Libro terzo

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Libro secondo Libro quarto
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LIBRO TERZO



Grata a rustici ingegni, ed a Minerva
Opra cara è la mia, questa spargendo
De’ bei fior d’Elicona arte gentile
Della palladia fronde: e a Te non meno
5Dolce esser dee pur anco, Astro novello
Dell’Italico ciel Bavara Donna;
Ch’io ricordando a te vo’ pur nel canto
I bei doni di pace, e suoi dolci ozj.
E quantunque dell’Avo al sangue misto
10Scender pur debba a pro d’Italia il forte
Genio di guerra ne’ tuoi figli, ond’abbia
Il Longobardo onor chi lo sostegna,
Pur come il vuol materno core, in mente
Sol di pace e d’amor volgi consigli;
15E temi pur che germogliar non debba
La salute d’Italia dal tuo sangue.
Ma se lume di ver, l’arcano fato
A me dischiuse un Dio, dappoichè il forte
Genitor del tuo sposo, in sul nemico

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20Istro al bifronte augel ruppe l’artiglio,
Fra noi fermata è pace. E se d’averno
Stolta furia infiammar l’alme si estima
Dei già vinti nemici a cui mal piace
Libera Italia, a certa guerra incerta
25Non seguirà vittoria, or che dei forti
Veglia il poter nel bel regno ove siedi.
E qui se luogo a rammentar tue lodi
Permettesse il mio dir, de le tue molte
Virtù diria, siccome amor m’ispira;
30Che ben chiare a noi fur quando di lieve
Orma segnando il mio caro paese,
La fra l’altre diletta al tuo gran Padre
E di studj fiorente alma cittade,
Di ch’io mi vanto, ti accogliea fra i plausi
35Del forte invitto popolo. Inusata
Gioja si sparse, e rivocò sul ciglio
De’ più feroci il pianto. A Te d’intorno
Dell’armigera Brenno si raccolse
Il fior di giovanezza, e a Te dall’onde
40Stese la destra il triumpellino Mella,
E Salve ei Ti dicea, Salve o di Numi
Prole, o d’Italia speme, o al ciel diletta
E alla terra non meno inclita Donna.
Quivi candida fede, e cortesia,
45E verace modestia, ed onestade,

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E gentilezza Ti seguiano ancelle;
Quivi sull’orme tue preste venirne
Vid’io le virtù belle e pellegrine,
Divin corteggio, che d’Ausonia ai lidi
50Paghe del nuovo ciel seguianti al Trono.
Tu di queste corona a Te leggiadra
Far volesti fra noi, simile a quella
Che del notturno ciel siede al governo
Quando fendendo l’aer rapida scende
55A visitar Latmo diletta, o i gioghi
Del Tebano Aracinto, a lei d’intorno
Stan le seguaci Oreadi, e le belle
Cacciataci de’ boschi, e gli archi suonano
E le faretre, cui la Dea prevale
60Alto fra quelle in licie armi distinta.
Tal ne apparivi tu leggiadramente
Ornata a rallegrar queste contrade
Di tua nobile vista, e tal ciascuno
Ognor ti pinge in suo pensier, che indarno
65Fortunata cittade a noi t’invola,
E più veracemente infra noi vivi.
Me Tu dunque di pace odi cantore
E il tuo santo favor lieto mi scorga,
E mi conforti al riposato albergo
70Delle vergini muse, ove la fronde
Di che tu speri a’ tuoi figli corona

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Felice cresce, e la bell’ombra spande.
Or che il terreno atto all’ulivo, e il modo
Del piantarlo è palese, e di qual seme
75Nasca, e qual brami degli ingrassi, e come
Esercitar si dee col ferro il solco,
Neghittoso cultor, d’altre maggiori
Opre immemore siede in vil riposo?
Spesso chi vinse il mar turbato e l’onde
80Da’ venti avversi combattute, in porto,
E nella calma affonda; e chi per forza
D’infaticabil lena alle correnti
Acque incontro si move, e già la terra
Tiene, se allenta delle forti braccia
85L’usato sforzo il guadagnato lido
Ratto si fugge, e in sua balìa condotto
La respinta il travolve onda a morire.
Tu però ne sii saggio, e ognor più cresca
La lena in te, se allo sperar risponde
90Grato l’arbor col frutto, allor ti adopra
Onde lo studio che di terra il crebbe
E il faticar non torni irrito e nullo.
Così madre amorosa, poichè in seno
L’amata prole alimentò col sangue
95Suo proprio, e molti sopportò travagli,
E patì doglie, poichè a vita nasce
Nella decima luna, amor la volge

