La fine di un Regno/Parte II/Capitolo II
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CAPITOLO II
Le prime feste per l’avvenimento al trono di Francesco II cominciarono il 24 luglio, poiché in quel giorno si chiudeva il primo periodo del lutto, e durarono sino al 27. Il nuovo sindaco, principe d’Alessandria, aveva dato incarico agli architetti Leonardo Laghezza, Antonio Francesconi e Carlo Paris, di decorare con trofei e arazzi il lungo percorso, che dalla Reggia conduce al duomo, per Toledo e port’Alba. Fu la parte della città più addobbata, ma trofei ed arazzi ornavano quasi tutte le vie principali. Al largo del Mercatello era stata costruita una grande impalcatura, che costò essa sola seimila ducati e servi assai mediocremente. Restando in piedi per alcuni mesi, diè occasione ad una lite. Napoli era tutta in festa e nelle tre sere vi furono splendide luminarie. La prima e grande cerimonia ufficiale doveva essere la visita dei Sovrani alla cappella di San Gennaro e si compì, con magnificenza, la mattina del 24. Alle dieci, una salva dai forti e dai legni da guerra pavesati a festa, annunciò l’uscita dei Sovrani dalla Reggia, i quali, seguiti da tutta la Corte in gran gala e da dieci paggi con torce accese, s’avviarono in vetture di gran gala al duomo, in mezzo a cordoni di truppa, dietro i quali si stipava una folla plaudente. Le carrozze procedevano quasi al passo e da tutti si ammirava Maria Sofia, che indossava un vestito bizzarro ed era bellissima.
Discesero il Re e la Regina innanzi alla porta maggiore del tempio, sotto un baldacchino sostenuto dagli Eletti della città, e in chiesa furono ricevuti dall’arcivescovo Riario Sforza e dal capitolo metropolitano. L’arcivescovo, deposta la mitra e il pastorale, diè loro a baciare il legno della Croce e porse l’aoqua benedetta. Il duomo era decorato riccamente: drappi di seta ornavano il cornicione dell’abside, tendine di merletto cadevano sui finestroni. A cornu evangelii sorgeva il trono reale con due sedie, due inginocchiatoi e due cuscini; a cornu epistolae, un palchetto per i principi e nella navata, due tribune, una per il corpo diplomatico e l’altra per l’aristocrazia ascritta al libro d’oro. Dirigeva la musica il maestro Parisi e pontificava il Riario Sforza. La sedia e il cuscino del Re erano coperti da un setino, che il principe di Bisignano tolse, quando il cardinale col suo forte vocione intonò: domine salvum fac Regem nostrum Franciscum Secundum et Reginam nostram Mariam Sophiam. Detta la messa, venne cantato il Te Deum. Dopo la benedizione, Riario Sforza presentò, secondo il costume, mazzetti di fiori ai Sovrani e ai principi ed insieme si recarono alla cappella di San Gennaro. Sebbene la testa del santo fosse esposta sull’altare, il sangue raccolto nelle ampolline si liquefece: “avvenimento nuovo, scriveva il foglio ufficiale, a memoria d’uomo, da tutti udito con divota compiacenza, ed a ragione riguardato come faustissimo presagio„. Tornarono i Sovrani alla Reggia con lo stesso corteo e di là assistettero allo sfilare delle truppe, che rientravano nei quartieri. Per la circostanza non mancarono i versi. Son da ricordare, nella loro rozza ingenuità, quelli che si leggevano sulla porta principale della chiesa del Gesù, scritti da don Domenico Anzelmi:
Napoli esulta di ben giusto orgoglio, |
Il giorno dopo, ci fu il solenne baciamano secondo le regole della più rigorosa etichetta di Corte. Fu un avvenimento per il mondo ufficiale e per l’aristocrazia, poiché da varii anni baciamani non ve n’erano stati più. Nella sala del trono, sotto il baldacchino, stavano i Sovrani, circondati dai principi, dagli alti dignitari, dai prelati e dalle dame di Corte: il Re, come di consueto, in uniforme di colonnello degli usseri e la Regina col manto e la corona. L’aspetto della sala, affollata di tante persone, che vestivano ricche divise e portavano Ordini cavallereschi d’ogni nazione e incedevano e s’inchinavano con gravità, era imponente davvero. Senonchè, a un tratto, su questa varietà di colori brillanti, cominciò a disegnarsi una lunga striscia nera, che dalla porta lentamente andava svolgendosi fino al trono. Era la magistratura, in toga e cappello alla don Basilio. Alla stranezza del contrasto e più alla comicità dello spettacolo, Maria Sofia scoppiò in una risata giovanilmente schietta, che presto si comunicò a tutti i presenti e particolarmente ai principi. Il riso è epidemico e non c’era verso di frenarlo, ne voltando la faccia, né facendo mostra di tossire. Fu la nota allegra della cerimonia. In questo primo baciamano, al sindaco ed al Corpo della città di Napoli venne tolto l’antico privilegio di tenere il capo coperto alla presenza dei Sovrani, come narrerò parlando più innanzi dell’ultimo Decurionato.
Alle otto pomeridiane del giorno 26, nell’appartamento della Regina, i Sovrani ricevettero le signore napoletane ammesse al baciamano, e alle nove andarono al San Carlo, dove vi era il grande spettacolo di gala, da lungo tempo preparato. Il teatro con i palchi adorni di rose e l’illuminazione quintuplicata, gremito di personaggi ufficiali in divisa, presentava tale uno spettacolo di magnificenza, che Maria Sofia ne rimase colpita. I Sovrani furono accolti da lungo applauso. Si cantò prima la Danza inaugurale di Niccola Sole, messa in musica da Mercadante, e si eseguì poi la danza nazionale del Giaquinto con i costumi delle provincie del Regno, dalle quali era rappresentata la nazione. La danza nazionale era la tarantella. Cantarono le signore Bendazzi, Fricci e Dory, il tenore Mazzoleni e il celebre Coletti, che riscosse maggiori applausi. Nel ballo si distinsero le ballerine sorelle Osmond e i ballerini Baracani e Walpot. I Sovrani restarono in teatro fino all’ultimo, e n’uscirono fragorosamente applauditi.
L’inno di Niccola Sole fu argomento di acerbe critiche, da parte dei letterati liberali, che non sapevano perdonare al vate lucano l’incomprensibile voltafaccia. Si disse che ve l’avesse costretto la polizia; si disse ch’egli fosse uno degli speranzosi nel nuovo Re e che potesse in lui, meridionalmente, più la vanità che la coerenza. Certo n’ebbe molte amarezze, perchè la Danza inaugurale non piacque, nè come musica, nè come poesia; e il poeta se ne accorò tanto, che, ritiratosi nel suo paesello nativo, vi mori, come si è detto, negli ultimi giorni di dicembre, non ancora quarantenne.
Nell’agosto il Re e la Regina andarono a Quisisana, e qui devo riferire uno degli aneddoti più caratteristici, circa la vita intima dei giovani Sovrani. Passarono a Quisisana l’agosto, e vi era con la Corte anche il padre Borrelli. Questi stando a Quisisana, invitò presso di sè il padre Eugenio Ferretti da Oria, intimo suo amico e scolopio egli pure. Avvenne che un giorno il padre Ferretti, uomo di timorata coscienza, stando solo nelle camere del padre Borrelli, sentì rumori e risa nella prossima camera, dalla quale lo separava un uscio chiuso. Vinto dalla curiosità, si mise a spiare, attraverso il buco della serratura, e che vide? Vide il Re, che, indossata una crinolina, rideva e saltellava attorno alla Regina, la quale rideva essa pure a crepapelle. La scena durò un momento, perchè, raccontava il padre Ferretti a un intimo suo, i Sovrani passarono subito in altra camera. Il padre Ferretti rivelava in grande confidenza quel che aveva visto, solo per convincere l’amico della bontà infantile di Francesco II, del quale era idolatra. Nel suo racconto non vi era punta malizia.
Il giorno 8 settembre, i Sovrani andarono a Piedigrotta e la festa riusci più solenne, ricorrendo in quel giorno l’onomastico della Regina. Il Re passò in rivista le truppe e la sera ci fu gala al San Carlo. Il 4 ottobre, onomastico del Re, si tenne circolo in Corte, e furono decorati tutti coloro che si «rane distinti nel viaggio dei Sovrani nelle Puglie, per il matrimonio; e il 16, onomastico della Regina madre, Francesco II ordinò altra gran gala, la illuminazione degli edifici pubblici e salve delle artiglierie. Il 5 ottobre, i Sovrani visitarono l’esposizione di belle arti al Museo e vi ammirarono il Gladiatore ferito del conte di Siracusa, il quale n’ebbe dal Re vivi rallegramenti. Nell’agosto erano già venute fuori le prime piastre “d’argento, con l’effigie del nuovo Re e la scritta: Franciscus II Dei gratia Rex, e la leggenda: Providentia optimi principis, in lettere rilevate intorno alla moneta, non incise, come sulle piastre di Ferdinando II. Il nuovo conio riuscì bellissimo e somigliantissima la testa del Re, incisa da Luigi Arnaud che fu nominato poi direttore del reale laboratorio di pietre dure. Egli aveva ottenuta la grazia speciale di poter segnare le sue iniziali, L-A, appena visibili, sotto la testa del Re, e quelle due lettere furono dai liberali interpetrate per lega austriaca. Evidentemente si cominciava a perdere la tramontana.
