La fine di un Regno/Parte II/Capitolo III
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CAPITOLO III
Nell’estate di quell’anno si tenne in Napoli un’esposizione di belle arti, che fu visitata il 3 ottobre, dal Re, dalla Regina e da tutta la Corte. Erano corsi quattro anni dalla mostra del 1856, inaugurata dal Re ai 30 di maggio, nelle sale del museo borbonico. Allora i lavori d’arte esposti superarono il numero di 800 e tra gli espositori principali ricordo Niccola Palizzi, uno dei tre fratelli di Filippo, Domenico Morelli, Alfonso Balzico, Federico Maldarelli, Saverio dell’Abbadessa, il Mancini, il Mancinelli, Bernardo Celentano, con due grandi quadri, San Stanislao Kostka infermo a morte, e Santo Stefano al sepolcro, dopo il martirio, nonché Biagio Molinari, ch’espose la Schiavitù degl’Israeliti in Egitto. Il soggetto di questo quadro era un’allegoria alle tristi condizioni politiche del Regno, suggeritagli da Alfonso Casanova, e del quale il Molinari era entrato in dimestichezza per mezzo del suo concittadino, amico e protettore Giuseppe Antonacci, ch’era cognato del Casanova, e dal quale fu acquistato il quadro. Molinari dipinse nel 1869, col valoroso Ignazio Perricci, gli affreschi in Castelcapuano e morì giovane, a quarantatre anni, nel 28 maggio 1868. Gli amici gli eressero un monumento nel camposanto di Napoli, con un busto in marmo, opera di Tommaso Solari. Alfonso Balzico, non ancora trentenne, espose parecchi lavori, e più apprezzato fra tutti, fu il Noli me tangere, che rappresentava, in proporzioni maggiori del vero Cristo e la Maddalena: gruppo molto pregiato e di cui il Mastriani scrisse un articolo laudativo nella Rondinella, e raccolse anche dal Re vivi elogi. Il critico di quella mostra fu il Bozzelli, il quale, ritiratosi dalla politica, era presidente della Società reale borbonica, ed abitava il pianterreno del palazzo Latilla. Il Bozzelli intitolò le sue critiche Cenni estetici, ma altro che estetica e quale critica! Chiamava la Santa Vittoria del Maldarelli quadro lodatissimo; del bozzetto del telone di San Carlo del Mancinelli diceva: quest’opera fa onore alla scuola napoletana, ed è ormai tempo che si cessi dall’invidiare a noi stessi le nostre glorie; e del paesaggio del Mancini: paesaggio, con verità di piani, arricchiti di pecore e di pastori, e di bella esecuzione per opportuno colorito. Ecco tutta la critica.
La mostra del 1859 riuscì più copiosa, ed ebbe critici forse più competenti, ma non meno iperbolici. Fra i dipinti levarono rumore i Cani da caccia di Niccola Palizzi, e piacquero il Martirio di San Trifone di Beniamino d’Elia, i quadri di Ruggiero, di Toker, di Capocci, di Caldara, di Mancini, di Spanò, di Jovine e di Postiglione, e i paesaggi di Fiorelli, di Cortese, di Pagano, di Edoardo Dalbono e di Achille Vertunni. Vi erano però, fra tutti questi artisti, grandi disparità di merito: alcuni erano ultimi campioni dell’arte decadente; altri destinati a rappresentare il progresso dell’arte nuova, come il Palizzi, il Vertunni e il giovane Dalbono. Il Mancinelli, padre di Gustavo, fu giustamente considerato come il caposcuola dell’ultima falange degli accademici, la quale ora si giudica ben altrimenti da quello che era giudicata trent’anni fa. Il Mancinelli, infatti, ha lasciato di quell’arte documenti importanti, fra i quali basterebbe ricordare il San Carlo Borromeo che comunica un appestato, quadro che fu stimato ai suoi tempi, e può essere stimato anche oggi, una forte opera d’arte. Maravigliosi, per purezza di disegno, i suoi cartoni, i quali, specialmente quello della Morte di Giacobbe, meriterebbero di essere collocati in una pubblica pinacoteca.
Carlo Tito Dalbono scrisse nel Nomade varii articoli sulla mostra, e portando a cielo il quadro del Palizzi, concluse enfaticamente: “Viva te e i tuoi cani; essi ti faranno miglior compagnia di certi uomini d^oggi!„. I premiati non furono molti. Al conte di Siracusa, che aveva esposte cinque statue di varie dimensioni, e fra esse il Gladiatore ferito, molto lodato, venne aggiudicata una medaglia d’oro stragrande. Medaglia d’oro ebbe il Vertunni; medaglie d’argento, il catanese Francesco di Bartolo, che già si affermava incisore di gran talento, Euriso Capocci ed Eduardo Dalbono. Onorevole menzione ebbe Domenico Morelli, non ricordo se per gl’Iconoclasti o per i Martiri cristiani. La medaglia d’oro aggiudicata al Vertunni riscosse il plauso generale, perchè tutti ricordavano questo giovane elegante, che ad un tratto aveva volte le spalle ai codici, era andato a Roma, vi aveva aperto studio e in pochi anni si era affermato pittore insuperabile della campagna romana. Albe, tramonti, stagni con bufali, acquedotti mozzi, bestiame brado, Ostia, Porto d’Anzio e Astura: ecco i soggetti dei suoi quadri. Capocci, Cortese, Raffaele Tancredi, Fiorelli e Mancini facevano con onore le prime armi in arte. Fiorelli, fratello dell’archeologo, morì giovanissimo; gli altri son venuti in gloriosa fama.
Napoli aveva, al pari di altri Stati, un pensionato in Roma, dove mandava a perfezionarsi i più valorosi fra i suoi giovani artisti. Il pensionato aveva sede all’ultimo piano della Farnesina, proprietà del Re. Lo dirigeva il commendatore Filippo Marsigli, noto autore della Morte di Marco Bozzari e della Morte del conte Ugolino, e monsignor Santelli n’era l’ispettore ecclesiastico. Il pensionato durava sei anni. Gli ultimi artisti, mandati da Ferdinando II in Roma, furono Raffaele Postiglione ed Angelo Scetto, pittori; Antonio Cipolla e Pasquale Veneri, architetti e Tommaso Solari, scultore, i quali tornarono in Napoli alla fine del 1847.
