La famiglia dell'antiquario/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera del conte Anselmo con tavolini.
Il conte Anselmo e Brighella.
Brighella. Ecco qua. Per tremila scudi la varda quanta gran roba.
Anselmo. Caro Brighella, son fuor di me dall’allegrezza. Qual è la cassa dei crostacei?
Brighella. El numero I° l’è la cassa dei crostacei, dove ghe sarà drento tremila capi de frutti marini, cioè ostreghe, cappe e cose simili, trovade su le cime dei monti.
Anselmo. Questi soli vagliono i tremila scudi.
Brighella. El numero II° l’è una cassa de pesci petrificadi de tutte le sorte1.
Anselmo. Questo sarebbe per la galleria d’un monarca.
Brighella. El numero III° l’è una cassa con una raccolta de mummie d’Aleppo; tutte de animali uno differente dall’altro, fra i quali gh’è un basilisco.
Anselmo. V’è anche il basilisco?
Brighella. E come! L’è grando come un quaggiotto.
Anselmo. Si sa da dove l’abbiano portato?
Brighella. Se sa tutto. L’è nato da un uovo de gallo.
Anselmo. Sì, sì, ho inteso dire che i galli dopo tanti anni fanno un uovo, da cui nasce poi il basilisco. L’ho sempre creduta una favola.
Brighella. No l’è favola, e là drento gh’è la prova della verità.
Anselmo. Brighella, ti sono obbligato. M’hai fatto fare dei preziosi acquisti.
Brighella. Son un omo fatto a posta per sti negozi; gnancora no la me cognosse intieramente; fra poco la me cognosserà meggio. (Ma el me cognosserà in tempo che m’averò messo in salvo mi e sti bezzi che gh’ho cuccà). (da sè, parte)
SCENA II.
Il conte Anselmo, poi Pantalone.
Anselmo. Io ho qui da divertirmi per due o tre mesi. Fino che non ho posto in ordine tutta questa roba, non vado in campagna, non vado in conversazioni, non vado nemmeno fuori di casa. Mi farò portar qui da mangiare. Mi voglio far portar qui un lettino da campagna e dormir qui; così non avrò lo stordimento di quella fastidiosissima mia consorte. Non voglio nessuno, non voglio nessuno.
Pantalone. Sior Conte, se pol vegnir? (di dentro)
Anselmo. Non voglio nessuno.
Pantalone. La senta, ghe xe sior Pancrazio, quel famoso antiquario, (di dentro)
Anselmo. Oh! venga, venga, è padrone. Capperi! Ha saputo che ho fatta questa bella spesa e subito corre.SCENA III.
Pantalone, Pancrazio e detto.
Pantalone. Caro sior Conte, la sa che ghe son bon amigo.
Anselmo. Compatitemi, ero imbarazzato. Signor Pancrazio, che fortuna è la mia che siate venuto a favorirmi?
Pancrazio. Ho saputo che vossignoria ha fatto una bella compra d’antichità e sono venuto, se mi permette, a vedere le sue belle cose.
Pantalone. L’ho menà mi, sior Conte, l’ho menà mi, perchè anca mi ho savesto che l’ha fatto una bella spesa. (Credo che l’abbia buttà i bezzi in canal, e pol esser che me riessa d’illuminarlo). (da sè)
Anselmo. Sentite, signor Pancrcizio, ora posso dire che in questa città niuno possa arrivare alla mia galleria. Ho delle cose preziose.
Pancrazio. Le vedrò volentieri. Vossignoria sa ch’io ne ho cognizione.
Anselmo. È vero; voi siete il più pratico e il più intendente antiquario di Palermo. Date un’occhiata a quelle casse e vedete se son piene di piccoli tesoretti.
Pancrazio. Con sua licenza. (va a vedere nelle casse)
Anselmo. Caro signor Pantalone, compatite se vi ho piantato, quando eravamo in camera colle due pazze. Moriva di voglia di veder queste belle cose.
Pantalone. Sior Conte, possibile che alla so casa no la ghe voggia pensar gnente?
Anselmo. Se ci penso? E come! Ditemi, come è andata la cosa? Come si è terminato il congresso?
Pantalone. Ghe dirò; dopo che la xe andada via ela...
Anselmo. Ebbene, signor Pancrazio, che dite? Sono cose stupende, cose rare, non più vedute?
Pantalone. (Vardè come che el m’ascolta). (da sè)
Pancrazio. Signor Conte, mi permette ch’io parli con libertà?
Anselmo. Sì, dite liberamente il vostro parere.
Pancrazio. Prima di tutto, crede ella ch’io sia un uomo d’onore?
Anselmo. Vi tengo per un uomo illibatissimo, come siete e come vi decanta tutta Palermo.
Pancrazio. Crede ch’io abbia cognizione di queste cose?
Anselmo. Dopo di me, non vi è nessuno meglio di voi.
Pancrazio. Quanto ha pagato tutta questa roba?
Anselmo. Sentite, ma in confidenza, che nessuno lo sappia; l’ho avuta a un prezzo bassissimo2. Per tremila scudi.
Pancrazio. Signor Conte, in confidenza, che nessuno ci senta; questa è roba che non vale tremila soldi.
Anselmo. Come non vale tremila soldi?
Pantalone. (Bella da galantomo!) (da sè)
Anselmo. L’avete bene osservata?
Pancrazio. Ho veduto quanto basta per assicurarmi di ciò.
Anselmo. Ma i crostacei?
