La famiglia dell'antiquario/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera di Doralice.
Doralice ed il conte Giacinto.
Giacinto. Gran disgrazia! Gran disgrazia! In questa nostra casa non si può vivere un giorno in pace.
Doralice. Lo dite a me? Io non do fastidio a nessuno.
Giacinto. Eh, Doralice mia, se mi voleste bene, non vi regolereste così.
Doralice. Ma di che mai vi potete dolere?
Giacinto. Voi non volete rispettare mia madre.
Doralice. Che cosa pretendete ch’io faccia, per darle un segno del mio rispetto? Volete che vada a darle l’acqua da lavare le mani? Che vada a tirarle le calze, quando va a letto?
Giacinto. Oh! non1 la vogliamo finir bene.
Dottore. Dite, non lo sapete ch’io sono stata stamattina la prima a salutarla?
Giacinto. Sì, e nel salutarla l’avete strapazzata.
Doralice. L’ho strapazzata? Non è vero.
Giacinto. Le avete detto vecchia.
Doralice. Oh, oh, oh! Mi fate ridere. Perchè le ho detto vecchia, s’intende ch’io l’abbia strapazzata? Pretende forse di essere giovane?
Giacinto. Non è una giovanetta, ma non le si può dire ancor vecchia.
Doralice. È vostra madre.
Giacinto. Quando sarete voi di quell’età, avrete piacere che vi dicano vecchia?
Doralice. Quando sarò di quell’età, vi risponderò.
Giacinto. Fate con gli altri quello che vorreste che fosse fatto con voi.
Doralice. Se a mia suocera le dicessi che è giovane, mi parrebbe in verità di burlarla.
Giacinto. Che bisogno c’è che le diciate giovane o vecchia? Questo è il discorso più odioso che possa farsi a voialtre donne. Non vi è nessuna, per vecchia che sia, che se lo voglia sentir dire. Sino ai trent’anni ve li nascondete a tre o quattro per volta; dai trenta in su, si nascondono a diecine e dozzine. Voi adesso avete ventitrè anni; scommetto qualche cosa di bello, che da qui a dieci anni ne avrete ventiquattro.
Doralice. Via, bravo. Se volete che vostra madre sia più giovane di me, lo sarà.
Giacinto. Queste sono2 freddure. Vorrei, vi torno a dire, che consideraste che ella è mia madre, che le portaste un poco più di rispetto.
Doralice. Sì, le farò carezze, le ballerò anche una furlanetta3 alla veneziana.
Giacinto. Orsù, vedo che non posso sperar niente, e converrà pensare al rimedio.
Dottore. Se foste un uomo, a quest’ora ci avreste pensato. Ma, compatitemi, siete ancora ragazzo.
Giacinto. Io? Perchè?
Doralice. Perchè se toste un uomo di senno, non avreste permesso che vostro padre e vostra madre consumassero miseramente ventimila scudi, senza nemmeno fare un abito alla vostra moglie.
Giacinto. A proposito, l’abito mi ha detto mia madre che si farà...
Doralice. Non ho bisogno di lei. Lo farò senza di lei; questi sono denari, e or ora verrà il mercante. (gli fa vedere una borsa)
Giacinto. Chi ve li ha dati?4
Dottore.5 Mio padre mi ha regalato cinquanta zecchini e questo orologio.
Giacinto. Ho rossore che vostro padre abbia ad incomodarsi per voi. Ma gli sono obbligato e voglio andare io medesimo a ringraziarlo.
Doralice. Fatemi un piacere, mandatemi Colombina.
Giacinto. Non vorrà venire.
Doralice. Mandatela con qualche pretesto6; mi preme di parlarle.
Giacinto. Per amor del cielo, non fate peggio.
Doralice. Non dubitate.
Giacinto. Avrei piacere che vedeste mia madre.
Doralice. Se mi vuol vedere, questa è la mia camera.
Giacinto. Non so che dire, vi vuol pazienza. (parte)SCENA II.
Doralice sola.
Giacinto facilmente si fa7 piegare dove e come si vuole. Mi preme tenerlo forte e costante dal mio partito, perchè a suo tempo spero ridurlo a far quello che non ha coraggio di fare8.
SCENA III.
Colombina e detta.
Colombina. Oh, questa è bella! Tutti mi comandano. Anche il signor Contino si vuol far servire da me9.
Doralice. Colombina.
Colombina. Signora.
Doralice. Poverina! ti ho dato quello schiaffo, me ne dispiace infinitamente.
Colombina. Ancora sento il bruciore.
Doralice. Vieni qua, voglio che facciamo la pace.
Colombina. La mia padrona, in tant’anni ch’io la servo, non mi ha mai toccato.
Doralice. La tua padrona?
Colombina. Signora sì, signora sì, la mia padrona.
Doralice. Dimmi un poco, quanto ti dà di salario la tua padrona?
Colombina. Mi dà uno scudo il mese.
Dottore. Povera ragazza! non ti dà altro che uno scudo il mese? Ti dà molto poco.
Colombina. Certo, per dirla, mi dà poco, perchè a servirla come la servo io...
Dottore. Quando io era a casa mia, la mia cameriera aveva da mio padre uno zecchino il mese.
Colombina. Uno zecchino?
Dottore. Sì, uno zecchino, e gl’incerti arrivavano fino a una doppia.
Colombina. Oh, se capitasse a me una fortuna simile!
Doralice. Lascieresti la tua padrona?
Colombina. Per raddoppiare il salario, sarei ben pazza se non la lasciassi.
Doralice. Senti, Colombina, se vuoi, l’occasione è pronta.
Colombina. Oh, il cielo lo volesse! E con chi?
Doralice. Con me, se non isdegni di venirmi a servire.
Colombina. Con voi, signora?
Doralice. Sì, con me. Vedi bene che senza una cameriera non posso stare, e mio padre supplirà al salario. Io, benchè abbia un poco gridato con te, finalmente capisco che sei una giovane di abilità, fedele ed attenta; onde, se non ricusi l’offerta, eccoti due zecchini per il salario anticipato dei due primi mesi.
Colombina. Vossignoria illustrissima mi obbliga in una maniera, che non posso dire di no.
Doralice. Dunque starai al mio servizio?
Colombina. Illustrissima sì.
Doralice. Ma mia suocera che dirà?
Colombina. Questo è il punto. Che dirà?
Doralice. Troveremo la maniera di farglielo sapere. Per oggi non le diciamo nulla.
Colombina. Benissimo, farò quello che comanda vossignoria illustrissima. Ma se la signora Isabella mi chiama, se mi ordina qualche cosa, l’ho da servire?
Dottore. Sì, l’hai da servire. Anzi non hai da mostrare di essere per me, prima che di ciò le sia parlato.
Colombina. Ma io sono la cameriera di vossignoria illustrissima.