I moti del 1848 consigliarono Ferdinando II a non inviar più giovani artisti a Roma, e così continuarono a bandirsi i concorsi per pensioni in Roma, ma con la residenza in Napoli. Sembra un bisticcio, eppure dal 1848 al 1860 continuarono a concedersi borse di perfezionamento ad artisti per il pensionato di Roma, ma con l’obbligo di stare a Napoli o di andare per qualche tempo a Firenze. I giovani del pensionato di Roma riuscivano quasi tutti professori nell’istituto di belle arti, diretto da Pietro Valente, assistito da due ispettori ecolesiastioi, don Gennaro Sommella e don Michele Valvo. V’insegnavano il Mancinelli, l’Aloysio Juvara, Cammillo Guerra, Luigi Arnaud, Raffaele Postiglione e Gennaro Ruo. I primi artisti, che alla fine del 1848 vinsero i concorsi per studiare a Roma, ma viceversa studiarono a Napoli e a Firenze, furono Saverio Altamura e Domenico Morelli per la pittura; Antonio Sorbilli ed Alfonso Balzico, per la scultura; Giustino Fiocca e Giuseppe Sorgente, per l’architettura. Niccola Palizzi, fratello di Giuseppe e di Filippo, ottenne nello stesso anno la nuova pensione, istituita per lo studio del paesaggio. Egli morì nel fiore della vita, paesista vigoroso, più per intuito che per studio, restando però inferiore ai suoi fratelli Giuseppe e Filippo, che l’uno in Francia, l’altro in Italia, pervennero ad alta fama. Un quarto fratello, Francesco Paolo, andato anche lui a Parigi, ove dipingeva con successo la Natura morta, morì giovanissimo. I fratelli Palizzi erano di Vasto, e Filippo, meritamente considerato un maestro caposcuola della nuova maniera della pittura, ispirata dal vero, fu un maraviglioso interprete della natura vivente, soprattutto per gli animali e specie per gli asini, i quali grazia a lui, furono accolti nei più eleganti salotti di Europa e di America. Egli apparteneva alla scuola detta di Posillipo, la quale lavorava all’aria aperta, al cospetto della grande natura, mentre nell’Accademia si studiava il pezzo, a luce voluta. Ebbe lo studio al vico Freddo, ora strada Poerio; poi al vico Cupa alla Riviera, prima che passasse in uno dei due studii, che Giovanni Wonviller, mecenate dell’arte napoletana di quel tempo, fece per lui e pel Morelli costruire a bella posta nel suo palazzo, in via Pace. Lo studio, che Filippo Palizzi aveva al vico Cupa, rimpetto all’antico gazometro, era modestissimo, ma fu là che egli visse gli anni più belli della sua vita artistica. In quel tempo i forestieri convenivano numerosi a Napoli e vi si fermavano per lungo tempo: tutti visitavano quel piccolo tempio dell’arte, in quella sudicia via. Il Palizzi vi dimorava quasi solitario, chiuso nella durezza e nella taciturnità del suo carattere; vi si raccoglieva dopo le sue campagne artistiche, che d’ordinario faceva a Cava dei Tirreni; e là, riuniti i suoi bozzetti, componeva quadri che i forestieri compravano a prezzi rilevanti per quei tempi, ma che ora farebbero ridere, tanto modesti erano rispetto a quelli di oggi. Aveva inoltre una piccola famiglia di animali vivi, che erano i suoi modelli e i suoi migliori amici, come diceva lui. Filippo Palizzi è morto di recente a ottantun’anni compiuti, e l’ultimo suo lavoro fu un quadro per la chiesa di San Pietro di Vasto, sotto il quale scrisse, dopo averlo compiuto, queste parole:
“Oggi 16 giugno 1898 compio anni 80, e sto lavorando in questo quadro Ecce Agnus Dei, promesso in dono alla Chiesa di San Pietro del mio paese nativo, Vasto. Questa tela io eseguo con gran trasporto, e spero portarla a termine felicemente. Mi auguro che i miei concittadini l’accetteranno di buon grado e vorranno conservarla in memoria dell’affetto grande del loro concittadino Filippo Palizzi„. Ma fu in quegli anni tra il 1857 e il 1859, quando eseguì il bellissimo ritratto del fratello Giuseppe, ora conservato nel museo Filangieri, e i due quadri per la sala da bigliardo di Andrea Colonna, che il Palizzi raggiunse l’apice della sua rinomanza.
La scuola, alla quale il Palizzi appartenne, fu la ripercussione del movimento rivoluzionario dell’arte, iniziato in Francia dalla scuola detta del 1830, ed ebbe, in Napoli, campioni non trascurabili, come il Duclaire, il Pitloo, i Carelli, ma soprattutti Giacinto Gigante, che può considerarsene l’iniziatore, essendo stato precursore dello stesso Palizzi. Gli acquarelli del Gigante sono lavori da resistere al più severo esame critico. Disgraziatamente poco si conserva di lui, ma basta citare l’interno della cappella del tesoro del duomo di Napoli, quadro bellissimo che si ammira nella pinacoteca di Capodimonte.
