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VII.
Buona notte! Virginio passò la sua molto male, usando gli occhi a piangere come un bambino. Tutta la forza d’animo che aveva dovuto logorare stando a quel doloroso discorso col suo principale era l’ultimo avanzo di quella che veniva adoperando da forse due mesi, cioè dal tempo che sull’orizzonte di Mercurano era apparso il signor conte Attilio Spilamberti di San Cesario. Ormai non ne poteva più; doveva dar fuori.
Ed era ben rassegnato, nel fatto; sapeva bene che quello era il suo destino, e lo accettava; lo aveva accettato fin di prima, ascoltando la voce del cuore, che non inganna mai. Non aveva esplorato l’animo di Fulvia; non ne aveva avuto bisogno; la verità gli era apparsa chiara e lampante fin dai primi giorni dopo il ritorno della signorina dal collegio di Lodi. Fulvia Bertòla non era passata impunemente tra le eleganze che si erano affacciate, immagini tentatrici, ed un intelletto come il suo, aperto e vivace, facile ad intenderle e disposto ugualmente ad accoglierle. Per quelle grandezze, per quelle eleganze era nata; le bastava averne avuto un’idea, per riconoscere la sua vocazione. Elevarsi, del resto, è l’aspirazione di tutti; e la donna che non aspiri ad elevarsi, ha forse ancora da nascere.
Virginio non aveva potuto chiuder occhio per tutta la notte, e vide con terrore i primi chiarori del giorno, bene immaginando quante altre angosce quel giorno gli dovesse portare. Balzò dal letto, si lavò il viso una mezza dozzina di volte, disperando sempre di cancellare dagli occhi stanchi la traccia delle sue lagrime, e scese al Bottegone, per ripigliare il suo solito uffizio. Era sempre il primo, del resto, sempre il primo ad attaccare il lavoro, come l’ultimo a smetterlo. Il signor Demetrio scese molto più tardi, ma