Doralice. Per ora mi basta che tu non mi sia nemica, e che fedelmente mi riporti tutto quello che mia suocera dice di me.
Colombina. Oh! circa alla fedeltà, potete di me star sicura. Vi dirò tutto; anzi, per farvi vedere che sono al vostro servizio, principierò fin da ora a dirvi alcune coserelle che ha dette di voi la mia padrona vecchia.
Doralice. Dimmele, dimmele, che ti sarò grata.
Colombina. Ha detto... Ma per amor del cielo, non le dite nulla.
Doralice. Non dubitare, non parlerò.
Colombina. Ha detto che siete una donna ordinaria, che non si degna di voi, e che vi tiene come la sua serva.
Dottore. Ha detto questo?
Colombina. L’ha detto in coscienza mia10. Ha detto che vostro marito fa male a volervi bene, e che vuol far di tutto, perchè vi prenda odio.
Doralice. Ha detto?
Colombina. Ve lo giuro sull’onor mio.
Doralice. Ha detto altro?
Colombina. Non me ne ricordo; ma starò attenta, e tutto quello che saprò, ve lo dirò.
Dottore. Non occorr’altro, ci siamo intese.
Colombina. Vado, per non dar sospetto. (Per uno zecchino il mese, non solo riporterò quello che si dice di lei, ma vi aggiungerò anche qualche cosa del mio). (da sè, parte)
SCENA IV.
Doralice, poi Colombina.
Doralice. Io sono una donna ordinaria? una donna ordinaria? Ardita11! Non si degna di me? Io non mi degno di lei, che se non era io, si morirebbe di fame. Mio marito fa male a volermi bene? Fa male mio marito a rompermi il capo, perchè io porti rispetto a questa gran dama. Vuol farmi odiare da suo figliuolo? È difficile, poichè ho io delle maniere da farmi amar da chi voglio e da mettere in disperazione chi non mi va a genio.
Colombina. Illustrissima.
Doralice. Che c’è?
Colombina. Il signor Cavaliere del Bosco vorrebbe riverirla.
Doralice. Digli che passi.
Colombina. La servo subito. A vossignoria illustrissima sta bene un poco di cavalier servente; ma la signora Isabella dovrebbe aver finito. (parte)
SCENA V.
Doralice, poi il Cavaliere del Bosco.
Doralice. Questi due zecchini li ho spesi bene.
Cavaliere. Madama, compatite s’io torno a darvi il secondo incomodo.
Doralice. Signor Cavaliere, conosco di non meritare le vostre grazie, e perciò permettetemi che prima d’ogni altra cosa vi faccia un’interrogazione.
Cavaliere. V’ascolterò colla maggior premura del mondo.
Doralice. Ditemi in grazia, ma non mi adulate, perchè vi riuscirà di farlo per poco.
Cavaliere. Vi giuro la più rigorosa sincerità.
Doralice. Ditemi se siete venuto a favorirmi per qualche bontà che abbiate concepita per me, oppure perchè unicamente vi prema di riconciliarmi colla contessa Isabella.
Cavaliere. Se ciò mi riuscisse di fare, sarei contento; ma in ogni modo vi accerto, o signora, che unicamente mi preme l’onore della vostra grazia.
Doralice. Siete disposto a preferirmi a mia suocera?
Cavaliere. Lo esige il vostro merito, e una rispettosissima inclinazione mi obbliga a desiderarlo.
Doralice. Non avrete dunque difficoltà a dichiararvi in faccia della medesima.
Cavaliere. Mi basta non mancare alla civiltà, per non offendere il mio carattere.
Doralice. Non sono capace di chiedervi una mala azione.
Cavaliere. Comandate, e farò tutto per obbedirvi.
Doralice. Sappiate ch’io sono da mia suocera gravemente offesa.
Cavaliere. Ma come? anzi mi pare, perdonatemi, che voi la abbiate molto bene beffata.
Doralice. Eh, queste sono bagattelle. Le offese che ella mi ha fatte, sono di maggior rilievo.
Cavaliere. Sono passate poche ore, dacchè ho avuto l’onore di vedervi. È accaduto qualche cosa di nuovo?
Doralice. È accaduto tanto, che mia suocera vuol vedere la rovina di casa sua.
Cavaliere. Per amor del cielo, non dite così.
Doralice. Che non dica così? che non dica così? Dunque avete ancora della parzialità per lei.
Cavaliere. Ma, Contessina mia, la rovina di questa casa viene a comprendere vostro marito e voi medesima.
Doralice. Vada tutto, ma la cosa non ha da passare così.
Cavaliere. Son curiosissimo di sapere che cosa è stato.
Doralice. Colei ha avuto la temerità di dire che mio marito fa male a volermi bene, e che vuol fare il possibile perchè mi odii.
Cavaliere. Signora mia, l’avete sentita voi dir queste cose?
Doralice. Non l’ho sentita, ma lo so di certo.
Cavaliere. Duro fatica a crederlo, non mi pare ragionevole.
Doralice. Mi credete capace di rappresentarvi una falsità?
Cavaliere. Non ardisco ciò pensare di voi. Ma chi vi ha riportate queste ciarle, può aver errato, o per malizia, o per ignoranza.
Doralice. Bene12. Colombina? (chiama)
SCENA VI.
Colombina e detti.
Colombina. Illustrissima.
Doralice. Dimmi un poco, che cosa ha detto mia suocera di me?
Colombina. Signora... mi perdoni.
Doralice. No, non aver riguardo. Già il signor Cavaliere non parla.
Cavaliere. Oh! non parlo, non dubitate.
Doralice. Via, di’ su, che ha detto quella cara signorina di me?
Colombina. Ha detto che siete una donna ordinaria...
Dottore. Non dico di questo. Che cosa ha detto di mio marito?
Colombina. Che fa male a volervi bene.
Doralice. Sentite? e poi?
Colombina. Che vi vuol far odiare da lui.
Doralice. Avete inteso?
Colombina. Perchè siete una donna ordinaria.
Doralice. Va via di qui. Queste pettegole vi aggiungono sempre qualche cosa del loro.
Colombina. E poi ha detto che non si degna...
Doralice. Va via, non voglio altro.
Colombina. Per amor del cielo, non mi assassinate, (al Cavaliere)
Cavaliere. Per me non dubitare, che non parlerò.
Colombina. Ha detto anche qualche cosa di voi... (al Cavaliere)
Cavaliere. E che cosa ha detto di me?
Colombina. Che siete un cavaliere che pratica per le case, e non dona mai niente alla servitù. (parte)
SCENA VII.
Doralice ed il Cavaliere del Bosco.
Cavaliere. Cara signora Contessa, volete credere a questa sorta di gente?
Doralice. Me lo ha detto in una maniera, che mi assicura essere la verità.
Cavaliere. Sapete pure che ella è cameriera antica della contessa Isabella.