Morto giovane, Giustino Fiocca lasciò fama di sè in opere idrauliche, in ponti e strade. Domenico Morelli, che trovavasi il 16 maggio al palazzo Lieto e fu ferito alla faccia, lavorò con tenace fede ed acquistò grande celebrità. Derivato anche lui dalla nuova scuola, se ne fece maestro, poichè ai principii naturalistici dell’arte nuova aggiunse un alto sentimento di poesia, il quale rivela l’artista assai più del pittore. La sua indole fantastica egli la esprimeva non solo nell’arte del dipingere, ma anche, vorrei dire, nel dipingere l’arte. Il suo aspetto, la sua maniera di vestire, la sua voce, il lampo dei suoi profondi occhi neri, un senso di mistero, che egli dava alle sue parole, facevano di lui una specie di mago: qualità tutte, delle quali egli possedeva piena coscienza e di cui si serviva abilmente per trasfondere il suo pensiero in quello dei giovani. Viaggiando molto in Italia, e rappresentando egli quella scuola che da Napoli traeva origine, diffuse fra i giovani artisti italiani di quel tempo il nuovo verbo, ond’è che presto la sua fama divenne più italiana che napoletana. Fu nello studio al palazzo Wonviller, che compi le opere più belle della sua seconda maniera, come la Madonna del barone Compagna, il Tasso dello stesso Wonviller, la Odalisca del Maglione ed altre. Oggi, da tutti riverito e stimato, è senatore del Regno. Balzico vive a Roma e porta allegramente il peso degli anni e del denaro che ha accumulato col lavoro. A Torino, a Roma e a Napoli vi son traccie luminose del suo scalpello. Saverio Altamura, il forte autore del Trionfo di Mario, acquistò alto nome in arte, dipingendo i soggetti più opposti con la stessa vigorìa di sentimento e di colorito. Le esequie di Buondelmonte, il Ritratto di Carlo Troja, che è alla pinacoteca di Firenze, sono antiche sue opere, che destano anche oggi viva ammirazione. Bel giovane ai suoi tempi, fu assai fortunato con le donne, anche in età matura. Figurò tra i più ardenti nel 1848, e quando venne la reazione, il conte di Aquila lo fece fuggire e stette in esilio alcuni anni. E morto vecchio, povero e assai rimpianto. Foggia, sua città natale, gli ha decretato un monumento. Achille Vertunni mori a Roma, dopo lunga infermità, due anni or sono, e di quel suo magnifico studio in via Margutta, già ritrovo di tutta una società artistica cosmopolita, non rimane più nulla. Grande artista e gran signore, guadagnò quanto volle e tutto spese. Fatto segno al rispetto e all’amore dei suoi concittadini e di quanti amano l’arte, vive a Catania il mio carissimo Francesco di Bartolo.
La singolare topografia antica del Regno e le tradizioni di dotti studii archeologici, impiantatevi dal capuano Mazzocchi, erano condizioni assai favorevoli ad assicurare sviluppo pieno e completo degli studii antiquarii nel Napoletano. Ma invece un ordinamento legislativo solo formale, le pastoie imposte ad ogni ramo di cultura e quel senso di decrepitezza, che investiva gli organi tutti del governo borbonico, produssero il loro effetto letargico anche in questa parte della cultura nazionale, nel Museo borbonico, come sugli scavi di Pompei e sulle stesse pubblicazioni archeologiche.
La tutela sulle antichità era regolata da due decreti de’ 13 e 14 maggio 1822. Severissime prescrizioni colpivano gli esportatori e coloro, che in qualsiasi modo si attentavano a modificare lo stato dei monumenti antichi, nè era lecito procedere a scavi di sorta, senza permessi e lunghi piati. Siffatti rigori, improntati dal famoso editto Pacca di Roma, naufragarono innanzi alle abitudini partenopee ed alla corruttela politica delle supreme autorità, e si risolvevano o in abusi contro determinate persone, o in eccezioni e favoritismi in pro di altre. Divenne famoso un ministro, che si formò una cospicua collezione di antichità col prodotto degli scavi. Per agevolare queste turpitudini e sfuggire a siffatti rigori, si contaminava il patrimonio della scienza con false indicazioni. Si attribuivano al Lazio oggetti ritrovati nella Puglia, all’Etruria altri di Campania, e scavi operati venti trent’anni innanzi, si gabellavano per ritromamenti recentissimi. Cosi la ricostruzione del complesso delle singole scoperte divenne, per la scienza, difficilissima, se non impossibile. E incalcolabile il danno arrecatole dall’avidità del Santangelo, che perturbò gravemente gli effetti della legge, nonchè l’azione della commissione suprema di antichità e belle arti. Questo Istituto, che rimontava a’ tempi di Murat, si trasformò, solo per un decreto del 7 dicembre 1856, in Sopraintendenza degli scavi e del Museo. Aveva attribuzioni scientifiche ed amministrative, ma più di nome che di fatto.
Il più deplorevole disordine regnava nelle ricche collezioni del Museo, a buon diritto noverato tra’ primi di Europa, per l’importanza e il numero immenso delle opere d’arte raccoltevi. Ammassate e chiuse nei magazzini giacevano le antiche pitture murali di Pompei. La raccolta epigrafica, disposta ancora secondo le classi dello Smezio e del Pauvinio, ristabilita nel 1823 dall’abate Guarini, si era quasi duplicata; ma le lapidi sopraggiunte rimanevano confuse con le precedenti o disseminate per l’androne e pe’ giardini del Museo; i frammenti di uno stesso marmo deposti in luoghi diversi; i titoli falsi o sospetti accoppiati ai genuini; uniti a’ marmi antichissimi quelli delle età più recenti; di ordinamento geografico in codeste iscrizioni neppure l’inizio. E dire che il Mommsen avea pubblicato il Corpus delle iscrizioni antiche del Napoletano, disposte geograficamente, sin dal 1852! Più strana vicenda ebbe nel Museo una certa raccolta che chiamarono, ed in parte era, pornografica, che fu ordinata nel 1819, da Francesco I, allora duca di Calabria, nel fine di chiudere in una stanza gli oggetti osceni o tenuti per tali, e renderli più o meno visibili, con uno speciale permesso del Re, sino al 1849. Ma nel 1852, trasportati tutti quegli oggetti in un antro, ne fu murata la porta, “perchè si distruggesse qualunque esterno indizio della funesta esistenza di quel gabinetto, e se ne disperdesse per quanto era possibile la memoria„. Quattro anni appresso, si tolsero poi dalla pinacoteca e si chiusero in luogo umido ed oscuro trentadue quadri e ventidue statue di marmo, perchè, si disse, corrompitrici della morale! Vi erano tra’ primi la Danae del Tiziano, la Venere che piange Adone di Paolo Veronese, il Cartone di Michelangelo con Venere ed Amore, le Virtù di Annibale Caracci e, tra le seconde, la Nereide sul pistrice, che sarebbe stata distrutta, “se lo scultore Antonio Calì si fosse ricusato più volte ad occultare, con restauri di marmo, le nudità della figura„. L’istessa raccolta delle statue di bronzo, tesoro speciale del Museo di Napoli, era divisa tra grandi e piccole, ne’ corridoi o tra gli utensili di bronzi: il palmo o la mezza canna era stato l’unico criterio scientifico che avea presieduto al loro ordinamento; non si era neppur pensato al canone fondamentale per la storia dell’arte, che la materiale vicinanza di ogni opera di scultura servisse allo studio dello sviluppo storico della plastica! Dei papiri della biblioteca Ercolanese rimanevano non svolti e non disegnati, epperò inediti, quasi 1270 dei 1763, che costituiscono i preziosi avanzi della biblioteca greca e latina rinvenuta in Ercolano nel 1752.