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A nuove cure, nè per crescer d’anni
L’amor die pria la mosse in lei si scema.
100Non altrimenti a te saggio cultore
Sorgon cure novelle, ancorchè forti
Escan dal tronco noderosi rami.
Or se modo non serba il fusto eguale
Crescendo in arco, o in tale atto che spiaccia
105Sicchè dal divisato ordin si toglia,
Come allo steril olmo si accomanda
Con vincigli la vite, un dritto palo
Conficca in terra onde crescendo il segua
Dirittamente. Ancor che util nessuno
110Abbia, o che bello cresca o torto il tronco
Non ostante al piacer dell’occhio è duopo
Satisfar non pertanto; e come in core
Senti diletto contemplando i siti
Lussureggianti, ove parer più bella
115Fa la natura l’arte imitatrice
Ne’ bei giardini; di ginepri e lauri
Sorgon boschetti a cui rauche d’intorno
Rotte fra picciol’ sassi piangon l’onde
Che dalle rose pomici zampillano:
120Ivi tra i verdi cespi, e le foggiate
Mortelle, e fra le ajuole argutamente
Son vialetti di cernita sabbia;
Così al piacer dell’occhio anco fie duopo

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Di provveder che l’utile pareggia,
125Se tu ben guardi. Con picconi e corde,
E regoli e cilindri ed argomenti
Al pensoso Britanno, il trovatore
Giardinier divisando opra gentile
Comparte i siti studïoso, e fregia
130La rozza terra, che rapir lo sguardo
Deggia alcun poco de’ severi Lordi;
Non che in tutto seguir debba sue leggi,
E sue molt’arti ed oziosi studj,
Ma siati norma ognor quando il descritto
135Loco abbia scelto. Un solco a dritto mena
Lievemente segnalo entro cui segua
Ciascuna cava ov’hassi a por l’ulivo,
E tal serbi aggiustato ordin la fila
Che d’un capo mirando altro non vegga
140Che un arbor solo, sì l’un l’altro incalzi;
Se fia lieto il terren più strettamente
I filari si stendano, e traverso
Ne passin altri con arguti scontri
Ad uguali distanze e parlamenti;
145Al contrario, se macro, in rade fila
Accomodate al suol seggan le piante.
Se tempo ti concede altro lavoro,
Riparar le barriere anco fia duopo,
Acciò non v’entri disviato gregge

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150A pascer degli arbusti, e giunger siepi
E patenti imprunar calli ti sia
Non ultim’opra, se condotte a male
Veder non pensi tue dolci fatiche.
Così se intorno al tronco invida cresce
155Edra silvestre, od altra erba che il sugo
Esaurisce dall’altrui corteccie,1
Tu la distacca con man pronta, e lunge
La porta sì che l’odîato seme
Non caschi, e torni a germinar rampolli.
160Ma qual difesa avrai se d’ogni banda2
Erompon molte le formiche, od altri
Insetti generati dalla terra?
Allor d’amaro salice, e di ruta
Ergi un rogo dappresso all’oliveto,
165Indi il foco v’apprendi, e delle piante
Spargi al pedal l’amaro cener atro,
E tutti certa avran morte gl’insetti,
E il crepitarne udrai come se posto
Avessi entro le fiamme il verde alloro.
170Ma pon cura che spenta ogni scintilla
Sia di foco nel cenere, che giunto
Al gran rimedio alto periglio segue.
Spesso bruciando sterili sarmenti
E le gramigne sterili adivenne
175A men cauto cultor, che o non veduta