Doralice. Appunto per questo; se non fosse la verità, non mi avrebbe detto cosa che potesse pregiudicare alla sua padrona.
Cavaliere. Le avrà gridato13; sarà disgustata.
Doralice. Signor Cavaliere, la riverisco. (vuol partire)
Cavaliere. Perchè privarmi delle vostre grazie?
Doralice. Perchè siete parziale della signora suocera.
Cavaliere. Io son servitore vostro. Ma vorrei vedervi quieta e contenta.
Doralice. Una delle due: o siete per me, o siete per lei.
Cavaliere. Da cavaliere, ch’io sono per voi.
Doralice. Se siete con me, non mi avete da contraddire.
Cavaliere. Dirò tutto quello che dite voi.
Dottore. Fra mia suocera e me, chi ha ragione?
Cavaliere. Voi.
Doralice. Chi è l’offesa?
Cavaliere. Voi.
Doralice. Chi ha da pretendere risarcimento?
Cavaliere. Voi.
Dottore. Chi ha da cedere?
Cavaliere. Voi...
Doralice. Io?
Cavaliere. Voi no, voleva dire...
Dottore. Ella ha da cedere.
Cavaliere. Certamente.
Doralice. Se c’incontriamo, chi ha da essere la prima a parlare?
Cavaliere. Direi...
Doralice. Come più vecchia, non la posso nemmeno salutare?
Cavaliere. Si potrebbe vedere...
Doralice. Alle corte. Ella ha da essere la prima a parlarmi.
Cavaliere. Sì, lo diceva. Tocca a lei.
Doralice. L’accordate anche voi?
Cavaliere. Non posso contraddirlo.
Doralice. Quando l’accordate voi, che siete un cavaliere di garbo, son sicura di non fallare.
Cavaliere. Ma io, perdonatemi...
Doralice. Se mi parlerà con amore, io le risponderò con rispetto.
Cavaliere. Brava, bravissima. Lodo la vostra rassegnazione.
Doralice. E mi diranno poi ch’io son cattiva.
Cavaliere. Siete la più buona damina del mondo.
Doralice. Credetemi, che altro non desidero che farmi voler bene da tutti.
Cavaliere. Si vede in effetto.
Doralice. La servitù mi adora.
Cavaliere. Anco Colombina?
Dottore. Colombina è tutta mia. Starà con me, e le ho dato due zecchini.
Cavaliere. Se farete così, sarete adorabile.
Dottore. Mia suocera, che ha avuto ventimila scudi, non mi può vedere.
Cavaliere. Perchè, perchè...
Doralice. Perchè è una donna cattiva.
Cavaliere. Sarà così.
Doralice. E così senz’altro.
Cavaliere. Sì, senz’altro.
SCENA VIII.
Colombina e detti.
Colombina. Illustrissima, vi è l’illustrissimo suo signor padre che vorrebbe dirle una parola.
Doralice. Digli che venga.
Colombina. Non vuol venire; l’aspetta nella camera dell’arcova.
Doralice. Vorrà farmi fare qualche figura ridicola con mia suocera.
Cavaliere. Se il padre comanda...
Doralice. Eh! ora ha finito di comandare. Son maritata.
Cavaliere. Sì, ma da lui potete sempre sperare qualche cosa.
Doralice. Oh! per questo lo ascolto.14 Basta, se vorrà ch’io parli alla contessa Isabella, quando ella sia la prima, lo farò. Cavaliere, quando è partito mio padre, vi aspetto. (parte)
Cavaliere. Che vuol dire. Colombina, così attenta a servire la Contessina?
Colombina. Io sono una ragazza di buon cuore. Fo servizio volentieri a chi è generoso con me.
Cavaliere. Orsù, sentite; acciò la vostra padrona non dica ch’io non do mai nulla alla servitù, tenete questo mezzo ducato.
Colombina. Grazie. Sapete ora che cosa dirà?
Cavaliere. E che dirà?
Colombina. Che avete fatto una gran cascata. (parte)
Cavaliere. Che maledettissima cameriera! Costei è causa principale degli scandali di questa casa. Ella riporta a questa, riporta a quella; le donne ascoltano volentieri tutte le ciarle che sentono riportare; quando odono dir male, credono tutto con facilità, e si rendono nemiche senza ragione. Se posso, voglio vedere che Colombina, scoperta dall’una e dall’altra, paghi la pena delle sue imposture. Pur troppo è vero, tante e tante volte dipende la quiete d’una famiglia dalla lingua di una serva o di un servitore. (parte)
SCENA IX.
Salotto.
Il conte Anselmo con un libro grosso manoscritto e Brighella.
Anselmo. Quanto mi dispiace non intendere la lingua greca! Questo manoscritto è un tesoro, ma non l’intendo. Brighella.
Brighella. Illustrissimo.
Anselmo. Ho trovato un manoscritto greco, antichissimo, che vale cento zecchini, e l’ho avuto per dieci.
Brighella. (De questi a mi non me ne tocca). (da sè)
Anselmo. Questo è un codice originale.
Brighella. Una bagatella! Un codice original? Cara ela, cossa contienlo?
Anselmo. Sono i trattati di pace fra la repubblica di Sparta e quella d’Atene.
Brighella. Oh che bella cossa!
Anselmo. Questo posso dir che è una gioja, perchè è l’unica copia che vi sia al mondo. E poi senti, e stupisci. È scritto di propria mano di Demostene.
Brighella. Cospetto del diavolo! Cossa me tocca a sentir? Che la sia pò cussì?
Anselmo. Sarei un bell’antiquario, se non conoscessi i caratteri degli antichi.
Brighella. Cara ela, la prego. La me leza almanco el titolo.
Anselmo. Ti ho pur detto tante volte, che non intendo il greco.
Brighella. Ma come conossela el carattere, se no la intende la lingua?
Anselmo. Oh bella! Come uno che conosce le pitture, e non sa dipingere.
Brighella. (Sa el cielo chi gh’ha magna sti diese zecchini. Za che el volandar in malora, l’è meggio che me profitta mi che un altro). (da sè)
Anselmo. Gran bel libro, gran bel codice! Pare scritto ora.
Brighella. La diga, sior padron, conossela el signor capitanio Saracca?
Anselmo. Lo conosco, lo conosco. Egli pretende avere una sontuosa galleria, ma non ha niente di buono.
Brighella. Eppur l’ha speso dei denari assai.
Anselmo. Avrà speso in vent’anni più di dieci mila scudi. Ma non ha niente di buono.
Brighella. La sappia che l’ha avudo una desgrazia. L’ha bisogno de quattrini, e el vol vender la galleria.
Anselmo. La vuol vendere? Oh! là vi sarebbe da fare de’ buoni acquisti.
Brighella. Se la vol, adesso xe el tempo.
Anselmo. Le cose migliori le prenderò io.
Brighella. El vuol vender tutto in una volta.