Pancrazio. Sono ostriche trovate nell’immondizie, o gettate dal mare quando è in burrasca.
Pantalone. Trovae sui monti del poco giudizio.
Anselmo. E i pesci petrificatì?
Pancrazio. Sono sassi un poco lavorati collo scarpello, per ingannare chi crede.
Pantalone. Ghe sarà anca petrificà e indurio el cervello de qualche antiquario.
Anselmo. E le mummie?
Pancrazio. Sono cadaveri di piccoli cani, e di gatti, e di sorci sventrati e seccati.
Anselmo. Ma il basilisco?
Pancrazio. È un pesce marino che i ciarlatani sogliono accomodare in figura di basilisco, e se ne servono per trattenere i contadini in piazza, quando vogliono vendere il loro balsamo.
Anselmo. Signor Pancrazio, voi m’uccidete, voi mi cavate il cuore. E i quadri, le pitture, le miniature?
Pancrazio. Per quel poco che ho veduto, sono cose che possono valere cento scudi, se vi arrivano.
Anselmo. Dubito, o che vi vogliate prendere spasso di me, o che lo facciate per indurmi a vendervi queste robe a buon mercato; ma v’ingannate, se lo credete.
Pancrazio. Io sono un uomo d’onore. Non son capace d’ingannarvi; ma vi dico bensì che siete stato tradito.
Pantalone. E chi l’ha tradio xe quel baron de Brighella.
Anselmo. Brighella è onorato.
Pantalone. Brighella xe un furbazzo e ghe lo proverò.
Anselmo. Come lo potete dire! Come lo potete provare?
Pantalone. Se recordela dell’Armeno che gh’ha vendù el lume eterno delle piramidi d’Egitto e tutte quell’altre belle cosse?
Anselmo. Me ne ricordo sicuro; e quella pure è stata un’ottima spesa.
Pantalone. Con so bona grazia, l’aspetta un momento: el xe qua, ghel fazzo vegnir. (parte)
Anselmo. Avrà qualche altra cosa rara da vendere.
Pancrazio. Caro signor Conte, mi dispiace sentire ch’ella getti malamente i suoi denari.
Anselmo. Compatitemi, non ne sono ancor persuaso. Brighella mi ha fatto fare questo negozio. Brighella se ne intende quanto voi, e non è capace d’ingannarmi.
Pancrazio. Brighella se ne intende quanto me? Mi fa un bell’onore. Signor Conte, io sono venuto per illuminarla, mosso dall’onestà di galantuomo ed eccitato a farlo dal signor Pantalone. Vossignoria è attorniato da bricconi che l’ingannano e le fanno comprare delle porcherie, e però...
Anselmo. Mi maraviglio; me n’intendo; non sono uno sciocco. (alterato)
Pancrazio. Servitore umilissimo. (parte)
Anselmo. Che caro signor Pancrazio! Parla per invidia. Vorrebbe discreditare la mia galleria, per accreditare la sua. Me n’intendo; conosco; non mi lascio gabbare.
SCENA IV.
Pantalone, Arlecchino e detto.
Pantalone. (Conducendo per mano Arlecchino) Vegnì qua, sior, no ve vergognè, no ve tirè indrio; confessè a sior Conte la bella vendita che gh’avè fatto, e chi ve l’ha fatta far.
Arlecchino. Siori, ve domando perdon...
Anselmo. (Questi è l’Armeno). (da sè) Siete voi l’Armeno?
Arlecchino. Sior sì; son un Armeno da Bergamo.
Anselmo. Come!
Pantalone. Chi v’ha introdotto in sta casa? Parlè. (ad Arlecchino)
Arlecchino. Brighella. (sempre timoroso)
Pantalone. A cossa far?
Arlecchino. A vender le strazze al sior antiquario.
Pantalone. Sentela, patron? (ad Anselmo)
Anselmo. Come, stracci? Il lume etemo...
Arlecchino. L’è una luse da oggio che val do soldi.
Anselmo. Oimè! non è il lume eterno trovato nelle piramidi d’Egitto?
Arlecchino. Stara, stara e mi cuccara.
Anselmo. Ah son tradito, sono assassinato! Ladro infame, anderai prigione.
Pantalone. E1 ladro, el baron xe Brighella, che l’ha menà in casa e s’ha servido de sto martuffo per tor in mezzo el patron.
Arlecchino. E mi che aveva imparà da quel bon maestro, son pò vegnù colle drezze de Lucrezia romana.
Anselmo. Dove sono le treccie di Lucrezia romana?
Pantalone. Eh, no vedela che le xe furbarie? Mi l’ho scoverto e gh’ho tolto de man tutte quelle cargadure che el vegniva a venderghe a ela.
Anselmo. Ah scellerato! Signor Pantalone, mandiamo a chiamare gli sbirri. Facciamolo cacciar prigione.
Pantalone. Mi no voggio altri impegni; l’ho tegnù qua per disingannarla, e mi basta cussì. Va là, tocco de furbazzo. Va lontan de sta casa, e ringrazia el cielo che la te passa cussì.
Arlecchino. Grazie della so carità... (in atto di partire)
Anselmo. Maledetto! ti accopperò. (vuol seguirlo)
Arlecchino. No me cuccara, no me cuccara. (correndo parte)
SCENA V.
Il conte Anselmo e Pantalone.
Pantalone. Cossa disela, sior Conte? Brighella xelo un galantomo?
Anselmo. È un briccone, è un traditore.
Pantalone. Cossa vorla far de sti mobili?