Il nuovo Re volle occuparsi delle cose di Napoli e trovò nel principe d’Alessandria, uomo di criterio e di discreta attitudine agli uffici pubblici, un cooperatore valido. Oltre alle ordinanze di polizia urbana, che il ministero pubblicò, Francesco II volle che si affrettassero i lavori di Mergellina, della via di Chiaja, della Pace, delle Fosse del grano, ch’erano un monte di macerie, e fosse compiuta la strada della Pietatella. Ordinò inoltre, e il municipio eseguì, due nuovi ponti in ferro a Foria, uno presso la chiesa di San Carlo all’Arena e l’altro presso la parrocchia dei Vergini: entrambi sostituirono i due vecchi ponti, uno in ferro e l’altro in legno, che, in un temporale scoppiato sulla città il 20 settembre 1866, erano stati travolti dalla piena e gettati contro il muro della chiesa di Sant’Antonio Abate, senza il quale ostacolo sarebbero andati a finire addirittura in mare, per l’alveo dell’Arenaccia. E dire che sino al 1842, quando Ferdinando II, come si è visto, fece costruire il primo ponte in ferro sull’asse del vicolo Saponari, trasferito poi sull’asse della via Pontenuovo, a Foria era addirittura interrotta la circolazione durante la piena, e il numero delle disgrazie che si verificavano era grande. Il Re richiamò in vigore le regole dell’Ordine Costantiniano, che prescrivevano doversi portare, non sospesa al collo ma all’occhiello, la croce dell’Ordine, mettendo così fine all’abuso che ne facevano i cavalieri. Aggiunse alla Società reale borbonica un posto per l’incisione, e vi nominò l’Aloysio Juvara e compì un altro atto lodevole, istituendo a Torre del Greco una scuola nautica.
Il 5 novembre, fu inaugurato con maggior pompa il nuovo anno scolastico all’Università. Professori e studenti andarono al Gesù Vecchio, per assistere alla messa dello Spirito Santo, che doveva precedere la cerimonia. Il parroco, padre Ibello, incuorò i professori ad insegnare una scienza cristiana, specialmente ora, egli disse, che le aberrazioni di malsicure dottrine minacciano di divenire sempre più infeste. L’allusione era troppo diretta, per non essere compresa da studenti e da maestri. L’Università brillò, in quell’anno, di vita insolita. Vi furono istituite quattro nuove cattedre nella facoltà di giurisprudenza, e parve nuova anche quella di diritto penale, la quale, dopo la morte del Nicolini, era rimasta vacante ed a coprirla fu chiamato l’esimio magistrato Sante Roberti. Le altre cattedre furon quelle di diritto amministrativo, data al Murena; di economia sociale (non politica) data al Bianchini, e di diritto internazionale privato, data al Rocco. Murena lesse una prolusione enfatica e zeppa di citazioni, e Bianchini, una serie di lezioni a pochi discepoli, i quali si maravigliavano che il professore leggesse sempre le sue lezioni, e non ne improvvisasse mai una. Era il Bianchi uomo di modi gentili, lento e solenne, e anche sulla cattedra cupido di vanità. Egli, citando il celebre economista francese Say, lo chiamava Sei, dando luogo a vivaci motteggi da parte della scolaresca. La cattedra del Rocco era la più frequentata, ma non in maniera, che il concorso della studentesca potesse paragonarsi agli affollamenti di oggi, molto babilonici e meno profittevoli.
Fiorentissimi in quell’anno furono, invece, gli studii privati. Quelli più in voga, erano gli studii di diritto di Francesco Pepere, di Enrico Pessina, di Luigi Capuano, di Filippo de Biasio, di Raffaele Fioretti e di Luigi Zumbani. Pepere cominciava le sue lezioni nelle prime ore della mattina, e, d’inverno, la sala non ampia e affollata era debolmente rischiarata da una lucerna. Il suo studio aveva sede in Bonafiociata vecchia, alla Pignasecca, nel palazzo di fronte, che credo portasse allora il numero 30. Pessina insegnava nel seminario dei nobili; De Biasio, al Gavone; Capuano, alla Concezione a Montecalvario. Fra gli studenti di Pepere, di Pessina, di Capuano e di De Biasio in quell’anno, ricorderò alcuni, che occuparono poi alti posti nell’insegnamento, nella magistratura o nell’amministrazione dello Stato: Guglielmo Capitelli, il compianto Vito Sansonetti, Pietro Marsilio, Enrico Perfumo, Ferdinando Lestingi, Federico Criscuolo, Vincenzo Colmayer, Niccola Cianci, Federico Lanzetta, Alfonso Cammarota, Francesco Girardi, i fratelli Minichini, oltre a due valorosi, che la morte rapi innanzi tempo, Emesto Faraone e Cesare Boccardi, prete di Molfetta.
Frequentatissimi, nella medicina e nella chirurgia, gli studii privati di Carlo Gallozzi, di Giuseppe Buonomo, di Luigi Amabile, di Tommaso Vernicchi, di Federico Tesorone e di Francesco Prudente. Tesorone insegnava alla salita degl’Incurabili, al numero 40. Egli fu il primo, che facesse venire da Parigi uno scheletro umano di cartapesta, per le sue lezioni molto lodate di anatomia e chirurgia. Carlo Gallozzi, che aveva tra i suoi discepoli Antonelli, Frusci ed Enrico de Renzi, venuti più tardi in celebrità, aveva studio, per la parte teorica, in una casa a Fontana Medina e per la parte operatoria, agl’Incurabili. Godeva fin d’allora onorato nome tra i giovani chirurgi napoletani, e il suo studio privato rimontava al 1852, quando Ferdinando II ne concesse nuovamente la facoltà, che dopo il 1849 era stata tolta a tutti, senza eccezione. Ma ai chirurgi e ai medici, i quali chiedevano il permesso di aprir studio privato, s’imponeva un esame di catechismo molto curioso; anzi vi era una commissione di vigilanza ad hoc, preseduta da monsignor Apuzzo. Fra le domande del catechismo, alle quali si doveva rispondere, ricordo queste: La morte di Gesù fu reale o apparente? Le sacre stimmate di San Francesco d’Assisi erano segni soprannaturali, o piaghe erpetiche? Potrebbe il magnetismo spiegare il miracolo? Come ammettersi la verginità di Maria, dopo il parto? La dottrina di Carus e l’immortalità dell’anima, e così via via. Rispondere bene a questi quesiti, ragionando e discutendo, in senso perfettamente ortodosso, era condizione per i chirurgi e i medici di ottenere la facoltà dello studio privato, ma con l’obbligo di denunziare alla commissione di vigilanza il nome e l’indirizzo degli studenti ascritti (solo i giovani laureati furono esclusi da questo obbligo); di pagare dieci carlini l’anno e di far lezione con l’uscio aperto.
I professori di diritto e quelli di lettere italiane e latine non subivano alcun esame; ma gli altri obblighi erano comuni. Il padre Cercià, gesuita, aveva studio di diritto canonico; Luigi Palmieri, il padre Balsamo, don Agostino de Carlo e don Felice Toscano, di filosofia; e il Palmieri era così facile di parola, che i suoi uditori gli avevano affibbiato quest’epigramma, che egli parlasse prima di pensare a quel che doveva dire. Tucci e De Angelis avevano la scuola di matematica più frequentata; e, dopo loro, il Cua e Achille Sannia. Bruto Fabricatore e l’abate Lamanna, puristi della vecchia scuola, insegnavano grammatica e lettere, e il Lamanna aveva fra i suoi scolari Diego Colamarino e Rocco Zerbi, che chiamava:
Spiritello di fiamma vivida e pura.
Don Giuseppe Lamanna era canonico e filologo, camminava sulle orme del Puoti, accentuandone le esagerazioni puriste e aggiungendovi delle sdolcinature ridicole. Insegnava, per esempio, che una lettera dovesse chiudersi cosi: mi vi professo ed accomando. Il marchese di Caccavone lo avea in uggia e lo flagellò con questo epigramma, ch’è uno dei più arguti, usciti dalla penna mordace di lui:
Al canonico don Giuseppe Lamanna |
Era molto accreditato l’istituto Borselli, dove insegnavano Tommaso Arabia, Federico Persico, Antonio Galasso, Antonio Vitelli e Francesco Pepere, che vi dava lezioni di diritto di natura. Quasi tutti questi studii, in particolare i giuridici, erano centri di aspirazioni liberali, specie quelli del Pepere, del Pessina e del De Biasio. Nella lezione sull’albinaggio, Pepere citava il progetto, presentato nella Camera del 1848 da Roberto Bavarese, esule a Pisa, in virtù del quale al sistema di reciprocanza verso gli stranieri, voluto dall’articolo 9 delle leggi civili, sarebbe stato sostituito il sistema dell’uguaglianza fra i cittadini napoletani e quelli degli altri Stati d’Italia; e di tanto entusiasmo s’infiammava nel pronunziare quel chiaro nome, che i giovani scoppiavano in applausi. Aveva pure buon numero di studenti don Lorenzo Zaccaro, che dettava lezioni di grammatica e di letteratura. Non voglio chiudere questi ricordi, senza rammentare i due bonarii e caratteristici impiegati dell’Università, addetti all’iscrizione agli esami, don Mauro Minervini e don Leopoldo Rossi, molto amati dai giovani.
