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LA FAMIGLIA DELL'ANTIQUARIO | 369 |
SCENA III.
Pantalone, Pancrazio e detto.
Pantalone. Caro sior Conte, la sa che ghe son bon amigo.
Anselmo. Compatitemi, ero imbarazzato. Signor Pancrazio, che fortuna è la mia che siate venuto a favorirmi?
Pancrazio. Ho saputo che vossignoria ha fatto una bella compra d’antichità e sono venuto, se mi permette, a vedere le sue belle cose.
Pantalone. L’ho menà mi, sior Conte, l’ho menà mi, perchè anca mi ho savesto che l’ha fatto una bella spesa. (Credo che l’abbia buttà i bezzi in canal, e pol esser che me riessa d’illuminarlo). (da sè)
Anselmo. Sentite, signor Pancrcizio, ora posso dire che in questa città niuno possa arrivare alla mia galleria. Ho delle cose preziose.
Pancrazio. Le vedrò volentieri. Vossignoria sa ch’io ne ho cognizione.
Anselmo. È vero; voi siete il più pratico e il più intendente antiquario di Palermo. Date un’occhiata a quelle casse e vedete se son piene di piccoli tesoretti.
Pancrazio. Con sua licenza. (va a vedere nelle casse)
Anselmo. Caro signor Pantalone, compatite se vi ho piantato, quando eravamo in camera colle due pazze. Moriva di voglia di veder queste belle cose.
Pantalone. Sior Conte, possibile che alla so casa no la ghe voggia pensar gnente?
Anselmo. Se ci penso? E come! Ditemi, come è andata la cosa? Come si è terminato il congresso?
Pantalone. Ghe dirò; dopo che la xe andada via ela...
Anselmo. Ebbene, signor Pancrazio, che dite? Sono cose stupende, cose rare, non più vedute?
Pantalone. (Vardè come che el m’ascolta). (da sè)
Pancrazio. Signor Conte, mi permette ch’io parli con libertà?
Anselmo. Sì, dite liberamente il vostro parere.