Anselmo. Ma vorrà delle migliaia di zecchini.
Brighella. Manco de quello che la se pensa. Con tre mille scudi se porta via tutta quella gran roba.
Anselmo. Con tre mila scudi? Questo è un negozio da impegnarvi la camicia per farlo. Se l’avessi saputo quattro giorni prima, non avrei consumato il denaro con quegl’impertinenti de’ creditori.
Brighella. La senta, se no la gh’ha tutti i denari, no importa; m’impegno de farghe dar la roba, parte col denaro contante e parte con un biglietto.
Anselmo. Oh il cielo volesse! Caro Brighella, sarebbe la mia fortuna. Quanto denaro credi tu che vi vorrà alla mano?
Brighella. Almanco do15 mille scudi.
Anselmo. Io non ne ho altri che mille cinquecento, gli altri li ho spesi tutti.
Brighella. Vederò che el se contenta de questi.
Anselmo. Brighella mio, non bisogna perder tempo; va subito a serrar il contratto.
Brighella. Bisognerà darghe la caparra.
Anselmo. Sì, tieni questi venti zecchini. Daglieli per capana.
Brighella. Vado subito.
Anselmo. Ma avverti di farti dare l’inventario, riscontra cosa per cosa, poi viemmi ad avvisare, che verrò a vedere ancor io.
Brighella. Vado, perchè, se se perde tempo, el negozio poi andar in qualch’altra man.
Anselmo. No, per amor del cielo. Mi appiccherei dalla disperazione.
Brighella. (E vero che el signor Capitanio vol vender la galleria, ma con questi venti zecchini comprerò i so scarti, ghe portare qualch’altra freddura, e el gonzo che non sa gnente, li pagherà a caro prezzo). (da sè, parte)
SCENA X.
Il conte Anselmo, poi Pantalone.
Anselmo. Non mi sarei mai creduto un incontro simile. Ma la fortuna capita, quando men si crede.
Pantalone. Se puoi vegnir? (di dentro)
Anselmo. Ecco qui quel buon uomo di Pantalone. Non sa niente, non sa niente. Venite, venite, signor Pantalone.
Pantalone. Fazzo reverenza al sior Conte.
Anselmo. Ditemi, voi che avete delle corrispondenze per il mondo, sapete la lingua greca?
Pantalone. La so perfettamente. Son sta dies’anni a Corfù. Ho scomenzà là a far el mercante, e tutto el mio devertimento giera a imparar quel linguaggio.
Anselmo. Dunque saprete leggere le scritture greche.
Pantalone. Ghe dirò; altro xe el greco litteral, altro xe el greco volgar. Me n’intendo però un pochetto e dell’un e dell’altro.
Anselmo. Quand’è così, vi voglio far vedere una bella cosa.
Pantalone. La vederò volentiera.
Anselmo. Un codice greco.
Pantalone. Bon, ghe n’ho visto dei altri.
Anselmo. Scritto di propria mano di Demostene.
Pantalone. El sarà una bella cossa.
Anselmo. Osservate, e se sapete leggere, leggete.
Pantalone. (Osserva) Questo xe scritto da Demostene?
Anselmo. Sì, e sono i trattati di pace tra Sparta e Atene.
Pantalone. I trattati di pace tra Sparta e Atene? Sala cossa che contien sto libro?
Anselmo. Via, che cosa contiene?
Pantalone. Questo xe un libro de canzonette alla grega, che canta i putelli a Corfù.
Anselmo. Già lo sapeva. Voi non sapete leggere il greco.
Pantalone. La senta: mattiamù, mattachiamù, callispera, matticimù.
Anselmo. Ebbene, questi saranno i nomi propri degli Spartani o de’ Tebani.
Pantalone. Vuol dir: vita mia, dolce mia vita, bonassera, vita mia.
Anselmo. Non sapete leggere. Questo è un codice greco che mi costa dieci zecchini e ne vale più di cento.
Pantalone. El formaggier nol ghe dà tre soldi.
Anselmo. Andate a intendervi di panni e di sete, e non di scritture antiche.
Pantalone. Me dispiase, sior Conte, che per quel che vedo, andemo de mal in pezo.
Anselmo. Come sarebbe a dire?
Pantalone. Ella se perde in ste freddure, e la so casa va in precipizio.
Anselmo. Io mi diverto senza incomodare la casa. L’entrate le maneggia mia moglie, nè io pregiudico agi’interessi della famiglia.
Pantalone. E alla pase e alla quiete de casa no la ghe pensa?
Anselmo. Io penso a me e non penso agli altri.
Pantalone. Mo no sala, che quando el capo de casa no ghe bada, tutto va alla roversa?
Anselmo. Quando tacciono, sono capo; quando gridano, sono coda.
Pantalone. Dise mia fia che l’è stada offesa dalla siora contessa Isabella.
Anselmo. E dice mia moglie che è stata offesa da vostra figlia; ora guardate con che razza di matti abbiamo da fare.
Pantalone. Eppur bisogna remediarghe.
Anselmo. Io vi consiglierei a fare quello che fo io.
Pantalone. Che vuol dir?
Anselmo. Lasciarle friggere nel proprio grasso.
Pantalone. Ma se ste cosse le va avanti, no so cossa che possa succeder.
Anselmo. Che cosa volete che succeda?
Pantalone. Siora Contessa xe un poco troppo altiera16.
Anselmo. E vostra figlia è troppo fastidiosa.
Pantalone. Volemio vedar de far sta pase tra niora e madonna?
Anselmo. Che cosa vi vuole per far questa pace?
Pantalone. Mi ho parla con mia fia; e so che la farà a mio modo.
Anselmo. È inutile ch’io parli a mia moglie.
Pantalone. Perchè?
Anselmo. Perchè mai abbiamo fatto nè ella a mio modo, nè io al suo.
Pantalone. Ma questa l’averia da esser una pase general de tutta la fameggia.
Anselmo. Io non sono in collera con nessuno.
Pantalone. Mo no l’è gnanca so decoro, voler comparir un omo de stucco.
Anselmo. Che cosa volete ch’io faccia?
Pantalone. Avemo da procurar che ste do creature se unissa. Avemo da far che le se parla, che le se giustifica, che le se pacifica, e xe ben che la ghe sia anca ela.
Anselmo. Via, vi sarò.
Pantalone. Bisogna metter qualche bona parola.
Anselmo. La metterò.
Pantalone. Ho parlà anca colla siora Contessa, e la m’ha promesso de vegnir in camera d’udienza, dove ghe sarà anca mia fia.
Anselmo. Buono, avete fatto assai.
Pantalone. Saremo nualtri soli; ela, mi, so consorte, mia fia e mio zenero.
Anselmo. E non altri?
Pantalone. No gh’ha da esser altri.
Anselmo. Sarà diffìcile.
Pantalone. Perchè? Chi gh’ha da esser?
