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380 ATTO TERZO

Dottore. Glielo dirò, ma dubito non si farà nulla. (va da Isabella)

Giacinto. Mi pare veramente che tocchi a mia moglie.

Cavaliere. Pretende ella d’essere l’offesa.

Pantalone. (Dall’appartamento d’Isabella) Mia fia no vol vegnir da so madonna? Aspettè, aspettè, che anderò mi a farla vegnir, e la vegnirà. (va da Doralìce)

Giacinto. Vedete? Anche suo padre le dà il torto.

Cavaliere. Il buon vecchio fa per metter bene.

Anselmo. (Dall’appartamento d’Isabella) Oh questa sì ch’è bella! La suocera anderà ad umiliarsi alla nuora?

Pantalone. (Dall’appartamento di Doralice) La xe giustada. Mia fia vegnirà da siora Contessa; basta che la ghe vegna incontra co la la vede, per darghe coraggio.

Anselmo. Bene, bene, lo farà. Vado a dirlo a mia moglie. (va da Isabella)

Pantalone. Vardè cossa che ghe vol a unir ste do donne!

Cavaliere. Voi l’avete ridotta a fare un bel passo. (a Pantalone)

Giacinto. Lodo la vostra prudenza. (a Pantalone)

Dottore. (Dall’appartamento d’Isabella) Signor Pantalone, dite pure a vostra figlia che non s’incomodi altrimenti.

Pantalone. Perchè?

Dottore. Perchè la signora Contessa dice così che essendo dama, non si deve muovere dalla sedia per venire a riceverla.

Cavaliere. Ora vado io a dirlo alla signora Doralice. (va da Doralice)

Pantalone. Vardè che catarri, vardè che freddure!

Giacinto. Anderò io da mia madre, e vedrò di persuaderla.

Pantalone. Sì, caro fio, fè sto ben.

Giacinto. Mia madre a me non dirà di no. (va da Isabella)

Pantalone. E a vu mo la ve par una bella cossa? (al Dottore)

Dottore. La pretensione non è stravagante.

Pantalone. Mia fìa no la gh’ha tante pretension.

Cavaliere. (Dall’appartamento di Doralice) Dice la signora Doralice, che non è dama, ma ha portato ventimila scudi di dote, e non vuol essere strapazzata.

Dottore. Vado subito a dirlo alla signora Contessa.