Non ebbero miglior sorte gli scavi di Pompei. Per un vizio di origine, che rimontava ai primi scavi tentati nel secolo passato, questi erano stati diretti meno a restituire alla luce l’antica, bellicosa ed opulenta città dei Sanniti, e a palesare alla scienza la vita tutta loro e dei Romani, che a rinvenire una maggior copia di oggetti antichi. Tale era stato lo scopo dello prime ricerche a’ tempi di Carlo III, tale si mantenne negli ultimi anni della Monarchia. Si scavava a solo scopo di avidità. Pompei era un campo, un tesoro da sfruttare: lo chiamavano, come Caserta, un real sito. Quando uno scavo cominciato si credeva poco fruttuoso, lo si abbandonava presto. Cosi molti edifizii rimanevano in parte inesplorati, altri nuovamente ingombri, se non ricoperti, da monticelli di pomici e di ceneri, per gli scavi adiacenti. Una specie di tela di Penelope. Si lavorava senza scopo scientifico e senza alcuna scientifica serietà. Pompei era divenuto un luogo di richiamo dei forestieri a Napoli, un luogo da soddisfare soprattutto la curiosità de’ regnanti e de’ principi, che vi capitavano, e da fornire uno svago per la Corte istessa. Gli scavi operati dal 1855 al 1860 furono misera cosa. In media non lavoravano più di venticinque operai al giorno, adibiti, s’intende, anche alla ordinaria manutenzione, così che ben pochi ne rimanevano per i nuovi scavi. Questi, negli anni di cui parlo, si limitarono ad aprire la via detta di Oleonio, che, dalla Stabiana va ad incontrare l’altra dell’Abbondanza. Lungo e faticoso fu il lavoro al di sterro del peristilio delle nuove Terme, e del sotterraneo del tempio della Fortuna. La casa più importante, che venne in luce in questo tempo, fu quella della famiglia Popidia, detta volgarmente del Citarista, edifizio che levò gran rumore presso gli archeologi, come fra’ dilettanti, per la magnificenza signorile, per il grandioso viridario, cinto da portico di diciotto colonne, per gl’insigni dipinti che fregiavano le mura dell’esedra, e che ora sono tra’ più celebri del museo di Napoli. Non capitava forestiero, al quale le guide non additassero l’Arianna addormentata, cui si approssima Bacco, e l’Oreste e Pilade innanzi a Toante, col ratto dell’idolo di Diana, che Ifigenia tenta: opere ritrovate tutte nella casa del Citarista.
La Corte si recava normalmente una o due volte all’anno agli scavi pompeiani. Frequenti occasioni si dettero a tali gite, specialmente durante l’anno 1855. Vi andò col duca e la duchessa di Brabante ai 18 giugno; pochi di appresso, il 6 di luglio, col Re di Portogallo ed il duca di Oporto, che fu poi il genero di Re Vittorio Emanuele; nell’agosto coll’arciduca Massimiliano d’Austria; il Re, la Regina ed i principi reali vi ritornarono il 27 settembre, e di nuovo la Regina con gli arciduchi d’Austria, a’ 9 di novembre. Ma di tutta la Casa reale il solo vero appassionato visitatore di Pompei era don Leopoldo, conte di Siracusa. Egli vi andava con la sua nota cotêrie elegante, e col Fiorelli, che n’era il segretario e la magna pars, e nel biennio 1855-56 vi tornò non meno di quattro volte. Nei due anni seguenti le gite della Corte e de’ principi esteri si fecero più rade; durante il 1857 vi andarono il Re di Baviera, il principe d’Orange e quelli di Joinville; a’ 18 settembre vi tornò sempre con la famiglia reale Ferdinando II, e questa fu per lui l’ultima gita alla monumentale necropoli. Sul finire del 1858 vi si recarono i duchi di Modena ed il principe Alberto di Prussia. E mentre la Corte stava a Bari per la malattia del Re, tornarono a Pompei gli arciduchi di Austria. L’ultimo principe di casa Borbone che la rivide, fu il conte di Siracusa nel giorno 19 settembre 1859, e lungamente si fermò quella mattina nella casa del Citarista.
Durante l’anno 1860 i lavori a Pompei tacquero affatto. Si trasandarono persino le riparazioni ordinarie. Solo a’ 20 di dicembre, fra insolita attività di centinaia di operai, in prossimità del tempietto d’Iside e delle nuove terme, ricominciarono le nuove ricerche, quelle che assicurarono le sorti avvenire della storica necropoli, che acquisirono alla scienza non dimenticabili scoperte e dettero fama europea a Giuseppe Fiorelli.
Sopraintendente degli scavi di Pompei e del Museo di Napoli sin dal 1851 era Domenico Spinelli, principe di San Giorgio. L’avo suo era stato vittima dei sanfedisti nel novantanove. Nel mondo ufficiale passava per uomo dotto in numismatica, ma nella società si susurrava che la nota opera apparsa sotto il suo nome intorno alle monete cufiche non fosse tutta farina del suo sacco. Attorno allo Spinelli vi erano don Bernardo Quaranta, Giambattista Finati e Stanislao d’Aloe. Dell’amministrazione del Museo facevano anche parte Fausto e Felice Niccolini, che pubblicarono una grande opera su Pompei, splendida più per lusso di carta e di disegni, che per valore archeologico. Nè bisogna dimenticare don Giulio Minervini, finito anche male. Dirigeva gli scavi pompeiani l’architetto Genovese, capo locale del personale era don Raffaele Campanelli, e soprastante capo don Antonio Imparato. A guardare la necropoli avevano messo i Veterani; libero ne era l’ingresso; ma il più gran disordine regnava nel personale, e i visitatori soggiacevano a richieste petulanti e indecorose di mancia continue.