Anselmo. Le donne hanno sempre i loro consiglieri.
Pantalone. Mia fia no credo che la gh’abbia nissun.
Anselmo. Eh, l’avrà, l’avrà.
Pantalone. Siora Contessa lo gh’ala?
Anselmo. Oh, se l’ha? E come!
Pantalone. E ela lo comporta?
Anselmo. Io abbado alle mie medaglie.
Pantalone. Mio zenero non farà cussì.
Anselmo. Ognun dal canto suo cura si prenda.
Pantalone. Questa no xe la regola che ha da tegnir un capo de casa.
Anselmo. Ditemi, quant’anni avete!
Pantalone. Sessanta per servirla.
Anselmo. Volete vivere sino a cento?
Pantalone. Magari, ch’el ciel volesse!
Anselmo. Se volete vivere sino a cent’anni, prendetevi quei fastidi che mi prendo io. (parte)SCENA XI.
Pantalone solo.
Vardè che bell’omo! Vardè in che bella casa che ho messo la mia povera fia! Un de sti dì, co ste so medaggie nol gh’ha più un soldo, e quel che xe pezo, el lassa che vaga in desordene la casa, senza abbadarghe. Ma se nol ghe bada lu, ghe badarò mi. No gh’ho altro a sto mondo che sta unica fia; se posso, no vôi morir col rammarico de vederla malamente sagrificada. Oh quanto meggio che giera, che l’avesse maridada con uno da par mio! Anca a mi me xe vegnù el catarro della nobiltà. Ho speso vintimille scudi. Ma cossa hoggio fatto? Ho butta i bezzi in canal, e ho negà la putta17.
SCENA XII.
Arlecchino, travestito con altr'abito, e detto.
Arlecchino. (Oh se trovass sto sior Conte, ghe vorria piantar dell’altre belle antichità, senza spartir l’utile con Brighella).(da sè)
Pantalone. (Chi diavolo xe costù?) (da sè)
Arlecchino. (Sto barbetta mi nol conoss). (da sè)
Pantalone. Galantomo, chi seu? Chi domandeu?
Arlecchino. Innanz che mi responda, l’am favorissa de dirme chi l’è vussioria.
Pantalone. Son un amigo del sior conte Anselmo.
Arlecchino. Se dilettela de antichità?
Pantalone. Oh assae!18 (Stè a veder che l’è un de quei che lo tira in trappola). (da sè)
Arlecchino. Za che vussioria se diletta de antichità, la sappia che mi son un antiquari. Son vegnù per far la fortuna del sior conte Anselmo19.
Pantalone. (Voi torme spasso e scoverzer terren). (da sè) Caro amigo, se me farè a mi sto piaser, oltre al pagamento, ve servirò in quel che poderò, in quel che ve occorrerà.
Arlecchino. Za che ved che l’è un galantomo, l’osserva che roba! L’osserva che antichità! che rarità! che preziosità! Vedel questa? (mostra una pantofola vecchia)
Pantalone. Questa la par una pantofola vecchia.
Arlecchino. Questa l’era la pantofola de Neron, colla qual l’ha dà quel terribil calzo a Poppea, quand el l’ha scazzada dal trono.
Pantalone. Bravo! Oh che rarità! Gh’aveu altro? (Oh che ladro!) (da sè)
Arlecchino. Vedel questa? (mostra una treccia di capelli) Questa l’è la drezza de cavelli de Lugrezia romana, restada in man a Sesto Tarquinio, quando el la voleva sforzar.
Pantalone. Bellissima! (Ah tocco de furbazzo!) (da sè)
Arlecchino. La vederà...
Pantalone. No voggio veder altro. Baron, ladro, desgrazià! Credistu che sia un mammalucco? A mi ti me dà da intender ste fandonie? Furbazzo, te farò andar in galìa.
Arlecchino. Ah signor, per amor del cielo, ghe domand pietà.
Pantalone. Chi t’ha introdotto in sta casa?
Arlecchino. L’è sta Brighella, signor.
Pantalone. Come, Brighella?
Arlecchino. Sior sì, avem spartì l’altra volta metà per un.
Pantalone. Donca Brighella sassina el so patron?
Arlecchino. El fa anca lu, come che fan20 tanti alter.
Pantalone. Orsù, vegnì con mi. (Voggio co sto mezzo disingannar sto sior Conte), (da sè) Vegnì con mi.
Arlecchino. Dove?
Pantalone. No ve dubitè. Vegnì con mi, e non abbiè paura.
Arlecchino. Abbiè carità de un poveromo.
Pantalone. Meriteressi de andar in preson; ma no son capace de farlo. Me basta che disè a sior Conte quel che ave dito a mi, e no voi altro.
Arlecchino. Sior sì, dirò tutt quel che volì.
Pantalone. Andemo.
Arlecchino. Son qua. (Tolì, anca a robar ghe vol grazia e ghe vol fortuna). (s’incammina)
Pantalone. Femo sta pase, e pò con costù farò veder al Conte che tutti lo burla, che tutti lo sassina. (partono)
SCENA XIII.
Camera della contessa Isabella21.
La contessa Isabella e il Dottore.
Isabella. Anche voi mi rompete la testa?
Dottore. Io non parlo; ma ha ella sentito che cosa ha detto il signor Pantalone?
Isabella. Come c’entra quel vecchio in casa mia? Qui comando io, e poi mio marito.
Dottore. Benissimo, non pretende già voler far da padrone; egli mostra dell’amore per questa casa, e desidera di vedere in tutti la concordia e la pace.
Isabella. Se vuol che vi sia la pace, faccia che sua figlia abbia giudizio.
Dottore. Egli protesta ch’ella è innocente.
Isabella. È innocente? È innocente? E voi ancora lo dite? Sia maledetto quando il diavolo vi porta qui!
Dottore. È il signor Pantalone che dice ch’ella è innocente. Io non lo dico.
Isabella. Basta, se vi sentite di dirlo, andate fuori di questa camera.
Dottore. Questa è una bellissima cosa. Ora mi vuole, ora mi scaccia.
Isabella. Se mi fate rabbia. Andatemi a prender da bere.
Dottore. Vado. (si parte per prendere da bere)
Isabella. Maledettissima! A me vecchia?
Dottore. Eccola servita, (le porta un bicchier di vino colla sottocoppa)
Isabella. Non voglio vino.
Dottore. Anderò a pigliar dell’acqua. (si parte, come sopra)
Isabella. Vi saluto, perchè siete più vecchia di me?
Dottore. Ecco l’acqua. (porla un bicchier d’acqua)
Isabella. Maledetto! Fredda me la portate?
Dottore. Ma la calda dov’è?
Isabella. Al fuoco, al fuoco.
Dottore. La prenderò calda. (si parte, come sopra)
Isabella. Questa parola non me l’ha ancora detta nessuno. Ma che faceva il signor Cavaliere in compagnia di colei? Sarebbe bella che avesse lasciata me, per servir Doralice!22
SCENA XIV23.