Anselmo. Non saprei... lasciamoli qui, serviranno per accrescere la galleria.
Pantalone. Ah, donca la vol seguitar a tegnir galleria?
Anselmo. Ma che cosa vorreste ch’io facessi, senza questo divertimento?
Pantalone. Vorria che l’abbadasse alla so fameggia. Vorria che se giustasse ste differenze tra niora e madonna.
Anselmo. Bene, aggiustiamole.
Pantalone. Se ghe vorla metter de cuor?
Anselmo. Mi ci metterò con tutto lo spirito.
Pantalone. Se la farà cussì, no mancherò de assisterla dove che poderè. Me preme mia fia, no gh’ho altri al mondo che ela. La vorave veder quieta e contenta; se se pol, ben; se no, sala cossa che farò? La torrò suso e la menerò a casa mia.
Anselmo. Signor Pantalone, preme anche a me la mia pace. Voglio che ci mettiamo in quest’affare con tutto lo spirito.
Pantalone. La me consola; me vien tanto de cuor.
Anselmo. Caro amico, giacchè avete dell’amore per me, fatemi una finezza.
Pantalone. Comandela qualcossa? Son a servirla.
Anselmo. Prestatemi otto o dieci zecchini, che poi, ricuperando quei di Brighella, ve li renderò.
Pantalone. La toga e la se serva.
Anselmo. Ve li renderò.
Pantalone. Me maraveggio. Vago da mia fia. La vaga ela dalla siora contessa, e vedemo de pacificarle.
Anselmo. Operate voi, e opererò ancor io.
Pantalone. Vorave aver da giustar un fallimento in piazza, piuttosto che trattar una pase tra niora e madonna. (parte)
Anselmo. Giacchè ho questi dieci zecchini, non voglio tralasciare di comprare quei due ritratti del Petrarca e madonna Laura. In questi son sicuro che spendo bene il denaro. Non mi lascerò più ingannare. Imparerò a mie spese. Imparerò a mie spese. (parte)
SCENA VI3.
Camera con tre porte, due laterali ed una in prospetto.
Il Cavaliere da una parte laterale, il Dottore dall’altra; poi tutti i personaggi vanno e vengono in questa scena, e tutte le loro entrate e tutte le loro sortite non fanno che una scena sola.
Dottore. Caro signor Cavaliere, giacchè siamo qui soli, e che nessuno ci sente, mi permette ch’io le dica quattro parole, da suo servitore e da buon amico?
Cavaliere. Dite pure, v’ascolto.
Dottore. Non sarebbe meglio che vossignoria per la parte della nuora, ed io per la parte della suocera, procurassimo di far questa pace?
Cavaliere. Io non ho questa autorità sopra la signora Doralice.
Dottore. Nemmeno io sopra la signora Isabella, ma spero che, se le parlerò, si rimetterà in me.
Cavaliere. Così spererei anch’io della Contessina.
Dottore. Facciamo una cosa, proviamo, e se ci riesce di far questo bene, avremo il merito di mettere in quiete, in concordia tutta questa famiglia.
Cavaliere. Benissimo, vado a ricevere le commissioni dalla signora Doralice.
Dottore. Ed io nello stesso tempo dalla signora Isabella.
Cavaliere. Attendetemi, che ora torno. (entra nell’appartamento di Doralice4)
Isabella. (Esce) Signor Dottore, che discorsi avete avuti col Cavaliere?
Dottore. Tanto egli che io desideriamo di procurare la sua quiete, la sua pace, la sua tranquillità.
Isabella. Fino che colei sta in questa casa, non l’avrò mai. Ditemi, il Cavaliere continua5 a dichiararsi per Doralice?
Dottore. Egli è un galantuomo, che fa per una e per l’altra parte. Mi creda. Si fidi di me, si rimetta in me, e le prometto che ella sarà contenta.
Isabella. Benissimo, io mi rimetto in voi.
Dottore. Quello che farò io, sarà ben fatto?
Isabella. Sarà ben fatto.
Dottore. Lo approverà?
Isabella. L’approverò.
Dottore. Dunque stia quieta, e non pensi altro.
Isabella. Avvertite però di non risolver niente, senza ch’io lo sappia.
Dottore. In questa maniera ella non si rimette in me.
Isabella. Vi lascio la libertà di trattare.
Dottore. Ma non di concludere?
Isabella. Signor no, di concludere no.
Dottore. Dunque tratteremo.
Isabella. Il primo patto, che Doralice vada fuori di questa casa.
Dottore. E la dote?
Isabella. Prima la mia e poi la sua.
Dottore. S’ha da rovinare la casa?
Isabella. Rovinar la casa, ma via Doralice.
Dottore. Eccola.
Isabella. Temeraria! Ha tanto ardire di venirmi davanti gli occhi? Il sangue mi bolle. Non la voglio vedere. Venite con me. (entra nel suo appartamento)
Dottore. Vengo. Ho paura che non facciamo niente.
Doralice. (Entra, e il Cavaliere corre dal suo appartamento) Vedete! Io vengo per parlare con lei ed ella mi fugge.
Cavaliere. Giacchè siete tanto discreta e ragionevole, mi date licenza che, salve tutte le vostre convenienze, tratti l’aggiustamento con vostra suocera?
Doralice. Sì, mi farete piacere.
Cavaliere. Volete rimettervi in me?
Doralice. Vi do ampia facoltà di far tutto.
Cavaliere. Mi date parola?