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Bragia, o picciol’ favilla alle radici
Dell’albero cadendo, infra le aperte
Scorze v’appigli il foco, che nascosto
In breve spazio si restrigne, e quindi,
180Come o la crassa resina, o l’interno
Succo oleoso esca ministri, occulto
Ne investe il tronco, indi si estolle ai rami
Palese omai la vincitrice fiamma,
E con fumoso crepito la selva
185Signoreggiando d’alto incendio avvolge;
Massimamente se dal negro occaso
Move austro piovoso, e grave incombe
L’aerea tempesta, che per forza
D’orridi venti adoppia e in giro mena
190L’inestinguibil fiamma in fera vista.
Così per negligenza a strugger vede
Lo sconsolato contadin sue dolci
Speranze, e per lo incendio d’ogni intorno
Inorridir la misera campagna.
195Tal se dell’arboroso Etna si schiude
L’interno alveo gemente, e rubiconda
Lava, e le pietre risolute in foco
Dal rotto cinghio mormorando sforza,
Per lo dosso del monte e per li piani
200Delle misere ville di Sicilia
Passa l’incendio; d’in sù rami i frutti

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Arde, e i floridi tronchi, e le campagne
Rapidamente con furor discorre.
Ma poichè il picciol fusto or fatto è tronco,
205Onde non s’abbia a diseccar ned’altro
Infortunio lo assaglia, il suo governo
Io seguitando canterò. Già detto
S’è de’ lavori, unico mezzo ond’abbia
Forza e vita perenne, e contro al vario
210Delle opposte stagioni alterno giro
Meglio resista l’albero, e che indarno
Altri si adopra, e il frutto indarno attenda
Se del ferro il terren non sente offesa;
E de’ concimi s’è pur detto ancora
215Preparando la terra; or de’ concimi
Di che arricchir si debba ogn’anno, il tempo
E di spargerlo il modo, e l’opra insegno.
Primamente dirò come al difetto
Supplir tu possa degl’ingrassi, e come
220Non ostante la terra si fecondi.
Spesso o che alla speranza il lor valore
Molto prevaglia, o faticoso troppo
Su per l’erto di colli il cammin sia,
E il trapporto difficile, non torna
225Ugual la spesa, e la fatica al lucro;
D’altri mezzi giovarti è quindi forza.
Tu dunque più che il puoi leva d’intorno

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Al ceppo quella terra che dal molto
Produr sia stanca, e che sfruttata e munta
230D’ogn’interna virtù vi giaccia inerte;
Ed altra ne riponi ottima, e tolta
Dal più vicino campo, o sia maggese,
O l’alternar de’ lunghi soli estivi,
E de’ verni il rigor fertil la renda.
235Ma nell’ opra gentil fa che non guasti
L’indiscreto badile, e franga
La sotterrata zocca, e le verméne
Che di quella non viste escon dai lati
Con molli avvolgimenti. Un lieve insulto,
240Piccola offesa alle radici, è morte
All’arbor tutto, che non fanno i tagli
E le ferite al tronco ed alle frondi.
Come se lieve punta che nel corpo
Nota appena saria, discende al core,
245E quelle arcane sedi della vita
Turba minimamente, ecco l’uom more;
Così se ferro ingiusto alle radici
Reca alcun danno mai, da sommo ad imo
Pel malvagio contatto arida fassi
250L’intera pianta. Ma sì reo periglio
Poichè dato è schivar, se del concime
Non eccede il valore, ed ammanito
Ove dessi adoprarlo a te si mostra

