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la benevola riprensione di Fulvia. Appena gli venne fatto, si alzò da tavola con un pretesto, e andò nella sua camera a sfogare un nuovo impeto d’amarezza. Oh, egli lo aveva bene inteso, quel discorso in apparenza tanto innocente. Egli era sempre, ma allora più che mai, un impiegato del signor Bertòla, il segretario, il ministro del Bottegone. Lo volevano sano, naturalmente; non gradivano che si ammazzasse al lavoro, che si levasse il sonno dagli occhi; gran mercè! Ma per lui, oltre quella bontà padronale, non c’era altro a sperare.

E però non c’era neanche da aspettare che cosa dovesse uscir fuori dal discorso del signor Demetrio con la sua Fulvia. Il discorso, a buon conto, doveva essere tenuto con tutta la comodità possibile e desiderabile. Quel giorno, a farlo a posta, da casa Sferralancia, non giunse nessuna visita, nessun messaggio a casa Bertòla; non passò carrozza in livrea, nè si lasciò vedere la zazzeretta del signor Momino in quei pressi. Casa Sferralancia voleva lasciare al signor Demetrio il tempo di pensare e la libertà di parlare alla sua bella figliuola.

Ma se il signor Demetrio andò da lei, Virginio non lo vide salire. Lo aveva lasciato a pisolare sul canapè del salottino; ed anche, andando e venendo per le stanze del Bottegone, lo aveva veduto parecchie volte immobile al suo posto: ma poi, ad un tratto, ritornando dalla stanza delle pannine, aveva trovato piazza pulita. Dov’era andato il signor Demetrio? nessuno lo sapeva, nessuno lo aveva veduto. Del resto era l’ora della partita a tarocchi: certamente era uscito.

Non lo credeva Virginio; ma non osò sincerarsene. Temeva, salendo con un pretesto al primo piano, di farsi cogliere in flagranti di curiosità; temeva sopra tutto d’incontrarsi nell’anticamera con la signorina Fulvia. E restava giù, reggendo l’anima coi denti, non osando neanche salire alla sua cameretta, dove certamente sarebbe stato assai meglio che là a pianterreno, in quella condizione d’animo, alla vista di tutti; restava