Il principe di Satriano ebbe l’intuito della situazione politica. Per salvare la dinastia e l’autonomia del Regno, due cose che gli stavano ugualmente a cuore, bisognava cambiare strada nella politica estera e nell’interna. Profittando del ristabilimento delle relazioni diplomatiche con la Francia e coli’ Inghilterra, egli stimava che la politica del nuovo Re dovesse avere per base l’amicizia delle potenze occidentali, soprattutto della Francia. Forse anche per i ricordi gloriosi della sua gioventù, Filangieri aveva una fiducia illimitata in Napoleone III. Capiva essere interesse dell’Imperatore che il Regno di Napoli non fosse cancellato dalla carta di Europa, sia diventando un focolare rivoluzionario, sia affrettando un’unità nazionale immatura e che sarebbe riuscita a tutto benefizio del Piemonte. Ma bisognava far subito ragione ai nuovi tempi, non solo volgendo le spalle all’Austria e stringendosi alla Francia, ma mutando sistema all’interno, con uno Statuto bensì, ma alla napoleonica: non Costituzione bozzelliana, di anarchica memoria, com’egli diceva. Questo programma di Filangieri era secondato alla sua volta da Napoleone, il quale, per mezzo del barone Brenier, molto insisteva perchè fosse attuato.
Tale programma acquistò, si può dire, forma concreta, quando giunse il conte di Salmour, inviato dal gabinetto di Torino in missione straordinaria, per condolersi della morte di Ferdinando II e salutare il successore. Dico forma concreta, perchè Salmour, il quale era segretario generale del ministero degli esteri e intimo di Cavour, ebbe da lui istruzioni copiose e precise, contenute in una lunga lettera del 27 maggio e che possono condensarsi in queste: procurare l’unione delle due Corti in una stretta comunanza di pensieri e di opere, ed indurre il nuovo principe ad assicurare col Piemonte l’impresa dell’indipendenza nazionale, dichiarando pronta guerra all’Austria e mandando parte dell’esercito sul Po o sull’Adige; stipulare una lega offensiva e difensiva con la reciproca guarentigia dell’integrità dei due Stati; concedere riforme giuste e liberali per far paghi i voti del paese; dichiarare che lo Statuto fondamentale del 1848 era mantenuto in diritto, ma che se ne rimandava l’attuazione a guerra finita; concedere piena amnistia agli esuli e ai prigionieri politici; cercare, a rendere più agevoli i negoziati per l’alleanza, che fosse allontanata dalla Corte l’ex regina Maria Teresa, e penetrando il conte di Siracusa, al fine di mantenerlo saldo nei suoi propositi italiani e liberali. Per tutto il resto prender consiglio dal conte di Gropello.1
Dopo Magenta e Solferino le istruzioni divennero più ampie, come si vedrà. Salmour giunse a Napoli pochi giorni dopo la dimostrazione per la battaglia di Magenta. Sia che lo scopo della missione si sapesse prima del suo arrivo o s’indovinasse, certo è che l’annunzio della sua venuta non venne bene appreso in Corte. Fu considerata come un’insidia, che il Piemonte volesse tendere al Re di Napoli, il quale, ricordando l’ultimo consiglio di suo padre, aveva dichiarata la neutralità e intendeva perseverarvi. In Corte erano tutti d’accordo su questo. E però la polizia, temendo dimostrazioni da parte dei liberali all’arrivo dell’agente piemontese, aveva fatto occupare la piazza del Castello e la piazza San Ferdinando da pattuglie di soldati e da numerose guardie di polizia. Il console di Sardegna, Eugenio Fasciotti, aveva fissato per Salmour un appartamento all’albergo d’Inghilterra, alla Riviera, a poca distanza dal Consolato e dalla Legazione sarda. Salmour giunse alle cinque di mattina, ed al Fasciotti, andato a riceverlo a bordo del battello, chiese che vi era di nuovo. “Tutto di buono, rispose il console; per onorare Vostra Eccellenza, il governo ha fatto uscire la truppa sulle piazze„. Salmour, difatti, andando all’albergo, vide i soldati e Fasciotti celiando gli spiegò il motivo per cui vi erano. Dal Gropello fu poi informato minutamente della vera condizione delle cose.
Il giorno stesso dell’arrivo di Salmour, Filangieri fu nominato presidente del Consiglio dei ministri. I rapporti di Filangieri coll’inviato sardo divennero, in breve, intimi, come divennero intimi con Brenier e col ministro d’Inghilterra, Elliot. La esistenza del Regno delle Due Sicilie era considerata dalla vecchia Europa come una garanzia di equilibrio e di pace, e dalle potenze occidentali come una necessità per sciogliere la questione italiana, che ogni giorno si veniva più complicando.
Ma da qual via e in qual modo vincere gli scrupoli e i dubbii del Re? Il programma era troppo ardito, o meglio il vaso era troppo grande, e lo spago per misurarlo così corto! Nel Consiglio dei ministri, Filangieri non poteva contare sopra una maggioranza favorevole alle sue idee, né con quel sistema politico le deliberazioni si prendevano a maggioranza o a minoranza tra i ministri. Al Filangieri aderivano i direttori Rosica, Casella e De Liguoro, ma piuttosto per affetto a lui; gli altri seguivano la vecchia scuola, che metteva capo al Carrascosa e al Troja, il quale, essendo consigliere di Stato, assisteva ai Consigli e vi aveva seguito. Filangieri capiva che era pericoloso portare così decisiva quistione nel Consiglio dei ministri e suggerì al Salmour di vedere il Troja, avendo questi grande autorità sul Sovrano e sui vecchi elementi della Corte: vedere il Troja e penetrame il pensiero, sia rispetto alle riforme, che all’alleanza e all’ardito disegno, maturatosi in quei giorni e attribuito a Napoleone, di allargare, se mai, i confini del Regno fino a Perugia e ad Ancona. Napoleone preferiva avere i napoletani a difesa del pontefice, non i legittimisti di Francia, di Spagna e del Belgio, comandati da un generale come Lamoricière.
Salmour seguì il consiglio, ma il Troja dalle prime parole si mostrò contrario a ogni novità, non che all’abbandono da parte del Re di Napoli di quella neutralità, che Ferdinando II aveva raccomandata come testamento politico al figlio. E udita l’idea di un allargamento eventuale di confini oltre il Tronto, spalancò gli occhi, e tutto agitato, quasi convulso, rispose: “Vuie che dicite, chella è robba d’ ’o Papa„;2 e lealmente dichiarò all’inviato sardo che egli avrebbe pregato il Re a respingerla, senza discuterla. Questo raccontò il Salmour a qualche intimo. Si disse anche che il suo colloquio col Troja fosse stato dal Salmour riferito in un rapporto speciale a Cavour, ma di tale rapporto non v’è traccia negli archivii. Forse non fu abbastanza abile Filangieri nel consigliare Salmour a vedere il Troja, o non fu abbastanza abile Salmour, parlando al Troja: certo è, che quando il presidente dei ministri presentò al Re le proposte, Francesco, ripetendo le parole del Troja, le respinse con tale vivacità, che Filangieri diè le sue dimissioni e solo dopo molte insistenze, e perchè ancora non aveva perduta la speranza di riuscire a qualche cosa, s’indusse a ritirarle. Il 17 giugno, Francesco II scese appositamente da Capodimonte per ricevere il Salmour, ma il ricevimento non varcò i limiti di una compassata cortesia, con relativo scambio di augurii e di saluti. Un accenno all’alleanza, fatto dal diplomatico piemontese, non venne raccolto dal Re, il quale aveva ereditato dal padre un senso invincibile di sfiducia e di avversione per il Piemonte e per i suoi uomini politici.
Dopo l’udienza, su proposta di Filangieri, il Re insignì Salmour dell’alta onorificenza di San Gennaro, e il Salmour, in data del 20, ne ringraziava il presidente del Consiglio, con una lettera che si chiudeva cosi: “La prego di porre anticipatamente ai piedi di S. M. Siciliana l’espressione della mia più sentita riconoscenza per l’impartitomi segnalato favore. Mi pregio in pari tempo, eccellentissimo signore Principe, di testimoniarle gli atti del mio più alto ossequio„.3
I liberali fecero grandi dimostrazioni a Salmour all’arrivo e alla partenza, e molti andarono a visitarlo, insinuando nell’animo suo dei sospetti circa la sincerità del Filangieri e apertamente dichiarandogli non essere possibile alcun accordo fra i liberali e la dinastia dei Borboni, né esser possibile che il Re facesse causa comune col Piemonte per l’indipendenza d’Italia e concedesse l’amnistia e la Costituzione. In realtà, erano interessi e idee diverse che si urtavano fra loro e concorrevano ad accrescere le difficoltà della missione del Salmour. Se il Piemonte voleva tutto quello che si è visto, Napoleone si contentava di molto meno; e mentre consigliava una Costituzione, non gli pareva più necessario, dopo le prime vittorie, il concorso dell’esercito napoletano alla guerra. L’Inghilterra, dal canto suo, nemica della dinastia borbonica, ma più del defunto Sovrano, consigliava la Costituzione, ma senza entusiasmo, notandosi pure che l’azione dell’Elliot non era così persistente come quella del Brenier. D’altronde, mentre le proposte del Piemonte erano respinte dalla Corte, sembravano troppo moderate ai liberali di Napoli e agli esuli napoletani, i quali di quel rigetto erano più compiaciuti che desolati, forse prevedendo dove si andava a finire. Il presidente del Consiglio, dal canto suo, favorevole ad un eventuale ingrandimento del Regno, nonché all’amnistia e all’alleanza col Piemonte, non voleva tornare, neppure per sogno, alla Costituzione del 1848, come volevano il Piemonte e l’Inghilterra. Egli vagheggiava una Costituzione napoleonica, di cui aveva dato incarico a Giovanni Manna di redigere un progetto. Per navigare in mezzo a queste contrarie correnti, sarebbe occorsa persona più abile e più paziente del Salmour, uomo rispettabile e gentiluomo, ma che non era in grado di valutare tutte le difficoltà e trarne il maggior vantaggio possibile. Difatti il colloquio suo con Troja ebbe esito infelice, e forse fu imprudenza averlo provocato, nè diè prova di acutezza diplomatica, raccogliendo qualunque voce gli riferissero i liberali e riferendola a Cavour. Si mostrava poi veramente ingenuo, quando scriveva a Cavour dell’impossibilità di ottenere concessioni dal governo napoletano senza la forza, e lo consigliava ad ottenere che l’Inghilterra mandasse la sua flotta a Napoli e minacciasse di bombardare la città, se il Re non concedesse la Costituzione!