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Dì quel ti gioverai che fatto strame
255Sotto a rustici buoj pesto e marcito
E decomposto il contadin riserba
Al coverto l’inverno, a cui, se troppo
Graveolente il tieni, unir fie meglio
Il raccòlto pagliajo, e le cannucce
260Poste a marcire in crassa onda stagnante.
Molti del caldo stabbio de’ cavalli
Ebber vaghezza, e del nitroso e salso
Terreno che alle pecore sopponsi
Nelle invernali case; e molti ancora
265Fer raccolta di stracci, e cenci immondi
Svestiti dalla plebe, e quegli avvolti
Nella belletta uliginosa i fusti
Spargerne al piede; ma l’amaro nitro
L’ulivo offende, ed agra scabbie impronta
270Dannevole alla scorza, e il troppo acceso
Fimo vi nuoce, che il bollir soverchio
Evaporar fa della terra i sali,
Anziché convertirli a prò de’ germi.
Siati dunque il miglior d’ogni concime
275De’ buoj lo strame preparato, e a questo
Mesci terra altrettanta, e co’ rastrelli
Sì nel rimena, e scioversando volvi
Che un sol corpo adivegna; indi l’autunno3
Abbialo il campo, e il soffice terreno

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280Entro l’accoglia a piè del verde ulivo.
Nè di troppo discosto si collôchi
Alle radici, poiché molto indarno
Si perderia dell’alimento, e tratti
Sariano altrove senza modo i sughi;
285Nè a contatto del tronco, e delle barbe
Lo spargerai, che del fermento invece
Generatore, la funesta e tetra
Putredine si crea, che incende e rode
Lo stipite gentile, e l’aere attrista.
290Come più esausto è l’albero di sughi
Quando il frutto matura, in cui ricorre
Ogni benigno umor, che per la terra
Feltrato, e pe le barbe in se riceve,
E siccome l’autunno a fin matura
295Le pingui olive, allor pur anco è duopo
Ricrear di concime ogni sua parte
Rispondendo con grato animo al dolce
Beneficio del frutto. Orrida peste
E tra le furie la peggior, che il tristo
300Abisso chiude, e scellerato mostro
L’ingratitudin sozza il mondo estima;
Le verdi ispide chiome a questa avvinghiano
Velenosi serpenti, e se dal chiuso
Esce dolente a riveder le stelle
305Per tutto un pianto si diffonde, un tetro

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Raccapriccio nell’anime si getta,
E di fredde paure, e di sospetti
E di liti, e di sangue empie la terra.
Non voler dell’Erinni empia le vie
310Seguir tu pure, cui del caro frutto
Fu prodiga la pianta, a lei negando
Il richiesto concime, o gretta e nuda
Povertà nelle frondi, e di Minerva
Avverso il nume, e lungo tempo avrai.
315Dell’imbrifero autunno a metà cade
Abbondevole pioggia, pria che il verno
In neve la rapprenda, e la virtude
Degl’ingrassi risolve in se medesma,
A cui commisti penetrando passano
320All’infime radici. Inutil sempre
E dannevole spesso in primavera
Tornò il concime; ossia che in ciel non esca
Benigno nembo, o che piovendo aggeli
Quando al settentrional fiato sereno
325Nelle fredde mattine il bosco freme.
Molte ragioni ancor più ch’io non dico
Addurti finalmente or qui potrei,
Che l’util manifesto a te paresse
Del concimar l’autunno, e molti ancora
330Precetti e modi che il diverso clima
E la terra diversa a te domanda

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In pronto avrei, se non che a dir mi sforza
Cura maggiore del potar gli studj.
Tu che per senno, e per età prevali
335D’esperîenza agli altri, e studioso
Se’ dell’arte migliore onde si allegra
L’umana vita, tu ne prendi incarco,
Che a folleggiante gioventù non vuolsi
Tanto affidare; e tu gran Dea vi assisti
340Che per lo meglio dell’amata fronde
Non profana la scure alza costui,
Nè irriverenza il move a farti oltraggio.
L’ottimo quindi in un puoi de’ precetti
Compendiar; che indarno io qui le molte
345Opinioni di ridir non curo,
Ravvolgendo tua mente in dubbie ambagi:
Sgombra l’ulivo de’ languidi rami
De’ vizzi e malcrescenti, o secchi, o troppi;
Del vecchiume lo spoglia, e lo dibrusca,
350Acciò che l’aria, e il sole ogni sua parte
Signoreggi dall’alto. Ogni precetto
Quivi entro è chiuso. Utile al tuo lavoro
Zeffiro torna, e mignolar comincia
La primaticcia pianta, e fiorir l’erba.
355Prima adunque che tutte escan le gemme,
Sì tosto il potator tagli e castighi
La soverchia de’ rami inutil selva,