Doralice. Ve la do, con patto però che l’aggiustamento sia fatto a modo mio.
Cavaliere. Prescrivetemi le condizioni.
Doralice. Una delle due, o che io debba essere la padrona in questa casa, senza che la suocera se ne abbia da ingerire punto, ne poco; o ch’io voglio la mia dote e tornarmene in casa di mio padre.
Cavaliere. Troveremo qualche temperamento.
Doralice. Sì, via, trovate de’ mezzi termini, de’ buoni temperamenti; ma ricordatevi che non voglio restare al disotto una punta di spilla. (va nel suo appartamento)
Cavaliere. Oh, questo è un grande imbarazzo! Ma ecco il Dottore. Sentiamo che cosa dice della contessa Isabella.
Dottore. (Esce dall’appartamento d’Isabella) Signor Cavaliere, ha parlato colla signora Doralice?
Cavaliere. Signor sì, ho parlato ed ho facoltà di trattare.
Dottore. Io pure ho l’istessa facoltà da quest’altra.
Cavaliere. Dunque trattiamo. Vi faccio a prima giunta un progetto alternativo. O la signora Doralice vuol esser anch’ella padrona in questa casa, o vuole la sua dote e se n’anderà con suo padre.
Dottore. Rispondo per la signora Contessa. Se vuole andare, se ne vada; ma prima s’ha da levare la dote della suocera, e poi quella della nuora.
Cavaliere. Facciamo così: che la signora Isabella dia il maneggio alla nuora di quattrocento scudi l’anno, e penserà ella alle spese per sè e per la cameriera.
Dottore. Con licenza, ora torno. (va da Isabella, poi torna)
Cavaliere. Non può risolvere. Anch’egli ha lo stesso arbitrio che ho io. Questa sarebbe la meglio. Ognun pensar per sè.
Dottore. (Ritorna dall’appartamento d’Isabella) Quattrocento scudi non si possono accordare. Se n’accorderanno trecento.
Cavaliere. Attendetemi, che ora6 vengo. (va da Doralice)
Dottore. È plenipotenzario anch’egli, come sono io.
Pantalone. (Esce dalla porta di mezzo) Sior Dottor, la riverisse. (incamminandosi verso l’appartamento di Doralice)
Dottore. Dove, signor Pantalone?
Pantalone. Da mia fia.
Dottore. Ora si tratta l’aggiustamento fra lei e la suocera.
Pantalone. E chi lo tratta sto aggiustamento?
Dottore. Per la sua parte il Cavaliere del Bosco.
Pantalone. Come gh’intrelo sto sior Cavalier?
Cavaliere. (Ritorna dall’appartamento di Doralice) L’aggiustamento è fatto.
Pantalone. Sì? come, cara ela?
Anselmo. (Esce dalla porta di mezzo.)
Dottore. Signor Conte, l’aggiustamento è fatto.
Anselmo. Ne godo, ne godo; e come?
Cavaliere. La signora Doralice si contenta di trecento scudi l’anno.
Dottore. E la signora contessa Isabella glieli accorda.
Pantalone. Xela matta mia fia? Adesso mo. (va da Doralice, poi torna)
Anselmo. È spiritata mia moglie; ora mi sentirà. (va da Isabella)
Cavaliere. Questi vecchi vogliono guastare il nostro maneggio. (al Dottore)
Dottore. Questa era una convenzione onesta, perchè, per dirla, la signora Doralice è troppo inquieta.
Cavaliere. Ha ragione se vede di mal occhio la suocera, per tutto quello che ha saputo dire di lei.
Dottore. Anzi la nuora ha strapazzata la suocera fieramente.
Cavaliere. Siete male informato.
Dottore. Ehi, Colombina.
Colombina. 7 Signore.
Dottore. Dimmi un poco, che cosa ha detto la signora Doralice della contessa Isabella?
Colombina. Oh! io non so nulla.
Cavaliere. Non crediate a costei, mentre ella alla signora Doralice ha detto tutto il male della sua padrona.
Colombina. Io non ho detto nulla.
Cavaliere. Credetemelo, da cavaliere.
Dottore. Dunque la ciarliera di Colombina ha messo male fra queste due signore.
Cavaliere. Senz’altro.
Dottore. Vado dalla contessa Isabella. (va da Isabella)
Colombina. Avete fatto una bella cosa! (al Cavaliere)
Cavaliere. Bricconcella, tu sei stata quella che ha detto male della nuora alla suocera? Ora vado dalla signora Doralice a scuoprire le tue iniquità. (va da Doralice)
Colombina. Oh, questa è bella! Se mi pagano acciò dica male, non l’ho da fare?
Anselmo. (Ritorna dall’appartamento d’Isabella) Tu, disgraziata, sei cagione di tutto. (va da Doralice)
Colombina. Anche questo stolido l’ha con me.
Dottore. (Dall’appartamento d’Isabella) Or ora si scoprirà Ogni cosa. (va nell'appartamento di Doralice)
Colombina. Mi vogliono tutti mangiare.
Pantalone. (Dall’appartamento di Doralice) Xe vero, desgraziada, che ti ha dito mal de mia fia alla to parona?
Colombina. Io non so niente.
Pantalone. Aspetta, aspetta. (va da Isabella)
Colombina. Credono di farmi paura.
Anselmo. (Dall’appartamento di Doralice) Or ora ho scoperto tutto. Te n’accorgerai. (va da Isabella)
Colombina. Principio ad avere un poco di paura.
