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384 | ATTO TERZO |
Pantalone. Qua ghe vol resoluzion. Vorla che mi ghe fazza da fattor, da spendidor, da mistro de casa, senza vadagnar un soldo, e solamente per l’amor che porto a mia fia, a mio zenero e a tutta sta casa?
Giacinto. Lo volesse il cielo!
Anselmo. Non mi levate le mie medaglie, e per il resto vi do amplissima facoltà di far tutto.
Pantalone. Do righe de scrittura, che me fazza arbitro del manizo e dell’economia della casa, e m’impegno che in pochi anni la se vederà qualche centener de zecchini; e criori ghe ne sarà pochi.
Anselmo. Fate la carta, ed io la sottoscriverò.
Pantalone. La carta non ho aspettà adesso a farla; xe un pezzo che vedo el bisogno che ghe ne giera. Gh’ho da zontar1 do o tre capitoletti, e credo che l’anderà ben. Andemola a lezer in tel so mezzà.
Anselmo. Non vi è bisogno di leggerla. La sottoscrivo senz’altro.
Pantalone. Sior no. Voi che la la senta, e che la la sottoscriva alla presenza de testimoni, e cussì anca el sior zenero.
Giacinto. Lo farò con tutto il cuore.
Anselmo. Andiamo; ma ci siamo intesi: il primo patto, che non mi tocchiate le mie medaglie. (parte)
Pantalone. Poverazzo! Anche questa xe una malattia: chi vol varirlo, non bisogna farlo violentemente, ma un pochetto alla volta.
Giacinto. Caro signor suocero, vi raccomando la quiete della nostra famiglia. Mio padre non è atto per questa briga; fate voi da capo di casa, e son certo che, se il capo avrà giudizio, tutte le cose anderanno bene. (parte)
Pantalone. Questa xe la verità. El capo de casa xe quello che fa bona e cattiva la fameggia. Vôi veder se me riesse de far sto ben, de drezzar sta barca, e za che co sta donne no se pol sperar gnente colle bone, voi provarme colle cattive2. (parte)