Salmour restò a Napoli sino alla metà di luglio e ne partì, quando ebbe acquistata la convinzione che non vi era nulla da fare. In data 5 luglio scrisse a Cavour questa caratteristica lettera, unico documento inedito di quella missione, esistente nell’archivio segreto di Cavour:
Naples, le 5 Juillet 1859.
- Mon cher et excellent ami,
J’ai coupé court à notre correspondance particulière, parce que tu n’as plus le temps de me lire. Je dois néanmoins aujourd’hui te dire un mot au sujet de l’ordre, que tu m’as donné de rester ici, fondé sur l’espoir que tu as toujours d’un changement dans la politique Anglaise, vis à vis de Naples.
J’admets ce changement, mais il n’aboutira à rien, ou tout au plus à faire rompre encore les rélations diplomatiques. Il n’y a rien à espérer de ce Gouvernement, si on ne l’exige pas par la force, ainsi tant que l’Angleterre n’aura pas une flotte dans le port de Naples, tant qu’elle ne fera pas demander ce qu’elle voudra par le Commandant de cette flotte, sous la menace d’un bombardement, elle fera toujours la sotte figure, qu’elle vient tout récemment de faire. Or comme elle ne prendra jamais assez à coeur les intérêts de ce malheureux pays, qu’elle a constamment trompé dans son attente, elle n’usera jamais de ce seul et unique moyen d’obtenir.
C’est malheureux, mais c’est ainsi, et dès lors, que peut-on espérer du Ministère Palmerston, si non l’échec qu’il a subi lors de la rupture des rélations diplomatiques, ou bien celui tout chaud du Ministère Forj, lequel n’a pas même obtenu la neutralité, puisque Naples l’avait proclamée avant l’arrivée de Sir Elliot.
C’est dommage car dans ce moment l’Angleterre aurait un bien beau rôle à jouer en imposant au Roi de Naples la Constitution, que la population réclame. Au point où est la guerre, peu importe à l’Angleterre que la neutralité succombe sous la constitution puisqu’avant que celle-ci fonctionne, et surtout avant que le contingent Napolitain soit en ligne avec l’armée Franco-Sarde, la guerre sera finie. Ainsi tandis que l’Angleterre obtiendrait le but qu’elle se propose par le maintien de la neutralité Napolitaine, elle en atteindrait un autre bien autrement important pour elle, celui de contrebalancer puissamment par un fait Italien, l’influence de la France en Italie, et d’acquérir par ce même fait, une prépondérance majeure dans le Congrès, qui règlera définitivement les affaires d’Italie. En effet en assurant le régime représentatif dans les deux Siciles, l’Angleterre prépare la voie à ce que ce régime, qui est déjà le nôtre, devienne celui de la Confédération Italienne, et par le fait de la promulgation de ce régime à Naples elle rend à l’Italie neuf millions d’Italiens, qu’elle en sépare actuellement par la protection dont elle entoure les plus odieux des Gouvernements. La démission de Filangieri, qui va replonger plus bas que jamais ce pays, serait une excellente occasion pour l’Angleterre de faire cet acte de vigueur, qui la réhabiliterait dans l’esprit des Italiens. Mais, je te le répète, elle continuera comme par le passé, et elle obtiendra les mêmes résultats négatifs pour elle, et de plus en plus fâcheux pour cet intéressant et si malheureux pays.
Je te soumets ces considérations parce que je crois que tu te fais illusion en espérant quelque chose de bon de la politique du nouveau Cabinet Anglais vis à vis de Naples, d’ailleurs je reste à mon poste, et je ferai exactement ce que tu me prescriras dans la lettre, que tu m’as annoncée, et que je n’ai pas encore reçue. Persuade-toi seulement que sans la force on n’obtient rien de bon d’un Gouvernement tel que celui-ci.
Ma position est de plus en plus désagréable, mais je commence à m’y faire. Ma santé en a un peu souffert mais je vais mieux. Adieu, mille tendres et sincères amitiés. Tout à Toi
Firmato: — De Salmour.
P.S. Filangieri a retiré sa démission, ce qui ne change l’opinion que je t’ai exprimée que dans le sens qu’il faut que l’Angleterre l’achète, car il est par intérêt personnel opposé à la Constitution, pour laquelle il sera si on lui garantit à tout événement la continuation du service du Majorat de 12 000 Ducats, que le Roi de Naples lui a donné avec le titre de Duc de Taormina après la pacification de la Sicile.
Du reste on organise de plus en plus les Lazzaroni, et le Roi dit hardiment vouloir s’en servir, en commençant à les lancer contre Gropello, qu’il accuse d’avoir été le provocateur de la manifestation du 7 Juin dernier. C’est ni plus ni moins qu’en plein conseil que le jeune Roi tient d’aussi absurdes propos; crois-moi il est pire que son père, car il n’en a pas l’esprit et il en a tous les mauvais instincts. 4
Neppure fra le carte del Salmour si trovò alcuna memoria circa la missione di lui a Napoli; anzi, nel suo testamento olografo, col quale chiamava erede la marchesa Scati sua più prossima parente in Italia, vietò in modo esplicito che si desse pubblicità, diretta o indiretta, a quanto si fosse potuto ritrovare nelle sue carte. E il marchese Vittorio Scati, figlio della erede, da me pregato di mandarmi qualche notizia intima circa quella missione, mi scriveva: “Nella lunga consuetudine e familiarità, che ebbi col conte di Salmour, ben di rado mi accadde di sentirlo a ricordare la sua missione a Napoli, nè mai entrò in particolari: quasi glie ne fosse rimasta poco grata memoria„.
Il Pasquino del 3 luglio 1859 raffigurava Salmour in atto di trivellare un buco in mezzo al mare, con la scritta: Il conte di Salmour a Napoli. Ma la nota comica fu data da don Geremia Fiore, prete e poeta all’Ingarriga, il quale scrisse un’ode politica al Re. Eccone due strofette, finora inedite, nelle quali don Geremia ammoniva Francesco familiarmente sì, ma categoricamente:
Ti consiglio pel tuo meglio |
Veramente D’Azeglio non c’entrava, ma per don Geremia D’Azeglio era sinonimo di Piemonte.5
Filangieri, fallita la missione piemontese e respinti i ripetuti consigli di Napoleone e dell’Inghilterra, non si diè per vinto. Gli avvenimenti incalzavano; le Legazioni si erano ribellate al Papa; e con Parma e Modena, le quali avevano rovesciate le loro piccole sovranità, si era costituito un governo dell’Emilia, come si era costituito un governo della Toscana. Villafranca parve che dovesse strozzare la rivoluzione, e Cavour fu lì lì per perdere la testa. Cominciò allora quell’insistente e tenebroso lavoro della diplomazia europea intorno alla così detta quistione italiana, e cominciò con esso il periodo delle agitazioni nel Regno e delle maggiori speranze dei liberali. Oggi si diceva che Garibaldi, divenuto generale della lega militare dell’Italia centrale, avrebbe varcata la frontiera d’Abruzzo e portata la rivoluzione; domani si facevano circolare notizie molto inquietanti sulla Sicilia, la quale non era punto tranquilla.
Filangieri non tollerando più uno stato di cose così incerto e inconcludente, ruppe gl’indugi e la mattina del 4 settembre, presentò addirittura al Re lo schema di Statuto redatto da Giovanni Manna, suo vecchio amico e la persona di maggior cultura politica, che avesse Napoli in quel tempo. Fin dai primi giorni di agosto, Filangieri lo aveva incaricato di un progetto di Statuto, che meglio rispondesse alle condizioni delle Due Sicilie. Manna lo fece, e in altre tre lunghe conferenze fu discusso da entrambi, e modificato particolarmente riguardo alla Sicilia, secondo i suggerimenti di Filangieri. Il manoscritto fu consegnato a Brenier, perchè il principe di Satriano riteneva indispensabile che l’Imperatore ne avesse notizia e lo approvasse, e alla fine di agosto Brenier lo rese con alcune lievi postille, che Filangieri e Manna introdussero nel testo. La sera del 2 settembre, Brenier partecipò al presidente dei ministri la piena adesione del suo governo a quel progetto, aggiungendo essere desiderio dell’Imperatore che non si mettesse tempo in mezzo alla sua adozione e alla promulgazione, ed infatti la mattina del 4 Filangieri lo presentò al Re, non tacendogli che Napoleone III lo aveva esaminato ed approvato.