Dottore. (Dall’appartamento di Doralice) Non me lo sarei mai creduto: oh che lingua! (va da Isabella)
Colombina. Sono in cattura davvero.
Cavaliere. (Dall’appartamento di Doralice) Colombina, sei scoperta. Tu sei quella che hai riportato le ciarle da una parte e dall’altra. Ora tutte sono contro di te e vogliono che tu ne paghi la pena. Ti consiglio andartene.
Colombina. Ma dove? povera me! Dove?
Cavaliere. Presto, va nella tua camera e chiuditi dentro. Vedrò io d’aiutarti.
Colombina. Per amor del cielo, non mi abbandonate.
Cavaliere. Presto, che vien gente.
Colombina. Maledetta fortuna! È stato quel zecchino al mese, che m’ha acciecata. (parte per la porta di mezzo)
Cavaliere. Ora che si è scoperta la malizia di costei, è più facile l’accomodamento.
Giacinto. (Esce dalla porta di mezzo) Cavaliere, che ha Colombina che piange e pare spaventata?
Cavaliere. È stata scoperta essere quella che ha seminato discordie fra suocera e nuora, ed ora fra esse trattasi l’aggiustamento.
Giacinto. Voglia il cielo che segua!
Dottore. (Dall’appartamento d’Isabella) La signora Isabella è persuasa di tutto e se la signora Doralice verrà nella sua camera a riverirla, l’abbraccerà con amore e con tenerezza.
Cavaliere. Vado a dirlo alla signora Doralice. (va da Doralice)
Giacinto. Dunque mia madre è placata?
Dottore. Placatissima; tutto è accomodato.
Giacinto. Sia ringraziato il cielo!
Cavaliere. (Dall’appartamento di Doralice) La signora Doralice è prontissima a ricevere l’abbraccio della signora Isabella. Ma che venga ella nella sua camera.
Dottore. Glielo dirò, ma dubito non si farà nulla. (va da Isabella)
Giacinto. Mi pare veramente che tocchi a mia moglie.
Cavaliere. Pretende ella d’essere l’offesa.
Pantalone. (Dall’appartamento d’Isabella) Mia fia no vol vegnir da so madonna? Aspettè, aspettè, che anderò mi a farla vegnir, e la vegnirà. (va da Doralìce)
Giacinto. Vedete? Anche suo padre le dà il torto.
Cavaliere. Il buon vecchio fa per metter bene.
Anselmo. (Dall’appartamento d’Isabella) Oh questa sì ch’è bella! La suocera anderà ad umiliarsi alla nuora?
Pantalone. (Dall’appartamento di Doralice) La xe giustada. Mia fia vegnirà da siora Contessa; basta che la ghe vegna incontra co la la vede, per darghe coraggio.
Anselmo. Bene, bene, lo farà. Vado a dirlo a mia moglie. (va da Isabella)
Pantalone. Vardè cossa che ghe vol a unir ste do donne!
Cavaliere. Voi l’avete ridotta a fare un bel passo. (a Pantalone)
Giacinto. Lodo la vostra prudenza. (a Pantalone)
Dottore. (Dall’appartamento d’Isabella) Signor Pantalone, dite pure a vostra figlia che non s’incomodi altrimenti.
Pantalone. Perchè?
Dottore. Perchè la signora Contessa dice così che essendo dama, non si deve muovere dalla sedia per venire a riceverla.
Cavaliere. Ora vado io a dirlo alla signora Doralice. (va da Doralice)
Pantalone. Vardè che catarri, vardè che freddure!
Giacinto. Anderò io da mia madre, e vedrò di persuaderla.
Pantalone. Sì, caro fio, fè sto ben.
Giacinto. Mia madre a me non dirà di no. (va da Isabella)
Pantalone. E a vu mo la ve par una bella cossa? (al Dottore)
Dottore. La pretensione non è stravagante.
Pantalone. Mia fìa no la gh’ha tante pretension.
Cavaliere. (Dall’appartamento di Doralice) Dice la signora Doralice, che non è dama, ma ha portato ventimila scudi di dote, e non vuol essere strapazzata.
Dottore. Vado subito a dirlo alla signora Contessa.
Pantalone. Vegnì qua, fermeve.
Dottore. Viene o non viene?
Doralice. (Sulla porta; la contessa Isabella dal suo appartamento) Signor no, non vengo. Dite alla vecchia, che se vuol, venga lei.
Isabella. Sfacciatella, a me vecchia?
Doralice. Signora giovinetta, la riverisco. (parte)
Isabella. O via lei, o via io. (parte)
Pantalone. Oh poveretto mi! Coss’è sta cossa?
Cavaliere. La signora Doralice ha ragione.
Dottore. Avete sentito vostra figlia? (a Pantalone)
Pantalone. Oh che donne! Oh che donne!
Anselmo. (Dall’appartamento d’Isabella) Le mie medaglie, le mie medaglie. Mai più non m’intrico con queste pazze. Dite quel che volete, voglio spendere il mio tempo nelle mie medaglie. (parte per la porta di mezzo)
Pantalone. Oh che matti! Oh che casa da matti!
Giacinto. (Dalla camera d’Isabella) Signor suocero, son disperato.
Pantalone. Coss’è sta?
Giacinto. Avete sentito? Mia moglie ha detto vecchia a mia madre; mia madre ha detto sfacciatella a mia moglie. Vi è il diavolo in questa casa, vi è il diavolo, (parte per la porta di mezzo)
Pantalone. Se ghe xe el diavolo, che el ghe staga. No so cossa farghe, gh’ho tanto de testa. No so in che mondo che sia.
