noi. Il polso non falla; il polso era intermittente, balzante e sintomatico. Ciò ditonava ristagno, coagulo, fissazione, la qual fissazione poteva essere prodotta o da una lipothimia, o da una sincope, idest solatio naturæ. Ma sarà stata prodotta dall’orgasmo del cuore, dall’arresto del moto ai precordi, per l’impazienza del preconizzato connubio; onde si verifica l’aforismo d’Ippocrate: Experimentum fallax, et judicium vero difficile; ed è verissimo che i mali delle donne sæpe sæpius vocantur opprobrium medicorum. (parte)
Merlino. Opprobrium medicorum. (parte)
SCENA XVII.
Rosaura, Beatrice, Pantalone, Lelio, Colombina,
dottor Onesti, Agapito e Tarquinio.
Agapito. Che cosa hanno detto? (a Lelio)
Lelio. Siete sordo? (forte)
Agapito. Sordo un corno.
Lelio. Se non siete sordo, avrete inteso.
Agapito. Che?
Lelio. Schiavo vostro. (va dall’altra parte)
Agapito. Padron mio. (Che diavolo sarà! Io non intendo niente). (da sè)
Pantalone. Sior dottor Onesti, za che vedo che mia fia ghe vol ben, che l’era ammalada per causa soa, e che solamente le so nozze la pol varir, son qua con tutto el cuor a offerirghela, se el la vol.
Onesti. Sarei troppo ingrato e incivile, se ricusassi la generosa offerta che voi mi fate. Prima però d’accettarla, pregovi assicurarmi che non vi resti verun sospetto ch’io l’abbia nel visitarla sedotta.
Pantalone. Me maraveggio. So el vostro carattere, e po mia fia e siora Beatrice m’ha dito tanto che basta.
Onesti. Quand’è così, accetto da voi il prezioso dono che mi esibite; e volgendomi alla signora Rosaura, la supplico a non isdegnar la mia mano.
Rosaura. Voi mi offerite la vita nell’esibirmi la vostra mano; l’accetterò con giubbilo, e terminato avrò di penare.
Colombina. E terminato avrete di tormentarci e di far impazzire quanti noi siamo.
Agapito. Ehi, che cosa dicono? (a Tarquinia)
Tarquinio. Signori, dunque me ne posso andar via.
Pantalone. La vaga pur a bon viazo.
Tarquinio. Se la signora Rosaura sta bene, se la signora Rosaura si marita, non ha bisogno d’altra cavata di sangue. (parte)
Lelio. Signor Pantalone, ho inteso tutto. La signora Rosaura è guarita, ma non è per me. Prima me l’avete negata per causa della malattia, ora non me la potete dare per causa del medicamento. Riverisco lor signori. (parte)
SCENA XVIII.
Il dottor Onesti, Rosaura, Beatrice, Pantalone, Colombina e Agapito.
Pantalone. Patron mio reverito.
Agapito. Signor Pantalone, come sta la signora Rosaura? Che hanno detto i medici? Ha più bisogno de’ vescicanti?
Pantalone. Séntela, sior dottor Onesti? Qua el sior Agapito, pien de bontà e pien de zelo, vedendo che mia fia giera in accidente, l’aveva porta la pasta de’ vessiganti per farla revegnir.
Onesti. A una donna svenuta mettere i vescicatori?
Agapito. Se io li so mettere? Sì signore.
Onesti. Orsù, non è più da tollerarsi un uomo tale in questa città, con pericolo della salute e della vita de’ poveri sventurati che incappassero nelle vostre15 mani. Dovrete chiudere la bottega, e non farete più lo speziale. (forte)
Agapito. Non farò più lo speziale?
Onesti. No, il collegio non vi può più tollerare.
Pantalone. Anderè via de sto paese. (forte)
Onesti. Chiuderete la spezieria. (forte)
Agapito. Ho piacere; i medici non verranno a disturbarmi, quando leggo i foglietti. (parte)
SCENA ULTIMA.
Rosaura, Beatrice, il dottor Onesti, Pantalone e Colombina.
Pantalone. Adesso me n’accorzo16 che l’è matto.
Onesti. E voi vi siete per tanto tempo fidato di lui.
Pantalone. Fia mia, gh’astu più mal?
Rosaura. Non sono ancora risanata del tutto.
Pantalone. Via, via, el sior dottor finirà la cura.
Beatrice. Cara signora Rosaura, ora che vi vedo lieta e contenta, torno a casa mia, consolandomi delle vostre felicità.
Rosaura. Sono molto tenuta all’amore che voi avete per me.
Colombina. Ho imparato anch’io a prender marito a forza di svenimenti.
Onesti. Sì, queste cose da voi altre donne s’imparano facilmente. Vorrei piuttosto che tutti voi dagli accidenti di questo giorno imparaste che molti mali provengono dall’opinione, che vi sono degl’impostori e degl’ignoranti; ma che senza paragone è maggiore il numero de’ medici dotti, sinceri ed onesti.
Fine della Commedia.
Note
- ↑ Pap. aggiunge: mi odierà con ragione.
- ↑ Zatta: sintanto.
- ↑ Pap. aggiunge: se non mi lascio più vedere da lei.
- ↑ Segue nell’ed Pap.: che il cielo volesse offerirmi, ma garantisco ecc.
- ↑ Moglie di un ciabattino. [nota originale]
- ↑ Pap.: l’acqua.
- ↑ Pap.: non è.
- ↑ Pap. continua: Due vessicanti alle braccia, due alle coscie, uno alla coppa, e se bisogna, un cauterio, una fontanella.
- ↑ Nell’ed. Pap. precede: «Pant. El me la vol scarnificar»,
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Pant. Se lo troverò, lo farò vegnir elo, se no, manderò un altro. Ghe ne manderò do, tre, quattro. Tutti i medici della città. Ros. Vadano tutti al diavolo. Voglio il dottor Onesti. Pant. Lo troverò, el vegnirà; ma intanto no stemo senza. Ghe voi remedio al mal. Ros. Non voglio altri che il dottor Onesti. Pant. Sì, fia mia, lo vago a cercar. Ros. Fate presto. Pant. Subito. Creature, ve la raccomando. Beatr. Cercate il dottor Onesti. Pant. Sì, lo cercherò ecc..»
- ↑ La ciabattina. [nota originale]
- ↑ Pap. aggiunge: Ecco la lancetta.
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Tarq. Eccomi qui colla lancetta. Lel. Io ho le gocciole d’Inghilterra».
- ↑ Pap. aggiunge: uno ricetta.
- ↑ Zatta: sue.
- ↑ Zatta: incorzo.