Era Statuto affatto napoleonico: costituzione con poteri limitati e ben definiti della Camera elettiva. Manna scrisse anche le belle parole, le quali, poste in bocca al Re, precedono il prezioso documento, che qui io pubblico per la prima volta.6
L’esperienza del 1848 dava i suoi frutti. La forma politica, con questo Statuto diveniva costituzionale, è vero, ma lo Stato e il suo governo non uscivano dalle mani del Re, il cui potere non veniva limitato, ma solo coadiuvato nell’esercizio. Nonostante la costituzione di un Senato e di una Camera dei deputati, al Re rimaneva, con tutti gli altri attributi della sovranità, anche la iniziativa delle leggi e delle opere pubbliche, e il potere della Camera dei deputati, o Corpo legislativo com’è chiamato, e il cui presidente e vicepresidente, come quelli del Senato, erano di nomina regia, veniva letteralmente limitato a discutere e votare le leggi e le imposte e ad esaminare i conti della pubblica azienda. Non leggi d’iniziativa parlamentare, non imposizioni di pubblici lavori, non petizioni di cittadini alla Camera. Queste potevano rivolgersi solo al Senato, il quale, composto di 80 senatori e potendo essere preseduto dal Re, rappresentava una specie di Consiglio aulico, custode delle leggi e le cui sedute non erano pubbliche, e che con senato-consulti poteva interpetrare, completare e modificare lo Statuto. Con questo Senato, con ministri, che non dovevano essere deputati, e con un Consiglio di Stato, che doveva redigere i progetti di legge e di regolamenti, che aveva attribuzioni contenziose e sosteneva i progetti dinanzi al oorpo legislativo, si può giudicare quale ampia parte lasciassero il Manna e il Filangieri al potere regio e a tutti i maggiori Ordini dello Stato. Oltre a questo concetto informatore, lo Statuto contiene disposizioni caratteristiche assai notevoli. Prevedendo lo Stato d’assedio e una sospensione dello Statuto, esso impediva che in circostanze straordinarie il governo fosse costretto ad uscire dalla legalità per rimettere l’ordine. Stabiliva inoltre un’indennità di viaggio e di soggiorno ai deputati, un’indennità di viaggio agli elettori, un minimo di censo per questi e per gli eliggibili; stipendiava i senatori e i presidenti delle due Camere; estendeva la durata della legislatura a sei anni, ma limitava quella delle sessioni a tre mesi. Se le sedute del Corpo legislativo erano pubbliche, i giornali non potevano riferirne che il resoconto ufficiale. E infine da notare l’articolo 8, secondo il quale le sessioni potevano essere convocate dal Re a Napoli o a Palermo.
Con questo Statuto e con l’appoggio di Napoleone, Filangieri credeva, com’egli notò nei suoi appunti,7 allontanare la rovina “della quale minacciano il Reame la sfrenata ambizione del Piemonte, le mene del conte di Cavour, di Mazzini e di Garibaldi, nonchè la manifesta inimicizia del gabinetto inglese„.
Il Re non fece buon viso alla proposta, anzi la considerò pericolosa e imprudente, ne interpellò su di essa il Consiglio di Stato. Rispose a Filangieri poche e confuse parole, che fecero ritenere al presidente del Consiglio, che veramente Ferdinando II avesse fatto giurare al figlio di non mutare la forma di governo. Il Re impose al Satriano di tacere su quanto era avvenuto, ponendolo così nella posizione di esser giudicato leggiero dal Brenier, al quale aveva promesso, forse un po’ incautamente, più di quanto potesse ottenere dal Sovrano. E il Filangieri, con lettere del 5 e 6 settembre, rassegnò le sue dimissioni da presidente dei ministri e da ministro della guerra, allegando ragioni di età, di salute e di famiglia. Il giorno 7 settembre, Francesco II mandò da lui il maresciallo di campo, Francesco Ferrari, che gli consegnò una sua lettera autografa, colla quale gli si concedeva un permesso di quaranta giorni e gli si ordinava di affidare la firma della presidenza a Carrascosa e del ministero della guerra, al direttore maresciallo di campo, barone Gaetano Garofalo, il quale, nella sua gioventù, aveva preso parte alla campagna d’Italia nell’esercito di Murat contro gli austriaci, e godeva fama di ufficialo intelligente. Ecco la caratteristica lettera:8
Portici, 7 settembre 1859.
- Caro Principe,
Non posso esprimervi quanto dolore e quanto dispiacere ò provato nel leggere le vostre due lettere, in seguito delle quali non posso, per debito di coscienza, astenermi dall’autorizzarvi di farvi aiutare nella firma della voluminosa corrispondenza dei due ministeri da Carrascosa e da Garofalo. Io però non mi asterrò di continuare a indirizzarmi a voi, quando mi necessita, per le varie branche di servizio, in questi momenti principalmente.
Questa mattina ò visitato il 7° Battaglione Cacciatori: la pace regnava nel quartiere, mangiavano con ilarità l’ottimo ordinario ed il buonissimo pane.
Ieri vi avrei desiderato con me, massime ai Granili, ove tutto in ordine ò trovato: il Sommo Iddio presto presto vi permetterà uscire di casa per meco venire a confabulare. Se io non mi trovassi in Napoli in tale giorno, basta farmelo conoscere per qui venire subito.
Il Signore e la Vergine SS.ma conservino sempre in perfetta salute il mio amico costante Carlo Filangieri.
Accettate, caro principe, le parti del costante
Vostro aff.mo Francesco.
Filangieri eseguì gli ordini e andò ad abitare la villa De Luca a Pozzopiano, presso Sorrento, ma sulla porta della camera da letto fece apporre un cartello con le seguenti parole: questo scritto inibisce l’entrata a chicchesia, perchè prova che o sono fuori, o non voglio vedere nessuno. E di fatti si rese invisibile.
Le dimissioni del principe di Satriano produssero enorme impressione, e più stupito e addolorato di tutti ne fu il Brenier, il quale aveva assicurato il suo governo che il Re di Napoli avrebbe quale certamente accolto quel progetto di Costituzione. Il 14 settembre, Brenier si recò a Pozzopiano e insistè presso Filangieri perchè facesse note le ragioni, che lo avevano obbligato a dimettersi, anche per scolpare lui, Brenier, presso il suo governo.
In quello stesso mese giunse a Napoli il generale Roguet, inviato da Napoleone. Roguet era figlio del senatore conte Roguet, che era stato antico colonnello di Filangieri. Brenier lo condusse a Sorrento, e a lui e al Roguet Filangieri finì per fare intendere, che le ragioni delle dimissioni erano proprio quelle che il pubblico riteneva, cioè che il Re, consigliato dal Papa e dagli antichi ministri e intimi del padre, aveva respinta la proposta di Costituzione. Roguet gli confessò che questo si era capito molto chiaramente, e che perciò lo scopo vero della sua missione era quello di indurre il Re a concedere lo Statuto. B giorno seguente al colloquio, che era il 1° ottobre, Filangieri scrisse al Re questa lettera: “Vidi ieri sera il conte Roguet, . . . il generale mi disse essere stato incantato di V. M., delle sue sembianze, delle sue maniere, del suo contegno, della bella intelligenza e perspicacia che traspirano nelle sue parole; ma con una soggiunta a questi ben meritati encomii feoemi intendere qual era nel fondo l’oggetto della sua missione; poiché immediatamente dopo di quello profferì le seguenti parole: “Et si cet important, quoique jeune Souverain, comprend sa position, celle de l’Italie et celle de l’Europe en général, et se convaincra de la nécessité de donner à son royaume des institutions monarchiques et constitutionnelles, comme celles de la France, non seulement il devrait compter sur le ferme appui de l’Empereur Napoléon, mais quelsque soient les événements, il jouerait le premier rôle en Italie„. Su di ciò permettendomi d’interromperlo, replicai: “Et si le Roi n’était d’avis de ne rien changer aux lois et aux institutions, qui régissent la Monarchie des Deux Siciles, que pensez-vous qu’il arriverait? Ed egli, senza esitare un sol momento, risposemi: Je ne saurais prévoir dans ce cas que des malheurs pour votre pays et pour votre Souverain„. Il giorno dopo, il Re gli rispose in questi termini precisi: “Ho letto attentamente la vostra lettera di ieri, e più mi convinco che la rovina di questo povero paese è il pessimo contatto ed influenza degli stranieri„.9 Contemporaneamente ordinava a Carafa d’insistere presso Antonini, perchè facesse nota al conte Valewski la ingerenza o inframettenza di Brenier per la concessione dello Statuto. È anche da ricordare un’altra let- tera, che Filangieri aveva scritto a Brenier negli ultimi giorni di settembre, per far impedire che Garibaldi varcasse la frontiera napoletana, come in quei giorni si temeva, e per cui era stato formato il campo trincerato negli Abruzzi, sotto il comando del Pianell. Brenier gli aveva risposto che l’avrebbe fatto, ma ag- giungeva: “Je comprends, que l’on use de toutes les prècautions possibles pour repousser une attaque venant de ce cotè; qu’ on envoie èventuellement un corps d’armèe; mais je vous prie, mon Prince, de ne pas oublier, que vous avez entre les mains le projectile le mieux fait pour attaquer Garibaldi et ècraser l’infâme, comme disait Voltaire d’un tout autre ennemi. Ce projectile serait d’un effet certain selon moi, puisqu’il aurait pour effet de briser l’arme de Garibaldi la plus redoutable: le mècontentement des populations„.