Cavaliere. Anderò io a placare la signora Doralice.
Dottore. E io anderò a calmare la signora Isabella.
Pantalone. E mi credo che vualtri siè quelli che le fazza deventar sempre pezo.
Cavaliere. Io sono un cavaliere onorato.
Dottore. Io non sono un ragazzo.
Cavaliere. Saprà la signora Doralice il torto che voi mi fate. (va da Doralice)
Dottore. Voglio dire alla signora Contessa in qual concetto mi tiene il signor Pantalone. (va da Isabella)
Pantalone. Oh che bestie 8! Ma stimo quel vecchio matto. Se pol dar! Come che el se mette anca elo in riga de protettor! E mia fia col cavalier che la serve? E quel matto de mio zenero lo comporta? Questi xe i motivi delle discordie de sta fameggia. Donne capricciose; marii senza cervello; serventi per casa. Bisogna per forza che tutto vaga a roverso. (parte)
SCENA VII9.
Altra camera del conte Anselmo.
Il conte Anselmo, poi il contino Giacinto.
Anselmo. Se avessi atteso solamente alle medaglie e ai cammei, non mi sarebbe successo quello che mi è successo. Maledetto Brighella! Mi ha rovinato.
Giacinto. Brighella non si trova più; egli è partito di Palermo, e non si sa per qual parte.
Anselmo. Pazienza! Mi ha rovinato.
Giacinto. Ah! signor padre, siamo rovinati tutti. Dei ventimila scudi non ve ne sono più. Alla raccolta vi è tempo. E per mangiare ci converrà far dei debiti.
Anselmo. Se lo dico; Brighella mi ha rovinato.
Giacinto. E per condimento delle nostre felicità, abbiamo una moglie per uno, che formano una bella pariglia.
Anselmo. Io non ci penso più.
Giacinto. E chi ci ha da pensare?
Anselmo. Oh! non ci penso più. M’hanno fatto impazzire tanto che basta.
SCENA VIII10.
Pantalone e detti.
Pantalone. Con so bona grazia.
Anselmo. (Eccolo qui il mio tormento). (da sè)
Pantalone. Sior Conte, sior zenero, i me compatissa, se vegno avanti arditamente. Se tratta de assae, se tratta de tutto, e qua bisogna trovarghe qualche remedio.
Anselmo. Io lascio fare a voi.
Pantalone. Ella vol tender alle so medaggie.
Anselmo. Fin che posso, non le voglio lasciare.
Pantalone. E vu, sior zenero, cossa diseu? Ve par che se possa tirar avanti cussì? Ve par che vaga ben i affari della vostra casa?
Giacinto. Io dico che in poco tempo ci ridurremo miserabili più di prima.
Pantalone. Sior Conte, sentela cossa che dise so fio?
Anselmo. Lo sento, ma non so come rimediarvi.
Pantalone. Se vorla redur a non aver da magnar?
Anselmo. Ci sono l’entrate.
Pantalone. Co le se magna in erba, no le frutta el terzo. E de ste care niora e madonna, cossa disela?
Anselmo. Io dico che non si può far peggio.
Pantalone. No la pensa a remediarghe?
Anselmo. Io non ci vedo rimedio.
Pantalone. Che lo vederave ben mi, se gh’avesse un poco d’autorità in sta casa.
Anselmo. Caro signor Pantalone, io vi do tutta l’autorità che volete.
Giacinto. Sì, caro signor suocero, prendete voi l’economia della nostra casa; assisteteci per amor del cielo; fatelo per vostra figlia, per il vostro sangue.
Pantalone. Me despiase che anca ela xe mezza matta. Ma in casa mia no la giera cussì; la s’ha fatto dopo che la xe qua, onde spereria con facilità redurla in tel stato de prima.
Anselmo. Anche mia moglie una volta era una buona donna; ora è diventata un serpente.
Pantalone. Credeme, patroni, che ste donne le xe messe suso da sti so conseggieri.
Anselmo. Credo anch’io ch’ella sia così.
Giacinto. Ne dubito ancora io.
Pantalone. Qua ghe vol resoluzion. Vorla che mi ghe fazza da fattor, da spendidor, da mistro de casa, senza vadagnar un soldo, e solamente per l’amor che porto a mia fia, a mio zenero e a tutta sta casa?
Giacinto. Lo volesse il cielo!
Anselmo. Non mi levate le mie medaglie, e per il resto vi do amplissima facoltà di far tutto.
Pantalone. Do righe de scrittura, che me fazza arbitro del manizo e dell’economia della casa, e m’impegno che in pochi anni la se vederà qualche centener de zecchini; e criori ghe ne sarà pochi.
Anselmo. Fate la carta, ed io la sottoscriverò.
Pantalone. La carta non ho aspettà adesso a farla; xe un pezzo che vedo el bisogno che ghe ne giera. Gh’ho da zontar11 do o tre capitoletti, e credo che l’anderà ben. Andemola a lezer in tel so mezzà.
Anselmo. Non vi è bisogno di leggerla. La sottoscrivo senz’altro.
Pantalone. Sior no. Voi che la la senta, e che la la sottoscriva alla presenza de testimoni, e cussì anca el sior zenero.
Giacinto. Lo farò con tutto il cuore.
Anselmo. Andiamo; ma ci siamo intesi: il primo patto, che non mi tocchiate le mie medaglie. (parte)
Pantalone. Poverazzo! Anche questa xe una malattia: chi vol varirlo, non bisogna farlo violentemente, ma un pochetto alla volta.