Colombina e detta.
Colombina. Signora, il padrone la prega di passare nel suo appartamento.
Isabella. Che cosa vuole da me?
Colombina. Non lo so, signora; so che vi è il signor Pantalone.
Isabella. Bene, bene, sentiremo le novità. Dimmi un poco, hai veduto quando il Cavaliere è andato nelle camere di Doralice?
Colombina. L’ho veduto benissimo.
Isabella. Quanto vi è stato?
Colombina. Più di due ore; e poi poco fa vi è tornato.
Isabella. Vi è tornato?
Colombina. Sì signora, vi è tornato.
Isabella. Sei punto stata in camera? Hai sentito nulla?
Colombina. Oh! io in quella camera non ci vado. Servo la mia padrona e non servo altri.
Isabella. Che balorda! nè anche andar in camera a sentir qualche cosa, per sapermelo dire; va, che sei una scimunita.
Colombina. Balorda! scimunita! Non voleva dirvelo; ma ci sono stata.
Isabella. Sì? contami, che cosa facevano?
Colombina. Parlavano segretamente.
Isabella. Disconevano forse di me?
Colombina. Sicuro.
Isabella. Che cosa dicevano?
Colombina. Che siete fastidiosa, sofistica e che so io.
Isabella. Cavaliere malnato!
SCENA XV.
Il Dottore con l’acqua calda, e dette.
Dottore24. Ecco l’acqua calda.
Isabella. Andate al diavolo; non sentite che scotta? (la prende, le pare bollente, e gettandola via, coglie il Dottore)
Dottore. Obbligatissimo alle sue grazie.
Isabella. Di grazia, che vi avrò stroppiato!
Dottore. Io non parlo.
Isabella. E così, che altro hanno detto di me? (a Colombina)
Colombina. Non ho potuto sentir altro. Ma se sentirò, dirò tutto.
Isabella. Sta attenta; ascolta e osserva, che mi preme infinitamente.
Colombina. Signora padrona, vi ricordate quant’è che mi avete promesso un paio di scarpe?
Isabella. Tieni, comprale a tuo modo. (le dà un ducato)
Colombina. Che siate benedetta! (Così si macina a due mulini). (da sè, parte)
Isabella. (Il Cavaliere mi tratta così!) (da sè)
Dottore. Vuole ch’io le vada a prendere dell’acqua un poco tiepida?
Isabella. (In casa mia? su gli occhi miei?) (da sè)
Dottore. Signora, è in collera? Non l’ho fatto apposta.
Isabella. (Bell’azione!) (da sè)
Dottore. Dica, signora Contessa...
Isabella. Non mi rompete la testa.
Dottore. Ma che cosa le ho fatto? Sempre la mi strapazza; sempre la mi mortifica.
Isabella. Venite con me nell’appartamento di mio marito25. (parte)
SCENA XVI26.
Il Dottore solo.
Ecco il bell’onor che si acquista a servire una signora di rango! Per un poco di vanità mi convien soffrir cento villanie. Ma non so che fare. Ci sono avvezzo e non so distaccarmi. (parte)
SCENA XVII.
Camera27 del conte Anselmo.
Il conte Anselmo e Pantalone.
Anselmo. Eccomi qui, eccomi qui. Ma quanto vi dovrò stare?
Pantalone. Aspettemo che le vegna. Disemo quattro parole; femo sto aggiustamento e l’anderà dove che la vuol.
Anselmo. (Brighella non si vede colla risposta della galleria). (da sè)
Pantalone. Vien zente. Chi ela questa, che no ghe vedo troppo?
Anselmo. È mia moglie.
Pantalone. E con ela chi gh’è?
Anselmo. Non ve l’ho detto? Il suo consigliere.
Pantalone. L’è el dottor Balanzoni!
Anselmo. Cose vecchie, cose vecchie.
Pantalone. Ma cossa gh’intrelo? Averia gusto che fussimo soli.
Anselmo. Eh, lasciatelo venire; che v’importa?
Pantalone. (Che bel carattere che xe sto sior Conte!) (da sè)
(1) (2) ' (3)SCENA XVIII.
La contessa Isabella col Dottore, che le dà mano, e detti.
Anselmo. Benvenuti, benvenuti.
Dottore. Fo riverenza al signor Conte.
Pantalone. Siora Contessa, ghe son umilissimo servitor.
Isabella. La riverisco.
Pantalone. (La ghe diga qualcossa. Femo pulito). (piano al Conte)
Anselmo. (Orsù, giacchè ci siamo, bisogna fare uno sforzo). (da se) Contessa mia, vi ho fatto qui venire per un affar d’importanza; in poche parole mi sbrigo. In casa mia voglio la pace. Se qualche cosa è passata fra voi e vostra nuora, s’ha da obliare il tutto. Voglio che ora vi pacifichiate, e che alla mia presenza torniate come il primo giorno che Doralice è venuta in casa. Avete inteso? Voglio che si faccia così. (alterato)
Isabella. Voglio?
Anselmo. Signora sì, voglio. Questa parola la dico una volta l’anno; ma quando la dico, la sostengo. (come sopra)
Isabella. E volete dunque...
Anselmo. Quello ch’io voglio, l’avete inteso. Non vi è bisogno di repliche.
Isabella. Io dubito sia diventato pazzo: non ha mai più parlato così28.
Anselmo. (Che dite? Mi sono portato bene?) (a Pantalone)
Pantalone. Benissimo.
Anselmo. (Ho fatto una fatica terribile).
SCENA XIX.
Doralice, il Cavaliere29 del Bosco, Giacinto e detti.
Pantalone30. (Cossa gh’intra quel sior co mia fia?) (ad Anselmo)
Anselmo. (Non ve l’ho detto? Il suo consigliere).
Cavaliere. Padroni miei, con tutto il rispetto.
Doralice. Serva di lor signori.
Anselmo. E voi, signora, non dite niente? (ad Isabella)
Isabella. Divotissima, divotissima31. (sostenuta)
Anselmo. Sediamo un poco, e quello che abbiamo a fare facciamolo presto. (Brighella non si vede). (da sè) Che ora è? Signor Cavaliere, che ora è? (tutti siedono)
Cavaliere. Non lo so davvero. Ho dato il mio orologio ad accomodare.
Doralice. Guarderò io: è mezzogiorno vicino. (guarda sull’orologio)
Anselmo. Avete un bell’orologio. Lasciatemelo un poco vedere.
Doralice. Eccolo.
Isabella. Mi rallegro con lei, signora. (a Doralice)
Dottore. È necessario un orologio, dove ognora si scandagliano i quarti della nobiltà.
Isabella. (L’impertinente!) (da sè)
Anselmo. Mi piace questo cammeo; sarà antico: da chi l’avete avuto?
