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var gli occhi a guardarla? Non una volta sarebbe fuggito da Mercurano, ma dieci, ma cento volte, ma mille.
Per fortuna, il signor Demetrio non aveva proferito il nome del suo segretario; non ne aveva posta la candidatura, in opposizione a quella del conte Spilamberti. Così asseriva il signor Demetrio; e Virginio Lorini, che non aveva mai avuto occasione di dubitare delle parole del suo principale, non aveva ragione per dubitarne allora. Fu anzi ben certo che la signorina Fulvia non avesse fumo di nulla. Essa non aveva dunque da giudicarlo male; non aveva da disprezzarlo, non aveva da riderne.
Con questa certezza nell’anima, sentì di poter essere così forte da affrontare la vista di Fulvia, senza tremare, senza impallidire, senza confondersi. Del resto, per giungere a quel grado di forza, si era anche dato tante volte dello sciocco; si era tanto offeso, flagellato, mortificato nella sua dignità, chiamandola vanità, tracotanza e peggio, che ormai gli pareva d’essere diventato un altro. La maschera, per parere un altro, l’aveva; una maschera superficiale, dozzinale, di cartapesta, ma che per intanto non cambiava colore, non contorceva le fattezze, non contraeva i muscoli, non tradiva nessuno dei più piccoli moti dell’anima. Buona maschera insensibile, composta, rigida, quasi ieratica nell’eccesso della tua stupidaggine, come stai bene al viso, in mezzo a una folla di curiosi, di maligni e di vili! Il mondo ci vede felici e c’invidia, donde non è che un passo all’odiarci: il mondo ci vede dolenti e ci compatisce, donde non è che un passo a disprezzarci: il mondo ci vede calmi, freddi, impassibili, e resta a tutta prima un po’ male: ma poi si rassegna e lascia correre; tanto è fuggifatica, tanto è facile trascurare ciò che non gli è dato d’intendere.
Virginio vide la signorina Fulvia il giorno seguente, alle solite ore, e sorrise. Aveva anche potuto dormire, vinto dalla stanchezza, e non mostrava più gli occhi rossi. E fu così calmo,