Filangieri mandò originalmente questa lettera al Re, unendovi altra copia dello Statuto presentato il 4 settembre, quasi credesse all’efficacia di un nuovo tentativo. Il Re lo ringraziò e gli restituì la copia senza dir nulla in proposito.
Il 16 ottobre, il principe di Satriano riscrisse al Re, insistendo nelle dimissioni e il Re rispose, invitandolo a pranzo, alla Favorita. Il Filangieri, mostrandosi gratissimo, soggiunse nella risposta: . . . . “Si degni V. M. giovedì venturo (era il giorno fissato al pranzo) di accogliere benignamente, nella mia persona, il Suo devoto attaccatisaimo aiutante generale, e non più il Suo ministro, poichè decisamente la mia età e la mia salute non mi permettono in nessun modo, di affrontare nuovamente, e di resistere al lavoro agitato e tormentoso, pei tristi tempi nei quali viviamo, alle angustie ed alle immense responsabilità, inseparabili dalle funzioni ministeriali„ . E il 18 ottobre, fè seguìre a questa, altra lettera insistente, che si chiudeva cosi: “Riprenda, Signore, i miei portafogli, e mi ritenga nell’ambita destinazione di Suo fedele soldato„.10
L’insistenza di Filangieri era effetto, in parte, del suo carattere vivace e suscettibile, e in parte delle mutazioni che, appena allontanato lui, si erano compiute nel ministero, a sua saputa. Al mite Casella, nella direzione della polizia, era stato sostituito l’Ajossa, dopo che si era obbligato il Casella a mandare una circolare segreta agl’intendenti, in data 22 giugno, colla quale s’imponeva loro di non tener conto del decreto del 16 giugno, relativamente agli attendibili!....
Era stato formato intanto al confine di Abruzzo un campo militare, sotto il comando del Pianell, lasciandosi credere che avesse per iscopo meno di tutelare la frontiera napoletana, quanto di dar braccio forte alle truppe pontificie, qualora fossero assalite da corpi di volontari o da forze regolari. Questo corpo di osservazione era appoggiato alla fortezza di Civitella ed era sostenuto da una parte della squadra, sotto il comando del capitano di fregata Napoleone Scrugli, che comandava il Tasso. Un furioso fortunale disperse i pochi bastimenti, e il Tasso arenò alla foce del Tronto per imperizia, si disse, del comandante, la quale imperizia fu però unanimemente esclusa dagli uomini di mare. Di quell’arenamento disgraziato lo Scrugli, che era un brav’uomo, ma irascibile e di scarsa cultura, fu inconsolabile per tutta la vita. Le altre due navi, la Veloce e il Fieramosca, erano comandate, la prima da Barone e la seconda da Flores. Era imbarcato a bordo della Veloce Paolo Cottrau, alfiere di vascello, giovanissimo e vivacissimo. Nelle sue lettere alla famiglia egli parlava a lungo di quella stazione navale, molto noiosa, descrivendo con mirabili colori la costa abruzzese. Ecco il brano di una sua lettera del 9 ottobre, da tata da Giulianova:
Questa nostra stazione in Adriatico comincia ad annoiarci, come credo avervi detto più volte, tanto più che non se ne vede punto la fine. Le coste della Puglia e quelle degli Abruzzi che noi percorriamo sono senza dubbio belle e le ultime soprattutto presentano in taluni punti, come il Vasto, Ortona e Giulianova, delle bellezze comparabili solo, per dolcezza di contorni e splendidezza di luce, a quelle del nostro caro Cratere. Nel fondo qui vedi le maestose cime culminanti di questo gruppo d’Appennino: la Maiella, il Gran Sasso d’Italia, che il sole indora dei suoi raggi molto prima dell’umile Marina e sulla cui cima l’aquila si annida solitaria. Poi delle vaste pianure con dolce declivio, irrigate da molti fiumi, ubertose e coperte di vigne, di case e di giardini, scendono verso il mare; ma per lo più non vi giungono, il loro ultimo lembo fermandosi ad una certa altezza in modo che quasi ti presentano un alto piano, come è per esempio il Piano di Sorrento o la Valle Equana; solo che qui, al disotto di questo, tu vedi un altro piano, un altro pendio, la marina, che pare proprio l’antico fondo del mare rimasto a secco.
La formazione di questo corpo alla frontiera, preceduta da una dichiarazione del Re, piena di ostentata riverenza al Papa, ridestò i sospetti del Piemonte, dal quale furono chieste spiegazioni, e fece pessima impressione a Parigi, temendo l’Imperatore che quel nerbo di truppe potesse all’occorrenza aiutare le milizie pontificie, arruolate fra i legittimisti di Europa con a capo il Lamoricière. Nell’interno, la polizia con Ajossa alla testa non trovava posa. Filangieri sentiva di non poter più oltre tollerare la responsabilità, anche lontana, di tanti errori e tornò a insistere nelle dimissioni, fino a che il 31 gennaio 1860, con affettuosa lettera scritta anche di suo pugno, Francesco II lo esonerò dalle cariche di presidente del Consiglio e di ministro della guerra. Ma il decreto ufficiale non venne fuori che alla metà di marzo, quando contemporaneamente il Re chiamò a succedergli, nella presidenza, il decrepito principe di Cassaro e un altro vecchio, il generale Winspeare, nel ministero della guerra. Così ebbe fine quel curioso periodo di governo, nel quale i più importanti decreti erano sottoscritti nella comica forma: per il presidente del Consiglio dei ministri e ministro della Guerra impedito, il ministro senza portafoglio — Raffaele Carrascosa.
La nomina del principe di Cassaro fu una vera esumazione. Non aveva aderenti nè a Napoli, nè in Sicilia e gli mancava ogni autorità di governo. Volle che al Cumbo, ministro di Sicilia, nominato da Filangieri, fosse sostituito il principe di Comitini, che accettò, ma poi, pentito o impaurito, non ne volle più sapere. Il Cassaro fu solo in apparenza il ministro di Sicilia, mentre in realtà lo fu il direttore Bracci, devoto al Cassisi e nemico di Filangieri. Questi passò gran parte dell’inverno del 1860 a Pozzuoli, nella villa Avellino, assistito affettuosamente dalla figlia a lui prediletta, Teresa, la quale, fra mille ansie, vegliava alla salute dell’unica figliuola inferma. A Pozzuoli, Filangieri trovò modo di occupare il suo tempo, studiando problemi idraulici e militari. Nè il Re, ne i ministri lo richiesero più di consiglio, finchè non vennero dalla Sicilia le prime notizie allarmanti.
Note
- ↑ La lunga lettera di Cavour a Salmour fu pubblicata nell’ottavo volume della Storia documentata della diplomazia europea in Italia, di Nicomede Bianchi, ma n’è sbagliata la data: invece del 27 maggio, vi è scritto 27 giugno: errore forse tipografico, ma poco giustificabile, trattandosi di documenti storici. Il 27 giugno Salmour era a Napoli da 15 giorni. Del resto, gli errori di date e di nomi circa le cose napoletane sono tutt’altro che rari in quell’istoria, o meglio zibaldone di documenti importanti, che al Bianchi costò poco di raccogliere, essendo egli direttore degli archivii di Stato. Però, riguardo alla missione Salmour glie ne sfuggi uno importantissimo, che a me è riuscito di trovare negli stessi archivii di Stato.
- ↑ Voi che dite? Quella è proprietà del Papa.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Estratto, d’ordine ministeriale, dall’archivio segreto del conte di Cavour, esistente in questo archivio di Stato. - In fede: Torino, 21 febbraio 1896.
- ↑ Don Geremia Fiore, oggi vicebibliotecario alla Brancacciana, pubblicò nel 1861 un volumetto di versi, dal titolo: Poesie politiche, con dedica al magnanimo Vittorio Emanuele di Savoia, Re d’Italia. I versi, molto curiosi, ricordano quelli sopra citati, i quali non sono compresi nel detto volume, ma a don Geremia vennero generalmente attribuiti, allora. Egli fu sempre liberale, cioè anti-borbonico, ed è anche oggi nella sua senilità avanzata, un prete simpatico ed elegante. In un’ode, dal titolo: La fine di Ferdinando II, così descrisse la malattia del Re:
Un paralento cancro maledetto
Gli fa il diavolo a quattro entro a una coscia,
E rodendo, s’allarga, per diletto,
Dall’anguinaglia alla panciaccia floscia:
Vi genera tumori, e ognor più cresce,
Che mentre un se ne taglia, un altro n’esce,E rilevando la stranezza dei bollettini dei medici diceva:
E questo brulichio, che tutto appuzza,
Disordine dai medici è chiamato
Nel bollettin, che stitico tagliuzza
Sue monche frasi in stile rabescato:
Se il fiuti, non ha nulla d’ippocratico.