Doralice. Me l’ha dato mio padre.
Isabella. Oh, oh, oh, suo padre! (ridendo forte)
Pantalone. Siora sì, ghe l’ho dà mi, siora sì32.
Anselmo. Questo cammeo è bellissimo.
Pantalone. (Orsù, vorla che scomenzemo a parlar? Vorla dir ela?) (piano ad Anselmo)
Anselmo. La chioma di quella sirena non può esser più bella33. La voglio veder colla lente. (tira fuori una lente, osserva il cammeo, e non bada a chi parla)
Pantalone. (E1 tempo passa). (come sopra)
Anselmo. Principiate voi, poi dirò io. Intanto lasciatemi prender gusto in questo cammeo.
Pantalone. Signore, se le me permette, qua per ordine del sior Conte mio patron, del qual ho l’onor de esser anca parente...
Doralice. Per mia disgrazia.
Pantalone. Tasè là, siora, e fin che parlo, no m’interrompè. Come diseva, se le me permette, farò un piccolo discorsetto. Pur troppo xe vero che tra la madonna e la niora poche volte se va d’accordo...
Isabella. Quando la nuora non ha giudizio34.
Pantalone. Cara ela, per carità la prego, la me lassa parlar; la sentirà con che rispetto, con che venerazion, con che giustizia parlerò de ela. (ad Isabella)
Isabella. Io non apro bocca.
Pantalone. E vu tasè. (a Doralice)
Doralice. Non parlo.
Pantalone. Credo che per ordinario le dissension che nasse tra ste do persone, le dipenda da chiaccole e pettegolezzi.
Isabella. Questa volta son cose vere.
Dottore. Vere, verissime.
Pantalone. Oh poveretto mi! me lassele dir?
Isabella. Avete finito? Vorrei parlare anch’io.
Doralice. Una volta per uno, toccherà ancora a me.
Pantalone. Mo se non ho gnancora principià35; sior Conte, la parla ela, che mi no posso più. (ad Anselmo)
Anselmo. Avete finito? Si sono aggiustate? È fatta la pace?
Pantalone. Dov’elo stà fina adesso? Non l’ha sentio ste do campane che no tase mai?
Anselmo. Con un cammeo di questa sorta davanti agli occhi, non si sentirebbero le cannonate.
Pantalone. Cossa avemio da far?
Anselmo. Parlate voi, che poi parlerò io. (torna ad osservare il cammeo)
Pantalone. Me proverò un’altra volta. Siora Contessa36, voria pregarla de dir i motivi dei so desgusti contro mia fia. (ad Isabella)
Isabella. Oh! sono assai...
Dottore. I miei sono molto più.
Pantalone. Tasè là, siora; lassè che la parla ela, e pò parlerè vu.
Dottore. Ah sì, deve ella parlare la prima37, perchè... (Ho quasi detto perchè è più vecchia). (al Cavaliere)
Cavaliere. (Avreste fatto una bella scena).
Pantalone. La favorissa de dirghene qualchedun. (ad Isabella)
Isabella. Non so da qual parte principiare.
Giacinto. Signor suocero, se aspettiamo che esse dicano tutto con regola e quiete, è impossibile. Io, che so le doglianze dell’una e dell’altra, parlerò io per tutte due. Signora madre, vi contentate ch’io parli?
Isabella. Parlate pure. (Già m’aspetto che tenga dalla consorte).
Giacinto. E voi, Doralice, vi contentate che parli per38 voi?
Doralice. Sì, sì, quel che volete. (Già terrà dalla madre).
Giacinto. Prima di tutto mia madre si lamenta che Doralice le abbia detto vecchia.
Isabella. Via di qua, temerario. (a Giacinto)
Giacinto. Diceva...
Isabella. Va via, che ti do una mano nel viso.
Giacinto. Perdonatemi.
Isabella. Va, ti dico, impertinente.
Giacinto. (Anderò per non irritarla. Eh! lo vedo, lo vedo; qui non si può più vivere39). (da sè, e parte)
Dottore. (Mi ha dato più gusto, che se avessi guadagnato cento zecchini). (al Cavaliere)
Cavaliere. (Quella parola le fa paura).
Pantalone. Cossa disela, sior Conte? No se pol miga andar avanti.
Anselmo. Orsù, la finirò io. Signore mie... Ma prima che mi scordi, questo cammeo si potrebbe avere?
Pantalone. El xe de mia fia, la ghe domanda a ela.
Anselmo. Mi volete vendere questo cammeo? (a Doralice)
Doralice. Venderlo? mi maraviglio. Se ne serva, è padrone.
Anselmo. Me lo donate?
Doralice. Se si degna.
Anselmo. Vi ringrazio, la mia cara nuora, vi ringrazio40. Lo staccherò, e vi renderò l’orologio.
Isabella. Via, ora che la vostra dilettissima signora nuora vi ha fatto quel bel regalo, pronunziate la sentenza in di lei favore.
Anselmo. A proposito. Ora, già che ci siamo, bisogna terminare questa faccenda. Signore mie, in casa mia non vi è la pace, e mancando questa, manca la miglior cosa del mondo. Sinora ho mostrato di non curarmene, per stare a vedere sin dove giungevano i vostri opposti capricci; ora non posso più, e pensandovi seriamente, ho deliberato di porvi rimedio. Ho piacere che si trovino presenti questi signori, i quali saranno giudici delle vostre ragioni e delle mie deliberazioni. Principiamo dunque...
SCENA XX.
Brighella e detti.
Brighella. Sior padron. (al conte Anselmo)
Anselmo. Che c’è?
Brighella. El negozio è fatto, la galleria è nostra, e gh’ho qua l’inventario.
Anselmo. Con licenza di lor signori. (s’alza)
Pantalone. Tornela presto?
Anselmo. Per oggi non tomo più. (parte con Brighella)
Pantalone. Bella da galantomo!
Dottore. Possiamo andarcene ancora noi.
Pantalone. Senza el sior Conte gh’è remedio che vegnimo in chiaro del motivo de ste discordie?
Isabella. Ecco qui il signor Dottore; è qualche anno che mi conosce. Mi ha tenuta in braccio da bambina, e sa chi sono. Dica egli41, se io vado in collera senza ragione.
Dottore. Oh! è vero. Ella non parla mai senza42 fondamento.
Doralice. Il signor Cavaliere è buon testimonio di quello che ha detto di me la signora suocera, e sa egli se con ragione mi lamento.
Cavaliere. Signore, lasciamo queste leggerezze da parte. Stiamo allegramente in buona pace, con buona armonia.
Doralice. Leggerezze le chiamate? leggerezze? Mi avete pure accordato anche voi che io ho ragione, che io sono l’offesa, che non tocca a me cedere.
Isabella. Bravo, signor Cavaliere! Vossignoria43 è quello che consiglia la signora Doralice44.