Giacinto. Caro signor suocero, vi raccomando la quiete della nostra famiglia. Mio padre non è atto per questa briga; fate voi da capo di casa, e son certo che, se il capo avrà giudizio, tutte le cose anderanno bene. (parte)
Pantalone. Questa xe la verità. El capo de casa xe quello che fa bona e cattiva la fameggia. Vôi veder se me riesse de far sto ben, de drezzar sta barca, e za che co sta donne no se pol sperar gnente colle bone, voi provarme colle cattive12. (parte)SCENA IX13.
La contessa Isabella ed il Dottore.
Isabella. Non mi parlate più di riconciliarmi con Doralice, perchè è impossibile.
Dottore. Ella ha ragione, signora Contessa.
Isabella. Può darsi una impertinente maggiore di questa?
Dottore. È una petulante.
Isabella. Assolutamente, assolutamente la voglio fuori di questa casa.
Dottore. Savissima risoluzione.
Isabella. Io sono la padrona.
Dottore. È verissimo.
Isabella. E non è degna di stare in casa con me.
Dottore. Non è degna.14
Isabella. Dottore, se mio marito non la manda via, voglio che le facciate fare un precetto.
Dottore. Ma! vuole accendere una lite?
Isabella. Non siete capace di sostenerla?
Dottore. Per me la sosterrò; ma s’ella anderà via, vorrà la dote.
Isabella. La dote, la dote! Sempre si mette in mezzo la dote. V’ho detto un’altra volta, che prima vi è la mia.
Dottore. È verissimo, ma la dote della signora Doralice ascende a ventimila scudi, e la sua non è che di due mila.
Isabella. Siete un ignorante, non sapete niente.
Dottore. (Già, quando non si dice a modo suo, si comparisce ignorante). (da sè)
SCENA X15.
Pantalone, il conte Anselmo e detti.
Isabella. Che cosa c’è, signori miei? qualche altra bella novità al solito?
Anselmo. La novità la sentirete or ora.
Pantalone. La compatissa, se vegno a darghe un poco d’incomodo.
Isabella. Vostra figlia ha poco giudizio.
Pantalone. Adessadesso la sarà qua anca ela.
Isabella. Ella qui? Come16 c’entra nelle mie camere?
Anselmo. Deve venire per un affar d’importanza.
Isabella. E non vi è altro luogo che questo?
Pantalone. Avemo fatto per no incomodarla ela fora della so camera.
Isabella. La riceverò come merita.
Pantalone. La la riceva come che la vol, che n’importa.
SCENA ULTIMA.
Doralice, Giacinto, il Cavaliere del Bosco e detti.
Cavaliere. Servitor umilissimo di lor signori17.
Anselmo. Sediamo, sediamo. (tutti siedono)
Doralice. Si può sapere per che cosa mi avete condotta qui? (a Giacinto)
Giacinto. Or ora lo saprete.
Anselmo. Moglie mia carissima, nuora mia dilettissima, sappiate ch’io non sono più capo di casa.
Isabella. Già si sa, quest’impiccio ha da toccare a me.
Anselmo. Non dubitate, l’impiccio non tocca a voi. Il signor Pantalone ha assunto l’impegno di regolare la nostra casa. Mio figlio ed io abbiamo cedute a lui tutte le nostre azioni e ragioni, e abbiamo sottoscritto alcuni capitoli, che ora anche voi sentirete.
Isabella. Questo è un torto che fate a me.
Doralice. In quanto a questo poi, in mancanza del capo di casa, tocca a me.
Isabella. Io sono la padrona principale.
Dottore. Brava!18
Pantalone. Orsù, un poco de silenzio. Mi lezerò i capitoli della convenzion fermada e sottoscritta, e che i l’ascolta, perchè ghe xe qualcossa per tutti. Capitoli convenzionali. Primo.
Anselmo. Che io possa divertirmi colle medaglie.
Pantalone. Primo, che Pantalon19 dei Bisognosi abbia da riscuotere tutte l’entrate appartenenti alla casa del conte Anselmo Terrazzani, tanto dì città che di campagna.
Isabella. E consegnar il denaro o a mio marito, o a me.
Doralice. (La signora economa!) (da sè)
Pantalone. Secondo, che Pantalon20 abbia da provveder la casa di detto conte Anselmo di vitto e vestito a tutti della casa medesima.
Dottore. Ho bisogno di tutto, che non ho niente di buono.
Pantalone. Terzo, che sia in arbitrio di detto Pantalon di procurar i mezzi per la quiete della famiglia, e sopra tutto per far che stiano in pace la suocera e la nuora di detta casa.
Isabella. È impossibile, è impossibile.
Doralice. È un demonio, è un demonio.
Pantalone. Quarto, che nè l’una ne l’altra di dette due signore abbiano d’avere amicizie continue e fisse, e quella che ne volesse avere, possa essere obbligata andar ad abitare in campagna.
Isabella. Oh, questo è troppo!
Doralice. Questo capitolo offende la civiltà.
Cavaliere. Questo capitolo offende me. L’intendo, signori miei, l’intendo; e giacchè vedo che la mia servitù colla signora Doralice si rende a voi molesta, parto in questo punto, mentre un cavalier ben nato non deve in verun modo contribuire all’inquetudine delle famiglie. (Mai più vado in veruna casa, ove vi siano suocera e nuora). (da sè, parte)
Doralice. Se è andato via il Cavaliere, non resterà nemmeno il Dottore.