Ma è un gergo, anzi un ribobolo enigmatico. - ↑ Ricordevoli delle generose intenzioni del Nostro Augusto Genitore, che primo in Italia diede l’esempio degli ordini rappresentativi, quantunque la forza degli avvenimenti lo costringesse a. sospenderne l’attuazione, e considerando che le gravi ragioni d’impedimento possono stimarsi cessate, ci siamo col Divino aiuto e nella pienezza de’ Nostri poteri, determinati a richiamare i Nostri amatissimi sudditi al godimento di quelle istituzioni, con cui si governano oggi la più parte delle nazioni civili di Europa.
Nel prendere questa importante risoluzione, Noi ci siamo confidati principalmente nel senno e devozione dei Nostri popoli, i quali concorrendo con Noi nel desiderio d’iniziare una nuova èra di prosperità nazionale, riceveranno certamente con gratitudine la nuova forma che ci siamo risoluti di dare al nostro Statuto; e che senza allontanarci dalle basi delle leggi organiche del Regno, ci assicura le principali condizioni dell’ordine rappresentativo.
La continua e franca discussione di un largo Consiglio di Stato manterrà, in tutto il suo splendore l’iniziativa Sovrana, e conserverà il movimento e la vita governativa dove più conviene che sieno, cioè intorno a Noi ed a’ Nostri Ministri.
Un Senato, composto dei più gravi e distinti personaggi del Paese, è destinato a dare alla Legislatura una base solida, ed un sicuro punto di appoggio, potendosi trovare all’occorrenza ne’ suoi eccezionali poteri una riserba salutare da somministrare aiuti efficaci al Governo ed alla Camera elettiva.
Finalmente il Corpo Legislativo non mancherà dei suoi veri ed essenziali poteri, essendo da Noi chiamato a discutere e votare le leggi, a discutere e votare le imposte, e ad esaminare ed acclarare i conti dello Stato. L’importanza di queste attribuzioni non è menomata punto da certi temperamenti indispensabili a rendere tranquille e mature le discussioni, ed a crescere decoro e sicurezza al primo Corpo deliberante dello Stato.
La nostra fiducia, lo ripetiamo, è nel senno e devozione dei Nostri Popoli, di cui ricordiamo con amore le lunghe prove di fedeltà. Ma più ancora Noi fidiamo nella coscienza delle Nostre intenzioni e nel Supremo aiuto della Divina Provvidenza, nel cui Nome ci siamo risoluti a sanzionare e promulgare il presente Statuto:Cap. I.
Disposizioni generali.
Art. 1. — La persona del Re è sacra ed inviolabile. Egli governa per mezzo de’ suoi Ministri, del Consiglio di Stato, del Senato e del Corpo legislativo.
Art. 2. — Il Re comanda le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace e di alleanza; fa i trattati di commercio, i quali han forza di legge per le modifiche di tariffe in essi stipulate. Nomina a tutti gl’impieghi dell’Amministrazione pubblica; fa i decreti e regolamenti necessari per la esecuzione delle leggi.
Egli solo ha la iniziativa delle leggi. La giustizia si amministra in suo nome. Egli esercita il diritto di grazia e di amnistia. Egli sanziona e promulga le leggi ed i Senato-consulti.
Il Re ordina ed autorizza tutti i lavori di pubblica utilità, e tutte le imprese d’interesse generale. Laddove importino obblighi e sussidii del Tesoro, una legge sarà necessaria per approvare il credito prima di mettersi in esecuzione.
Soltanto pei lavori di conto dello Stato, non suscettivi di concessione, i crediti possono essere aperti per urgenza come straordinari, per essere sottoposti al Corpo legislativo nella prima sessione.
Il Re ha il diritto di dichiarare lo stato d’assedio in una o più Provincie del Regno, salvo a riferirne al più presto possibile al Senato, il quale può proporne la cessazione, qualora gliene parrà cessato il bisogno. Le conseguenze dello stato d’assedio debbono essere dichiarate con una legge.
H Re presiede quando lo crede conveniente, il Senato ed il Consiglio di Stato.
Art. 3. — La difesa del Regno e della Corona è affidata allo esercito nazionale. Non potrà servire sotto le bandiere alcuna milizia estera, se non nella proporzione dei sussidi, che il Corpo legislativo credesse utile votare particolarmente a questo oggetto.
Art. 4. — Il potere legislativo è esercitato congiuntamente dal Re, dal Senato e dal Corpo legislativo.
Art. 5. — I Ministri, i membri del Consiglio di Stato, del Senato, del Corpo legislativo, gli uffiziali di terra e di mare, i magistrati ed i funzionari pubblici, prestano giuramento nei seguenti termini: Giuro fedeltà al Re ed obbedienza allo Statuto.
Art. 6. — Il Senato stabilisce l’ammontare della lista civile per la durata di ciascun Regno.
Art. 7. — Rimanendo come sono state finora comuni per la Sicilia di qua e di là dal Faro le spese della lista civile, della guerra e marina e del Corpo diplomatico, la rata a carico della Sicilia di là dal Faro rimane limitata a soli 4 milioni di ducati annuali, che saranno portati in introito dello Stato - discusso della Sicilia di qua dal Faro.
Art. 8. — Il Re nel convocare il Senato ed il Corpo legislativo per le loro ordinarie sessioni in ciascun anno, determinerà col medesimo decreto di convocazione, se le sessioni debbono aver luogo in Napoli o in Palermo.
Cap. II.
Del Senato del Regno.
Art. 9. — Il Senato è composto di membri scelti e nominati dal Re, fra gli alti funzionari dello Stato, fra grandi proprietari del Regno, e fra le maggiori notabilità del Clero, della Nobiltà, delle scienze, delle lettere e del commercio. Il numero non potrà eccedere 60 per la Sicilia di qua dal Faro, e 20 per la Sicilia al di là dal Faro. Pel primo anno il numero non sarà minore di 48 per la prima e di 16 per la seconda.
Art. 10. — La carica di Senatore è a vita ed inamovibile. Una dotazione annua di duc. 3000 è annessa alla dignità di Senatore. I soldi, pensioni ed averi di ogni specie saranno imputati nella suddetta dotazione.
Art. 11. — Il Presidente e Vicepresidenti saranno nominati dal Re fra i senatori. L’assegnamento del Presidente durante l’anno sarà di duc. 6000, imputandosi, come sopra, soldi, pensioni ed averi di ogni specie.
Art. 12. — Il Re convoca e proroga il Senato. La durata delle due sessioni ordinarie sarà la stessa di quelle annuali del Corpo legislativo. Le sedute del Senato non sono pubbliche, ed i verbali delle sue sessioni non potranno essere pubblicati per le stampe, salvo che il Senato medesimo a maggioranza di due terzi non giudichi doversi fare eccezione a questa regola.
Art. 13. — Il Senato è il custode delle leggi organiche e fondamentali del Regno. Nessuna legge può essere promulgata prima di essere sottoposta alla sua approvazione. Esso può rifiutarla a tutte quelle leggi che portassero offesa alla religione, alla morale, allo Statuto, alla sicurezza individuale, alla inviolabilità della proprietà, all’uguaglianza de’ Cittadini innanzi alla legge, alla difesa ed integrità del territorio nazionale.
Art. 14. — Il Senato regola per via di Senato-consulti tutto ciò che non è stato preveduto dal presente Statuto, e che può essere stimato necessario alla sua attuazione, e specialmente la elezione de’ Deputati al Corpo legislativo, l’esercizio della stampa, la responsabilità ministeriale, le guarentigie personali dei membri del Corpo legislativo e del Senato medesimo. Spiega e dichiara allo stesso modo il senso degli articoli del presente Statuto, che potessero dar luogo ad interpretazione.
Art. 15. — I Senato-consulti saranno sottoposti all’approvazione sovrana. Il Re approvandoli li promulga in Suo nome.
Art. 16. — Il Senato può annullare tutti gli atti, che o dal Governo, e dal Corpo legislativo o dai particolari gli saranno denunziati come lesivi alle leggi organiche e fondamentali del Regno. Il diritto di petizione si esercita solamente presso il Senato. Ninna petizione può essere presentata al Corpo legislativo. Un Consigliere di Stato, nominato dal Re, riferirà al Senato sulle posizioni che il Senato avrà rimesso allo esame de’ Ministri.
Art. 17. — I Ministri non possono essere messi in stato di accusa se non che dal Senato, il quale con Senato-consulto approvato dal Re stabilirà le norme e la competenza per giudizi di tal fatta.
Art. 18. — Il Senato può con rapporto indirizzato al Re presentare le basi dei progetti di legge, che giudicherà di un grande interesse nazionale.
Art. 19. — Il Senato può proporre delle modifiche al presente Statuto che con l’approvazione del Re potranno essere presentate alla discussione e deliberazione del Corpo legislativo.
Art. 20. — In caso di scioglimento del Corpo legislativo, e fino alla nuova convocazione, il Senato provvede sulle proposte del Governo, a tutto ciò che può occorrere all’andamento del Governo medesimo.
Cap. III.
Del Corpo legislativo.