Vi era altresì, prima del 1848, un altro ispettore agli scavi di Pompei. Un giovinetto, figlio di vecchio e prode soldato di artiglieria, mandava nel 1841 da Napoli alcune sue osservazioni numismatiche all’Istituto tedesco di archeologia di Roma. Il suo scritto, sobrio ed acuto, rivelò un vivido intelletto, precocemente erudito e fu accolto benevolmente e presto inserito nel Bullettino già famoso dell’Istituto. Cinque anni dopo quel giovane, ventitreenne appena, essendo nato agli 8 di giugno 1823, tanto era salito in alto nella estimazione dei suoi colleghi, che fu eletto vicepresidente della sezione di archeologia nel settimo Congresso degli scienziati. Subito dopo lo nominarono, per merito, ispettore degli scavi di Pompei. Quel giovane, benché di famiglia lucerina, come Ruggiero Bonghi, era nato a Napoli e si chiamava Giuseppe Fiorelli, e di lui questo libro ha già fatto più volte menzione. Gli avvenimenti del 1848 lo trovarono ricco di ingegno, di entusiasmo, di fede negli studii e nelle sorti della patria. Fu de’ più operosi liberali, e tra’ custodi di Pompei formò una compagnia di artiglieri, in servizio della patria e delle libere istituzioni. Procurati due cannoni, offri l’opera sua e de’ custodi pompeiani al sottointendente di Castellamare, per la guardia nazionale del distretto. Ecco la caratteristica ed enfatica lettera, ch’egli scrisse allora, e che venne stampata nel Tempo del 10 marzo:
I custodi delle rovine di Pompei, usati a vivere taciturni tra gli squallidi avanzi di un popolo, che da 18 secoli è scomparso dalla terra, hanno ivi giurata fedeltà al Re ed alla Costituzione, con un grido che rimbombando fra queste solitudini, troverà certamente un’eco nel cuore di tutti gl’Italiani, della cui antica gloria, potere ed indipendenza qui golosamente conserviamo molte sacre reliquie. Da questo giorno noi crediamo avere un obbligo di più verso la patria nostra, quello cioè di essere pronti, come ogni altro cittadino, alla difesa delle provvide istituzioni testé donate all’Italia dalla sapienza dei suoi reggitori, e benedette dal Sommo Pontefice, che iu nome di Dio richiamò su queste acque, gloriose di bellici trionfi, su queste terre, tomba di barbari aggressori, su queste Alpi, indomabili e fiere dell’innata libertà, quella grazia celeste, onde si abbellirono queste italiche contrade, già potenti e temute da tutti i popoli del mondo.
Pertanto il luogo di nostra dimora, e la custodia dei monumenti a noi affidati, ne vietano di poterci riunire sotto le insegne della guardia nazionale, che per opera vostra, o signore, va bellamente ordinandosi in questo distretto, di tal che saremmo forzati a non poter dividere con tanti generosi fratelli l’onorevole carico d’impugnare un’arma per la difesa di questa patria, amata da noi più d’ogni cosa mortale. Epperò abituati a trattare i forti istrumenti delle opero di terra e di costruzioni, abbiamo
divisato dedicarci al maneggio delle artiglierie nazionali, a cui molti cittadini non potrebbero addirsi per la grave fatica ed il lungo e continuato esercizio di che abbisognano le manovre de’ cannoni. Questo voto di un pugno di uomini, lontani dalla società, è sagro; ed io interprete dei sentimenti di tutti lo presento a Voi, onde ne facciate consapevole il Ministero dell’Interno, da cui dipendono le forze armate dei cittadini.
Da questo giorno tutte le opere superanti ai doveri del nostro impiego saranno dedicate ad approvare gli usi e le pratiche dalla vita di un artigliere, a me non nuove, perchè, nato di vecchio e prode soldato di artiglieria, ed a molti de’ compagni note pe’ racconti de’ padri loro, i quali custodi di queste rovine ne’ difficili tempi del 1799, tutti corsero all’armata ad ingrossare le file degli artiglieri e de’ zappatori.
Cittadino, la nostra volontà è decisa; tra poco 20 uomini potranno caricare due cannoni e puntare alla distruzione dei nemici della patria.
Noi non attendiamo che un vostro appello, il quale ne indichi essere accetta alla guardia nazionale del Distretto l’opera nostra, e le non lievi fatiche che dovremmo durare; e fidate poi nella purezza delle nostre intenzioni, concepite qui dinanzi alle mura di una città osca, che non mai fu vinta dalla guerra sociale; nella fermezza de’ nostri proponimenti, giurata per l’ombra di quel soldato, che lasciato a custodire la porta Erculanea di questa città, trovammo morto al suo posto, mettendo innanzi alla vita l’onore; nell’ardore de’ nostri affetti, comechè tutti nati d’appresso a questo Vesuvio non è guari rimugghiante di spaventevoli tuoni di libertà.
Il primo squillo di tromba cittadina che ne invita a pugnare all’ombra del vessillo tricolore dell’italico risorgimento, troverà noi desti e pronti a seguìre i reggimenti della guardia nazionale del distretto; il lampo de’ cannoni costituzionali ridurrà cenere il malvagio nemico della italiana redenzione, come la folgore del cielo, dove la stella Ausonia ritorna a sfavillare, di fulgidissima luce, quale nelle notti più serene dei secoli che furono.
- Pompei, 4 marzo 184S
L’Ispettore degli scavi di Pompei |
Come si può immaginare, cominciata la reazione, non tardarono le accuse politiche a colpire il Fiorelli. Il ministro Longobardi nel 4 novembre 1848, su denuncie ricevute, invitò la polizia del distretto di Castellamare ad indagare sul conto del Fiorelli, di Raffaele d'Ambra e di Giuseppe Abate, perniciosissimi per carattere torbido, autori di sospette unioni in Pompei nelle quali distinguevansi i più esaltati demagoghi. Una inchiesta preparata da un ispettore di polizia, fu riconosciuta un mese dopo, sufficiente ad essere tramutata in un regolare processo penale. Ben cinque volte tornò il processo all’esame della Corte criminale, fino a quando, prosciolto il D’Ambra, non senza le meraviglie de’ suoi compagni, il Fiorelli venne tratto in arresto a’ 24 aprile 1849 e poco di poi fu seguito in carcere dall’Abate, ch’era pittore e disegnatore a Pompei. Il Fiorelli si difese strenuamente in una memoria scritta nelle carceri di Santa Maria Apparente, dimostrando che le accuse mossegli partivano da’ bassi impiegati di Pompei, reclutati dal noto direttore Carlo Bonucci, per sfogare gli astii ed i rancori, che si era tirati addosso, per aver disvelato tutte le ladronerie che si commettevano da lunga data in quella amministrazione. Nonostante le più irrefragrabili pruove delle calunnie ond’erano mosse le accuse di repubblicanismo e di attentato alla sicurezza dello Stato, il Fiorelli non potè prima del gennaio 1850, ottenere una sentenza che lo metteva fuori carcere per insufficienza di indizii. Ma uscito dal carcere, il valentuomo si trovò a vivere come in un deserto. Destituito dall’ufficio, senza alcun patrimonio, senza potere far nulla nel campo degli studii, dovette per campare la vita, ridursi a lavorare in una officina di asfaltista, certo Erba, ed egli ricordava nella sua tarda età di avervi trasportati sugli omeri i sacchetti di terra! Il merito di avere sottratto un uomo di tanto valore da così ingrata e vergognosa situazione fu del conte di Siracusa, ed è debito di registrarlo a suo onore.