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E ciò che non voluto esce dal tronco
Abbandoni al suo ferro. Util non meno
Che necessario fu il potar per tempo:
Sì perchè non danneggi alla ricolta,
Che nell’urtar del ferro, e nelle scosse
Perir potrebbe, sì perchè di sugo
In primavera oltre l’usato abbonda
In tutta sua fecondità la pianta,
E quindi in miglior modo si rintégra
Delle impresse ferite, e le risalda.
Oltre al potar dell’albero che ogn’anno
In certi tempi ha loco, usar convienti
Il ferro ogni qual volta si palesi
Morbo improvviso nelle piante, e ratto 4
D’onde ha sede partendo, il tronco investe
E le radici, se il rimedio è tardo.
Qual se maligno serpe umor ne’ corpi
Umani, e di putredine circonda
L’un membro o l’altro, il fisico coltello
Acutissimo scende, e nelle vive
Carni si affonda a cui d’intorno geme
L’espresso sangue, e tremano le fibre;
Ma sicuro le origini discuopre
Del crudo morbo, e dagli offesi parte
I non offesi membri, onde non passi
Il mal contatto a questi: similmente

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Quando tocco dal fulmine, o da schifo
Attossicato vermine si crea
340Non sanabil gangrena, e si distacca
L’enfiata scorza, e di nemica morte
Crescendo ognor l’intero arbor minaccia,
Puôssi a mezzo arrestar con taglio industre
L’orrida peste, e a nuova vita in tutto
345Restituir la rediviva pianta.
Forse vero non è, ma comun grido
Fede acquista nell’Arcáde terreno,
Terren d’aurei costumi un dì ricetto
E di turbe innocenti, a cui fean dono
350Di lor presenza e di lor vista i numi:
Tanto sopra ogni uman fasto nemico
Umiltate esaltar sempre lor piacque.
Fama è che d’ospitali ombre cortese
Verde sorgesse immenso annoso faggio
355Sovra i colli d’Arcadia, onor de’ boschi
Primo, amor delle ninfe ed a’ pastori
Seggio, e agli armenti contro il sol difesa,
Quando sublime i paschi arde e scolora.
Usate a convenirvi eran le sparse
360Del contado famiglie, o bello indìce
Amor di nozze genîal convito,
O tetro influsso agli animali, volga
L’alme a pietade, e sagrifizj intimi.

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Di quegli alteri rami alle bell’ombre
365Feansi balli, e palestre, e di soavi
Canti, e di flauti pastoral certame.
Ma come o rio contatto, o morso infetto,
O di grandine offesa impeto fece
Di mezzo al tronco, livida e tumente
370Di tristo umor levò la scorza, e brutta
Cava aperse, di insetti avidi nido;
E sì tosto alle fronde anco si volse
Il rio morbo, che meste ed inclinate
Giaceansi a terra, e il verde onor perdiéno.
375Nè più bella avvivarsi all’incostante
Moto dell’aure, o verdeggiar fu vista
L’indarno amata pianta al mattutino
Raggio, e al cader di queta estiva pioggia.
Florido indarno a lei tornava aprile
380A rivestir de’ suoi parti la terra,
E gli angelletti si stupian vedendo
Mesto e deserto il consueto nido.
Supplici turbe al caro arbor frattanto
Si stringeano dolenti, argomentando
385La causa invan del minacciato danno,
E lagrimando sì pregavan quella
Che mortal ninfa o diva entro la scorza
Si chiudea del bel faggio, onde palese
Ed aperto per lei fosse l’ignoto