Cavaliere. Io non consiglio nessuno, parlo come l’intendo. Servitor umilissimo di lor signore. (parte)
Pantalone. Voleu che ve la diga? Sè una chebba45 de matti. Destrighevela tra de vualtri, e chi ha la rogna, se la gratta. (parte)
Isabella. Son offesa, saprò vendicarmi, e la mia vendetta sarà da dama qual sono. Dottore, andiamo. (parte col Dottore)
Doralice. M’impegno colla mia placidezza di confondere e superare tutte le più furiose del mondo. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Bettin., Paper, ecc.: Oh benedetta! benedetta! non ecc.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: sono tutte.
- ↑ Danza che si accostuma in Venezia. [nota originale]
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Chi ve li ha dati, Doralice? chi ve li ha dati?
- ↑ Così le edd. Bett., Pap. ecc.: «Mio padre me li ha regalati. Giac. Sono molti? Dor. Sono cinquanta zecchini. Giac. E li spenderete tutti per voi? Dor. Per farvi vedere ch’io vi voglio bene, tenete quest’orologio; ve lo darò. Giac. Chi ve l’ha dato? Dor. Mio padre. Giac. Cara Doralice, vi ringrazio. Dor. Siete Il mio caro marito. Giac. Addio, vado in piazza, e or ora torno. Dor. Fatemi un piacere ecc.»
- ↑ Bett., Pap. ecc. aggiungono: Non le dite ch’io sia in questa camera; mi preme ecc.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Ragazzo senza giudizio! Facilmente si fa ecc.
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: Ma vien Colombina, non voglio che così subito mi veda, acciò non fugga.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: «Basta, più volentieri servirò lui, che quella pettegola di sua moglie. Dar. Colombina. Col. (Uh povera me). Signora, non ho parlato di voi. Dor. Hai parlato di me, ma ti compatisco. Poverina! ti ho dato quello schiaffo e me ne dispiace infinitamente ecc.».
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: «Dor. Ha detto altro? Col. Ha detto che Vostro ecc.»
- ↑ Bett., Pap. ecc.: ardita, petulante, sfacciata.
- ↑ Bett.: Adesso.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Ella averà gridato.
- ↑ Segue nelle edd. Bell., Pap. ecc.: Se non fosse lui, povero vecchio. Basta ecc.
- ↑ Le edd. del Settecento: due.
- ↑ Bett.: xe un poco altiera.
- ↑ Affogato la figlia. [nota originale]
- ↑ Bett., Pap. ecc. aggiungono: Compro tutto.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: ma se vussioria me obligherà con qualch bona maniera, ghe darò a lu tutte ste zoggie, che ho portà con mi.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: com che fa.
- ↑ Questa didascalia, ch’è nelle edd. Bettin. e Paper., manca nelle edd. Pasquali, Zatta ecc.
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: Voglio un poco chiarirmi. Colombina.
- ↑ Questa scena, com’è nelle edd. Bettinelli e Paperini, vedi in Appendice.
- ↑ Nelle edd. Bett., Pap. ecc. la scena comincia per inavvertenza così: «Isab. Femmina impertinente! Dott. Ecco ecc. ’.
- ↑ Nelle edd. Bett., Pap. ecc. ci sono invece le seguenti parole: «Isab. (Ho curiosità di vedere come si contiene). da sè».
- ↑ Questa scena è affatto diversa nelle edd. Bettinelli e Paperini: vedasi Appendice.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Altra camera.
- ↑ Nelle edd. Bett., Pap. ecc. ci sono invece le seguenti parole: «Isab. (So che qualche volta è una bestia, non cogito imitarlo), da sè.»
- ↑ Bettin., Pap. ecc.: Doralice servita dal Cavalier ecc.
- ↑ Nelle edizioni Bett., Paper, ecc. precedono queste parole: «Isab. (Eccola coll’amico), a Giac.»
- ↑ Così segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: «Ans. Sediamo un poco. Non stiamo in piedi. tutti seggono. Isab. Signor Cavaliere, che ora è? Cav. Non lo so davvero. Isab. Non avete l’orologio? Cav. L’ho dato ad accomodare. Isab. Guarderò io. guarda sull’orologio avuto da Giacinto. Pant. (Oe! come gh’ala et relogio che ho dà a mia fia?) da sè. Ans. Avete un bell’orologio. Lasciatemelo un poco vedere. Isab. Eccolo. Miratelo pure; e in esso contemplate il bell’onore della nostra casa. Dor. È necessario un orologio, dove ognora si scandagliano i quarti della nobiltà. Ans. Mi piace questo cammeo. Sarà antico, non è Vero? ad Isab. Isab. Io non lo so. Domandatelo a chi ha portato quest’orologio in casa. Ans. Voi da chi l’avete avuto? Isab. Da Giacinto. Ans. E a te. Giacinto, chi te l’ha dato? Giac. Mia moglie. Dor. E a me l’ha dato mio padre ecc.»
- ↑ Aggiungono le edd. Bett., Pap. ecc.: «Isab. Bravo, bravo (senti come il padre fa bene il mezzano alla figlia), piano a Giacinto».
- ↑ Bettin., Paper, ecc.: Guardate la chioma di quella sirena, se può essere più bella.
- ↑ Aggiungono le edd. Bett., Pap. ecc.: «Dor. Quando la suocera è presuntuosa».
- ↑ Segue nelle edd. Bell., Pap. ecc.: «Patrona sì, le chiaccole, i pettegolezzi per el più guasta et sangue e fa deventar nemici i parenti. Per questo vorria pregar siora contessa Isabella... Isab. La signora contessa Isabella la ringrazia delle sue finezze. Dor. Che diavolo avete fatto, non le avete dato dell’Illustrissima? a Pant. Isab. Se me l’avesse dato, avrebbe fatto il suo debito. Dor. Si sa, lo dico per questo. Pant. Sior Conte, la parla ela, che mi no posso più ecc.»
- ↑ Bettin., Pap. ecc.: Lustrissima siora contessa Isabella.
- ↑ Bett., Pap., ecc.: deve parlare prima lei.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: anco per.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: stare.
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: «Isab. Ringraziate chi gliel’ha donato. Pant. Chi ghe l’ha dà, son stà mi. Isab. Eh, sappiamo tutto, sappiamo tutto. Pant. Cossa sala? la diga, cossa sala? Dor. Oh, ne sentirete di belle. Ans. Orsù, sia chi esser si voglia che l’abbia dato, non me ne importa. Il cammeo mi piace, me lo ha donato, e la ringrazio. Lo staccherò e vi renderò l ’orologio».
- ↑ Bett.: lui.
- ↑ Bett: senza il suo.
- ↑ Bett.: Lei.
- ↑ La fine di questa scena, com’è nelle edd. Bettinelli e Paperini, vedasi in Appendice.
- ↑ Gabbia. [nota originale]