Questi lo chiamò a suo segretario particolare, sfidando quasi gli sdegni della Corte e gli commise la direzione degli scavi, che per sua privata munificenza intraprese nell’agro Cumano. I lavori cominciarono nel 1863, e presto si scopri l’ubicazione del tempio di Giove statore ed un pubblico edificio ricco di marmi e di opere scultorie. Menò gran rumore la scoperta di un sepolcro greco, adoperato anche ne’ posteriori tempi di Diocleziano, e, cosa singolarissima, vi furono trovati degli scheletri con testa di cera. Fu un fatto che rimarrà forse senza esempio, e che dette luogo a numerose ipotesi dei dotti, i quali non uscirono mai dal campo delle semplici ipotesi. De Rossi, Cavedoni, Quaranta, Minervini, Guidobaldi, Finati, Pisano, Verdino, oltre il Fiorelli, dissertarono sulla meravigliosa scoperta. Gli scavi Cumani furono i soli dell’epoca, che non si fossero intrapresi per speculazione commerciale, epperò vennero condotti con riguardo a tutto ciò che poteva avere interesse scientifico. Il Fiorelli ebbe lodi ed incoraggiamenti dall’Istituto archeologico di Roma. Egli pubblicò due importantissime opere su codeste scoperte, una nel 1853, l’altra nel 1857, che fu specialmente notevole per le magnifiche riproduzioni artistiche de’ vasi dipinti, dalle quali tornò molto onore alla tecnica napoletana. Fu come conseguenza di questi scavi, che si scopri il passaggio sotterraneo tra l’antica Cuma ed il lago d’Averno, e i due pregiati vasi di vetro ritraenti i più celebrati luoghi delle spiaggie di Baia e di Pozzuoli, illustrati nel 1858 dal De Rossi. Fecero anche altri scavi nell’agro puteolano, in questi anni, lord Walpole e il barone di Lotzbeck, mentre lo Scherillo si occupò degli sgombri dell’Anfiteatro e del Porto Giulio.
Ma l’essere stato il Fiorelli quasi divelto a forza dalla quotidiana vita di Pompei, condusse il suo acuto intelletto alla serena e comprensiva contemplazione della grandezza di quella città e del compito singolare che gli eventi le avevano dato nella storia della società umana, come della necessità di esplicarlo e di raggiungerlo in tutta la sua ampiezza. “Sappiamo del gran mondo romano, soleva egli dire, dai suoi fasti, dalla immensa letteratura sua; ma lo conosceremo in modo diverso e meravigliosamente reintegrato, ed alla scienza utilissimo, quando andremo a sorprendere questa loro città, nella sua interezza, quale si trovava in quella notte de’ 23 di agosto del 79 dell’era volgare; quando saremo penetrati in quelle case, in quegli edifici! pubblici e privati, ed avremo appreso da’ più piccoli oggetti usati il grado di loro civiltà, i commerci, le industrie, gli usi, i costumi„. Innamorato di sì vasto concetto, rivelò per il primo al mondo colto l’alta importanza degli antichi giornali delle escavazioni pompeiane, e li publicò tutti. Datosi quindi conto dell’area, su cui si svolgeva la intera città, pensò alla tabula o piano generale di essa, ai suoi confini, alle parti già scavate ed a quelle ancora sotterrate, a’ metodi de’ nuovi scavi a farsi. Ricostruì mentalmente la città stendentesi su quel colle di lave vulcaniche; dalla disuguale elevazione delle vie interne, rifece la intera topografia; guardò alle quattro grandi strade che la intersecano da mezzogiorno a settentrione, e da oriente ad occidente, ne trasse la divisione in regioni ed in insulae, e ne formò un completo programma. Quando Giuseppe Fiorelli nel settembre 1858 dette l’annunzio di queste sua idea in un semplicissimo manifesto, impresso a piccolo numero di esemplari, che gli mancavano i danari, per moltiplicarli, la meraviglia fu grande. “Sottopongo, diceva, tout court, per ora, un’interessante verità archeologica agli studiosi„. Parve strano che nessuno fino allora avesse pensato a cosa tanto semplice ed insieme di così alta importanza scientifica. Gl’invidi barbassori dell’Accademia archeologica e del Museo, gli scrittori delle quotidiane dissertazioncelle sopra anelli, fibole, torsi di statue, ne furono come sconvolti. Il Fiorelli contava trentacinqu’anni appena, e con un colpo di ingegno e di audacia si assideva su tutti. L’istesso don Giulio Minervini, suo amico, ma costante emulo insieme, il quale col suo Bullettino archeologico, già fondato dall’Avellino, avea quasi il monopolio degli studii e delle scoperte antiquarie nel Regno, dovette rendersi banditore del magnifico progetto del Fiorelli, tanto strepitosa fu la scoperta dell’intera topografia pompeiana. Fu il frutto di un pensiero tenace, proseguìto con ostinata continuità. Cosi il carcerato di Santa Maria Apparente e l’ispettore destituito rispose, dopo dieci anni di studii, di stenti e di privazioni, al governo napoletano! Per non uscire dal campo archeologico, ricorderò che i sospetti della polizia napoletana si estesero sino a’ viaggi scientifici del padre Raffaele Garrucci della Compagnia di Gesù, il quale nell’inverno del 1860 dovè rinunziare alle sue escursioni archeologiche nel Napoletano!