Pantalone. Cossa disela, sior Dottor, hala visto con che prudenza ha opera el sior Cavalier?
Isabella. Il signor Dottore non ha da partire di casa mia.
Dottore. La nostra è amicizia vecchia.
Pantalone. Giusto per questo la s’averia da fenir.
Dottore. La finirò; anderò via e non ci tornerò più; ma vorrei sapere per che causa con una sì bella frase si licenzia di casa un galantuomo della mia sorta.
Pantalone. Co nol savè, ve lo dirò mi, sior. Perchè vualtri che volè far i ganimedi, no sè boni da altro che da segondar i mattezzi21.
Dottore. Ho secondato la signora contessa Isabella, perchè, quando si ha della stima per una persona, non le si può contraddire. Vado via, signora Contessa.
Isabella. L’ho sempre detto che siete un dottore senza spirito e senza dottrina.
Dottore. Sentono, miei signori? Dopo che ho l’onore di servirla, queste sono le finezze che ho sempre avute. (parte)
Pantalone. Andemo avanti coi capitoli. Quinto, che ste due signore suocera e nuora, per maggiormente conservar la pace fra loro, abbiano d’abitare in due diversi appartamenti, una di sopra ed una di sotto.
Isabella. Quello di sopra lo voglio io.
Doralice. Io prenderò quello di sotto, che farò meno scale.
Pantalone. Sentiu? Le se scomenza a accordar. Sesto, che si licenzi di casa Colombina.
Isabella. Sì, sì, licenziarla.
Doralice. Sì, mandarla via.
Pantalone. Anca qua le xe d’accordo. Via, me consolo; da brave, alla presenza dei so maridi, che le se abbrazza, che le se basa in segno de pase.
Isabella. Oh! questo poi no.
Doralice. Non sarà mai vero.
Pantalone. Via, quella che sarà la prima a abbrazzar e basar quell’altra, la gh’averà sto anello de diamanti. (mostra un anello)
Isabella e Doralice. (Tutte due s’alzano un poco in atto di andar ad abbracciar l’altra, poi si pentono e tornano a sedere.)
Isabella. (Piuttosto crepare!) (da sè)
Doralice. (Piuttosto senza anelli tutto il tempo di vita mia!) (da sè)
Pantalone. Gnanca per un anello de diamanti?
Anselmo. Se è antico, lo prenderò io.
Pantalone. Orsù, vedo che xe impossibile de far che le se abbrazza, che le se basa, che le se pacifica, e se le lo fasse, le lo farave per forza, e doman se tomerave da capo. Avè sentio i capitoli; mi son el direttor de sta casa, e mi penserò a provveder tutto e no lasserò mancar el bisogno. Sior Conte, che el tenda pur alle so medaggie, e ghe fazzo un assegnamento de cento scudi all’anno per soddisfarse. Sior zenero m’agiuterà a tegnir l’economia della casa e cussì l’imparerà. Vualtre do se stae nemighe per causa de una serva pettegola e de do conseggieri adulatori e cattivi; remosse le cause, sarà remossi i effetti. Siora contessa Isabella, che la vaga in tel so appartamento de sora, mia fia in quel de sotto. Ghe darò una cameriera22 per una, ghe farò per un poco tola separada, e no vedendose e non trattandose, pol esser che le se quieta; e questo xe l’unico remedio per far star in pase la niora e la madonna.
Fine della Commedia.
Note
- ↑ Bett., Pap. ecc. aggiungono: «e fra i altri gh’è un bramzin impetrido colle baìse rosse, che le par de coral». - Baìse, branchie: v. Boerio.
- ↑ Bett.: a un prezzo disfatto.
- ↑ Questa lunghissima scena è suddivisa in nove scene nelle edd. Bettinelli, Paperini ecc., precedenti all’ed. Pasquali: come si vede nell’Appendice.
- ↑ In tutte le edd. del Settecento le didascalie della scena presente sono disposte in maniera meno comoda per i lettori, come si può vedere nell’Appendice.
- ↑ Bett., Pap., Pasq. ecc.: continova.
- ↑ Zatta: or ora.
- ↑ (Esce dalla camera d’Isabella)
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Oh che mazzai?
- ↑ Questa è la sc. XV nelle antiche edd. Bett., Pap. ecc.
- ↑ Sc. XVI delle edd. Bett, Pap. ecc.
- ↑ Aggiungere.
- ↑ Le edd. Bett., Pap. ecc. aggiungono: Per el più le donne le xe cussì, per farle trottar, bisogna ponzerle.
- ↑ Sc. XVII delle edd. Bett., Pap. ecc.
- ↑ Le edd. Bett., Pap. ecc. aggiungono: «Isab. Se non fosse perchè perchè, le darei delli schiaffi. Dott. E sariano ben dati».
- ↑ Sc. XVIII delle edd. Bett., Pap. ecc.
- ↑ Bett.: cosa.
- ↑ Le edd. Bett, Pap. ecc. aggiungono: «Isab. Che ne dite? ha sempre il Cavaliere al fianco, al Dottore».
- ↑ L’ed. Bett. aggiunge: «Dor. Io ho liberate l’entrate colla mia dote. Cav. È vero, è vero».
- ↑ Bett., Pap. ecc.: che Domino Pantalon.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: che Domino Pantalon.
- ↑ Bett., Pap. ecc. aggiungono: delle povere donne.
- ↑ Bett.: camariera.