Art. 21. — Il Corpo legislativo è composto di Deputati eletti dai collegi elettorali di ciascun distretto del Regno, nelle forme e modi, che saranno determinati con un decreto del Senato approvato dal Re. Per la convocazione del primo Corpo legislativo un decreto del Re stabilirà provvisoriamente le norme delle elezioni.
Art. 22. — Il numero dei Deputati sarà calcolato alla ragione di due per ogni distretto amministrativo del Regno salvo le eccezioni che saranno indicate per Napoli, Palermo ed altri distretti della Sicilia di qua e di là dal Faro.
Art. 23. — I Deputati sono nominati per 6 anni. La prima nomina cesserà di dritto appena approvato il Senato-consulto definitivo per le elezdoni. I Deputati al Corpo legislativo riceveranno durante le sessioni ordinarie e straordinarie una indennità di duc. 5 per ciascun giorno, oltre una indennità di due. 150 per spese di viaggio. Il doppio delle indennità per spese di viaggio sarà attribuito a quelli Deputati del Corpo legislativo che dovranno trasferirsi dal continente nell’isola o dall’isola nel continente.
Art. 24. — Il Decurionato di ciascun Comune forma e discute le liste degli elettori e degli elegibili. Gli elettori riuniti in collegio elettorale, sul capoluogo del Distretto, procederanno a maggioranza ed a scrutinio segreto alla elezione dei Deputati del Distretto medesimo. Agli elettori sarà attribuita una conveniente indennità di viaggio.
Art. 25. — Sono elettori tutti i nazionali che abbiano il pieno esercizio dei dritti civili, che sieno domiciliati da 6 anni almeno in uno dei comuni del distretto, che abbiano compiuto i 25 anni di età, che non sieno in istato di fallimento, né sottoposti a nessun giudizio criminale, e che posseggono una rendita imponibile non minore di duc. 40 annuali.
Art. 26. — Sono elettori senza bisogno della suddetta rendita tutti i Decurioni, Sindaci ed Eletti in esercizio, gli impiegati al ritiro con pensione non minore di annui duc. 100, gli uffiziali militari che godono una pensione di ritiro, gli ecclesiastici meramente secolari, i membri ordinari delle Reali Accademie e Società Economiche del Regno, i titolari cattedratici delle Regie Università, Licei e Collegi del Regno, e laureati dalle Regie Università eserciti, da 5 anni almeno, una professione liberale, ed i commercianti aventi per conto proprio uno stabilimento di manifatture e di commercio per cui si paghi almeno un fitto di duc. 60 annui nelle Comuni, di duc. 100 ne’ capoluoghi di Provincia, e di duc. 200 in Napoli e Palermo.
Art. 27. — Sono elegibili tutti quelli che avendo i requisiti espressi nell’art. 25 abbiano compiuta l’età di anni 30, e posseggano una rendita imponibile non minore di annui duc. 240.
Art. 28. — Sono elegibili senza bisogno della suddetta rendita i membri ordinari delle tre R. Accademie, i titolari delle Regie Università, i laureati delle Università suddette, che da 10 anni almeno esercitano una professione liberale, i militari dal grado di maggiore in sopra, i componenti dell’Ordine giudiziario dal grado di Giudici di Tribunale Civile in sopra.
Art. 29. — Gl’Intendenti, i Segretari Generali, i Sottointendenti in funzione non possono essere elegibili. I Deputati che accettino un pubblico impiego, o una promozione nella carica che posseggono, durante le loro funzioni, non possono continuare senza sottoporsi allo sperimento della rielezione.
Art. 30. — Il Corpo legislativo discute e vota i progetti di legge e le imposte.
Art. 31. — Gli Stati - discussi d’introito e di esito da presentarsi in ciascun anno alle deliberazioni del Corpo legislativo, saranno stampati a cura del Ministero delle Finanze, prima dell’apertura delle sessioni. Gli Stati — discussi delle spese porteranno le loro divisioni e suddivisioni amministrative per capitoli e per articoli. H voto del Corpo legislativo avrà luogo per ministeri. La ripartizione del credito attribuito a ciascun Ministero per capitoli, è regolata per via di Decreto del Re, inteso il Consiglio di Stato. Sono similmente autorizzate per via di decreti del Re, inteso il Consiglio di Stato, le inversioni da un capitolo all’altro. Queste ripartizioni sono applicabili agli Stati - discussi dell’anno.
Art. 32. — A cura anche del Ministero delle Finanze saranno stampati alla chiusura di ciascun esercizio i rendiconti generali da essere presentati ed acclarati dal Corpo legislativo. Saranno stampati non più tardi del 1° ottobre di ciascun anno per l’ultimo esercizio chiuso.
Art. 33. — Ogni emendamento di progetti di legge che venisse adottato dalla commissione incaricata dell’esame di tali progetti, dovrà senza altra discussione essere rimesso per mezzo del Presidente del corpo legislativo al Consiglio di Stato. Se il Consiglio di Stato lo rigetta, l’emendamento non potrà essere sottomesso alla deliberazione del Corpo legislativo.
Art. 34. — Le sessioni ordinarie del Corpo legislativo durano tre mesi. Le sue sedute sono pubbliche, ma la domanda di cinque membri basta per costituirsi in comitato segreto.
Art. 35. — Le sedute del Corpo legislativo potranno essere pubblicate per la stampa, ma con la semplice riproduzione del verbale compilato, a cura del presidente, ed inserito nel giornale officiale del Regno. Una commissione composta dal Presidende suddetto e dai presidenti delle sezioni, esaminerà il verbale suddetto prima d’essere pubblicato. H voto del presidente del Corpo legislativo è preponderante in caso di parità. Le operazioni e votazioni del Corpo legislativo non possono in altra guisa essere attestate, che per mezzo del verbale suddetto.
Art. 36. — n presidente e vicepresidenti del Corpo legislativo sono nominati annualmente dal Re fra i Deputati medesimi. Il presidente del Corpo legislativo riceverà l’annuo assegnamento di duc. 6000.
Art. 37. — I Ministri non possono essere membri del Corpo legislativo.
Art. 38. — Il Re convoca, proroga e discioglie il Corpo legislativo. In caso di scioglimento il nuovo Corpo legislativo sarà convocata fra sei mesi.
Cap. IV.
Del Consiglio di Stato.
Art. 39. — H Consiglio di Stato si compone di Consiglieri di Stato ordinarli al numero di 12 per la Sicilia di qua dal Faro, e di 6 per la Sicilia di là dal Faro, di Consiglieri di Stato straordinarii che non saranno più di 8 per la prima e di 4 per la seconda, e di Consiglieri di Stato onorari, che non saranno più di 10 per la prima, e di 5 per la seconda. Ci saranno inoltre 12 relatori con soldo e 12 uditori, dei quali 4 con soldo ed 8 senza soldo, da nominarsi per concorso sì gli uni che gli altri.
Art. 40. — La qualità di Consigliere di Stato ordinario e straordinario e di relatore del Consiglio di Stato, è incompatibile con quella di Senatore o di Deputato al Corpo legislativo. I Consiglieri di Stato ordinarli non possono neppure occupare altra carica pubblica con soldo. Non di meno gli uffiziali generali di terra e di mare possono essere Consiglieri di Stato ordinarii, considerandosi in missione per tutta la durata delle loro funzioni in Consiglio di Stato, conservando la loro anzianità.
Art. 41. — I Consiglieri di Stato ordinarii sono nominati dal Re e da lui rivocabili. I Consiglieri di Stato straordinarii sono scelti dal Re fra gli alti funzionari dello Stato, per dovere senza altro soldo e indennità intervenire con voto deliberativo nelle assemblee generali del Consiglio di Stato. Finalmente il titolo di Consigliere di Stato onorario è conferito dal Re ad altri fonzionarii pubblici fuori attività, e che con speciale ordine del Re potranno essere chiamati a intervenire con voto deliberativo nelle suddette assemblee generali.
Art. 42. — I Consiglieri di Stato ordinari! godranno un soldo di annui due. 2600. I Relatori di annui due. 600, e gli Uditori un soldo di annui duc. 800.
Art. 43. — I Ministri di Stato interverranno con voto deliberativo, e prendono grado e posto nel Consiglio di Stato.
Art. 44. — Il Re può presedere il Consiglio di Stato. Egli nomina il Presidente ordinario del Consiglio medesimo, il quale può presedere anche quando lo crede conveniente ciascuna sezione del Consiglio.
Art. 45. — Il Consiglio di Stato è incaricato di redigere dietro gli ordini del governo, i progetti di legge ed i regolamenti di amministrazione pubblica, e di risolvere le questioni che si elevano in materia di amministrazione ordinaria e contenziosa.
Art. 46. — Il Consiglio di Stato sostiene a nome del Governo la discussione dei progetti di legge innanzi al Senato ed al Corpo legislativo. I Consiglieri che dovranno prendere la parola a nome del Governo sono designati dal Re.
Art. 47. — Uno speciale decreto del Re stabilirà la ripartizione e attribuzione delle Sezioni, ed il servizio interno del Consiglio di Stato.
Disposizioni generali.
Art. 48. — Le disposizioni dei Codici delle Due Sicilie e tutte le leggi e decreti pubblicati finora, che non sieno in contraddizione col presente Statuto, si conserveranno in vigore, fino a che non sieno legalmente aboliti modificati.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Archivio Filangieri.
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