La magnificenza e l’alto criterio scientifico del progetto Fiorelli, e il gran valore dell’uomo apparvero nelle loro vere proporzioni, quando vennero a lui affidati gli scavi di Pompei, La ricostruzione scientifica di Pompei, non dissociata da un severo ordinamento amministrativo, rimarrà eterno monumento del suo ingegno. Chi potrà dimenticare la grande impressione universalmente suscitata, quando il Fiorelli, guidato dal suo pensiero della ricostruzione della vita romana, per mezzo di Pompei, riusci a ritrovarvi un mucchio di corpi umani, quali erano 79 anni dopo l’èra di Cristo? Alfonso della Valle di Casanova, scriveva “vedendo interi e rifatti que’ corpi, riportai una delle più forti commozioni ch’io ho provato nella mia vita„.
In Italia, nel 1856, lo studio dell’archeologia, salvo poche e distinte eccezioni, era piuttosto trascurato: scomparivano Secchi, Cavina, Orioli e le file de’ vecchi diradavano. Napoli e le provincie meridionali erano per troppo tempo quasi sfuggite alle ricerche della scuola tedesca specialmente. Le relazioni dell’Istituto germanico nel Mezzogiorno duravano, se non interrotte, languidissime. Si restringevano a qualche rapporto isolato di viaggiatori oltramontani, nonostante gli sforzi del Gerhavel da Roma per riaprire questo campo della scienza. Quasi si rimpiangevano i tempi (1830-1840) di Enrico Guglielmo Schultz, il quale teneva al corrente delle scoperte antiquarie napoletane i tedeschi dell’Istituto di Roma; nè avea potuto ancora aversi l’opera magistrale di lui, assai aspettata, sui monumenti dell’arte del Medio Evo nell’Italia meridionale, che non fu publicata prima del 1860 a Dresda, dopo la sua morte, e che riusci tanto più ricca di quella dell’Huillard-Brécholles, edita a spese del munificentissimo duca di Luines nel 1843. Innanzi a’ primi nuovi rapporti di Brunn su Pompei, il campo dell’archeologia a Napoli era tenuto dal Garrucci, dal Guidobaldi, dal Quaranta, dal Finati, dal Minervini, l’ultimo de’ quali, come ho detto, esercitava col suo Bullettino quasi un monopolio, per quanto le pubblicazioni di esso avvenissero sempre con ritardi e con interruzioni di mesi e, qualche volta, di un anno intero! E se le scoperte relative alla gente osca avevano trovato in Giuseppe Colucci un acuto e dotto illustratore, se il Mommsen traeva partito dagli scavi del 1857-58 a Pietrabbondante per riconoscere il Bovianum vetus, né queste ne altre ricerche del grande epigrafista su gli avanzi messapici scuotevano il torpore degli studii antiquarii e filologici nel Napoletano.
Ma l’opera veramente grandiosa, alla quale si lavorava in quell’anno, era il prosciugamento del lago Fucino. I primi lavori del famoso acquedotto Claudiano risalivano al 1823, ed il merito di avere finalmente indotto il governo napoletano a tentarli, spettava a Carlo Afan de Rivera, direttore generale dei ponti e strade, il Paleocapa dell’Italia meridionale. Assai lo avevano coadiuvato nell’esecuzione, Luigi Giura, che ne fu il direttore speciale e quel Marino Massari, ingegnere capo della provincia di Aquila e padre di Giuseppe Massari, che ebbe il coraggio, nell’ottobre 1829, di percorrere in un battello per 844 metri l’antico emissario mezzo rovinato e rigurgitante di acqua. Malgrado però questi precedenti di non antica epoca, la gloria di aver dato alla gigantesca opera le proporzioni magnifiche, che poi ebbe, e di averla affidata ad un’amministrazione tecnica e finanziaria di prim’ordine, spetta al principe Alessandro Torlonia. I lavori iniziati dall’Afan de Rivera erano stati concepiti con molta parsimonia, nel fine soprattutto di vincere gli ostacoli, che da ogni lato, e per varii interessi, venivano sollevati alla esecuzione del magnifico progetto. E poiché in idraulica le opere incomplete ed insufficienti sono destinate a cadere, e, infuriatesi le acque del lago nel 1835, tutti i lavori andarono perduti. Gli oppositori vinsero, il governo si disanimò e ne seguì l’abbandono totale dell’impresa. Si costituì più tardi una società anonima, che riassunse l’impresa, ma con un capitale, che in breve sarebbe stato ingoiato dalla vastità dell’opera. Questo capitale non superava i cinque milioni di lire, ed il principe Torlonia aveva acquistato la metà delle azioni. Non era stato possibile raggruzzolare una maggior somma né all’estero, ne nel Regno. Il Torlonia intuì col suo acume quanto incompleto fosse il progetto approvato dal governo napoletano; notò la insufficienza dei mezzi, e previde le delusioni che ne sarebbero derivate. Allora si rivelò la grandezza dell’animo di lui. Milionario, sentì la nobile ambizione di realizzare per la scienza, per l’arte, per l’agricoltura del suo paese e della nostra età, un progetto ancora più vasto di quello altra volta concepito dagli imperatori romani con i loro trentamila schiavi, e non esitò, innanzi ad una così magnanima idea, di seguire la generosa ispirazione, nonostante il rischio a cui esponeva l’immensa sua fortuna e l’immane lavoro cui si sobbarcava. Riscattò quindi recisamente il capitale sociale ed assunse da solo la gigantesca impresa. Tutto in questa opera del Torlonia fu mirabile per ardire, per magnificenza, e per raro acume pratico. Egli ne affidò l’esecuzione ad uno de’ più illustri ingegneri francesi, il De Montricher, che si era coperto di gloria in una delle più vaste costruzioni idrauliche della Francia, l’acquedotto di Marsiglia. Messo il Torlonia, dall’onestà e dalla sagacia del Montricher, nell’alternativa di scegliere fra un progetto più modesto ma più incerto nella sua riuscita, ed un altro di singolare grandiosità, ma assai più dispendioso, scelse quest’ultimo. E giammai tanto coraggio e tanta fede ebbero un premio più degno nel completo successo dell’opera. Studii geologici, idrologici, archeologici, storici e di ingegneria idraulica vennero innanzitutto compiuti con splendida larghezza. Dopo pochi mesi dalla concessione, sul lago, innanzi l’imboccatura dell’emissario, era già fondata una doppia diga a ferro di cavallo, per impedire che le acque si riversassero nel traforo, prima che l’incile fosse riedificato, e racconciato e corretto il lungo corso dell’emissario. Gli antichi pozzi e cuniculi si vedevano già ripurgati e ricostruiti. Sull’alto del monte Salviano erano sorte vaste scuderie, immensi magazzini, macchine, fabbriche di mattoni, fornaci, fucine e officine d’arte lignaria, di funi e gomene di ogni sorta: era tutta una città che sorgeva, fitta di una popolazione di operai, di minatori, di marrajuoli, di magnani, di fabbri, di malangoni, di carpentieri. Né mancò una chiesetta edificata per loro. Tutto rivelava, accanto alla grandezza dell’impresa e degli ingenti capitali che assorbiva, la prudenza, l’ordine, la dottrina che la governava.
Le difficoltà tecniche e logistiche, che si dovettero superare, furono immense. Le comunicazioni tra Avezzano e Napoli erano difficilissime. Un deplorevole pregiudizio militare e politico aveva potentemente contribuito a far giacere la Marsica, ed una gran parte degli Abbruzzi, in uno stato completo d’isolamento e di abbandono. Quivi era la più lunga frontiera del Regno limitrofo agli Stati del Papa, e per renderla meno accessibile ad un’armata nemica, non si era voluto costruire strade di comunicazione. Si era promesso a Gregorio XVI la costruzione di una strada carrozzabile da Roma a Napoli la quale, seguendo la valle dell’Aniene, sino ad Arsoli e costeggiando la frontiera di Carsoli, si sarebbe svolta sul bacino del Fucino, per discendere lungo la valle del Liri, a Sora ed a Napoli. Il Papa fece bensì costruire la strada che attraversava i suoi Stati, ma il governo napoletano non tenne la parola per il tronco a lui spettante, a causa di quel pregiudizio strategico e politico. Questa quasi barbara condizione d’isolamento della Marsica raddoppiò le enormi difficoltà per l’impresa del Fucino. Molte materie prime, molti istrumenti di lavoro bisognava farli venire da Napoli, e fu uopo anche, e spesso, di ricorrere a Marsiglia. Specialmente molti operai e macchinisti e minatori dovettero venire dall’estero. Ciò naturalmente faceva oltrepassare le più ragionevoli e più larghe previsioni nella condotta dell’opera. Non prima del 1865 si potè mettere mano ai lavori dell’emissario. Si trattava di penetrare nelle viscere della terra, a cento metri sotto il suolo e fra le rovine di ogni sorta dell’acquedotto romano, del quale si dilatavano tutte le proporzioni. Le difficoltà erano enormi. Ma gravissima fu quella della morte prematura del Montricher, seguìta a Napoli, per tifoidea acuta, a quarantotto anni, nel 28 maggio 1858, mentre con la giovane famiglia si recava in breve congedo a Marsiglia. Il principe Torlonia affidò allora il proseguìmento dell’opera ai due ingegneri, ch’erano quasi i depositarii del pensiero di Montricher, Bermont e Brisse. La storia dei lavori tecnici occorsi per liberare l’emissario dalle acque e dalle rovine, che l’ingombravano, riempie l’animo di meraviglia e di ammirazione. Il principe Torlonia non si dissimulava che la sola persona, la quale nel governo napoletano desiderava sinceramente la riuscita della grande intrapresa, era il Re. In questo desiderio del Re si racchiudeva la sola garenzia morale, che il Torlonia trovasse contro le gravezze del contratto impostogli nella concessione. L’amministrazione napoletana non si dava pace per essersi vista sfuggire dalle mani una così colossale occasione di proventi e di lucri, e sollevava continue difficoltà, che facevano strano contrasto con la magnanima condotta dell’ impresa. Sicché, morto Ferdinando II, il Torlonia si affrettò ad esporre al suo successore il grave rischio che egli correva, ed ingiustissimo, per una clausola incidentale contenuta nel contratto, alla cui importanza non si era dato alcun peso, ma che si sarebbe verificata quando le acque del Fucino sarebbero sboccate nel Liri. Per quella frase, più che clausola, il Torlonia avrebbe dovuto regolare, se non addirittura sistemare, il corso del Liri! Fu fatta allora una transazione, per la quale il principe pagò al tesoro napoletano una somma di ventimila ducati, e fu esonerato dall’ingiusta clausola, ottenendo inoltre una proroga di otto anni per la esecuzione del prosciugamento. Fu questo il solo atto del Regno di Francesco II relativo all’opera del Fucino. Tutto il lavoro durò ventidue anni, e fu nel giugno 1875 che le acque più basse del bacino lacustre passarono nell’emissario, e il Fucino scomparve. La spesa ascese a circa quarantotto milioni. Si restituirono alla cultura e alla produzione nazionale ventiquattromila ettari di terreno, dei quali nove mila vennero attribuiti a comuni ed a privati limitrofi al prosciugato lago, e quindici mila al Torlonia. Questa gravissima questione circa l’appartenenza dei terreni rivieraschi fu risoluta felicemente da Silvio Spaventa, ministro dei lavori pubblici, il quale in memoria riconoscente di tanta munificenza, fece coniare una grande medaglia in onore di Alessandro Torlonia con iscrizione dettata da Luigi Settembrini, che dice così:
ALEXANDRO TORLONIAE
ROMANO V. P.
QUOD FUCINI LACUS
EMISSIS AQUIS DERIVATISQUE
ITALIAE AGRUM AUXERIT
OPUS IMPERATORIBUS AC REGIBUS
FRUSTRA TENTATUM
AERE SUO EXPLEVERIT
AB ANNO MDCCCLV
AD ANNUM MDCCCLXXV
Il principe Torlonia andò a ringraziare Vittorio Emanuele, donatore della medaglia, la quale ha sull’altra faccia la testa del Re, con le parole: Victorius Emmanuel Italiae Rex. Bellissimo lavoro d’arte, e ultimo, di Luigi Arnaud.