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390Poter che in vita sì bell’arbor serbi
Flebile allor, qual di chi geme, uscio
Arcana voce dalle frondi, e chiara
E palese a mortali occhi dal verde
Cortice emerse una donzella. Al vento,
395Aureo volume, il crin libero scherza
E per l’omero intatto, e per lo petto
Rosee corron ghirlande, e per le braccia;
Stringe un ferro la destra, e poiché amica
La supplice affidò turba smarrita,
400Pace a voi, cominciò; rimedio udite
Onde questo si allegri amato faggio
Cui fato estremo a soggiacer conduce.
Da che Prometeo al sol rapì sua fiamma,
E la terra informò di senso e moto,
405Operosa una forza alternamente
Strugge le cose e riproduce. A voi,
Come tarda vecchiezza irresoluta
Sta sopra, indarno il ciel v’ascolta; a morte
Arte non val, nè forza umana incontro.
410Ma ben dato è dal ciel, se dei mortali
Pietoso affetto delle piante ha cura,
Bello a queste tornar negli ultim’anni
Vigor di giovinezza, e il tronco infermo
Rivestir di novelle amiche frondi.
415Alle attonite genti indi narrava

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Come adoprar doveasi il ferro, e quando
E come l’increscevol ombra torre
Securamente, diradando i rami
O soverchi o morenti, e come servi
420Da rio morbo la pianta industre taglio
E la ravvivi; indi gli studj ad uno
Ad un narrava del potar; fra quelle
Genti dilette al cielo aurei precetti
Dispensando e consigli: e quindi il ferro
425Pendente a rami abbandonando, sparve
Agli occhi lor la boschereccia diva,
E la fragante dalle membra effuse
Pel consapevol aer celeste ambrosia.
Arditamente allor fu chi la mano
430Stese al donato ferro, e d’ogni infetta
Parte mondando il caro arbor, produsse
A più lunga stagion l’ombre cortesi.
Di villa in villa allor, di terra in terra
Rapido corse del prodigio il grido,
435Ed istrutti i cultor, di più fecondi
Arbor le piaghe medicando e il morbo,
Di padre in figlio, e d’una in altra etade
D’una pianta medesma i frutti alterni
Tradussero per lungo ordine d’anni.
440Ma ronca o scure che tu adopri, il ferro
Terso e lucente nelle man ti splenda,

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A cui l’ottuso filo abbia l’alpina
Cote rimosso e il ruggine, e l’impresse
Ferite a medicar col limo avverti,
445Onde l’umor che dal reciso capo
Geme, al sommo si addensi. Al freddo verno
Non servar le tue cure; i tagli innaspra
Di fresco impressi, e nero per lo tronco
Ammortimento livido procede.
450Non vedi tu, che al crudo aere inclemente
Rincrudisce ogni piaga, e si fa bruna
D’immonda tabe? Dell’infausto evento
Fede ti porga la feral pianura
Del tedesco Austerlitz, che mentr’io esalto
455L’arbor sacro alla pace, e sue dolci arti,
Un lauro spunta che la terra adombra.
Ivi poiché le barde arpe dier segno
De la battaglia, e fra l’arme e i vessilli,
E i crociati guerrier scese la punta
460Di quella Spada che non fere indarno,
Del rigid’aere apparve, e di quel cielo
Fiero portento, che migliaja a morte
Trasse vittime umane. Il sol non vide
Più rio macello, nè più sangue tinse
465La germanica terra: e quando afflitte
L’inauspicate schiere ivan fra l’ombre
Della sozza foresta a cercar vita

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Per le paludi, e le giuncose fitte,
Sopravvenne la notte, e la rigente
470Aquilonar bufera, orrendo a dirsi!
Dei fuggenti alle piaghe, e agli squarciati
Petti aggiunse dolore, e coll’espresso
Sangue lasciâro assiderati e stanchi
La combattuta a Marte inutil vita.
475La tepid’aura di Favonio amica
Spiri a te dunque, come d’asce armato
Stai foggiando l’olivo, e a vita il torni;
Nè stanchezza ti vinca, od importuna
Fretta, o pajati mai soverchio il molto
480Studio che poni nel dar forma e legge
Ai mal cresciuti rami, e al tronco informe;
Ma sì guardando, e castigando, or l’una
Parte, or l’altra volgendo ov’altra manchi,
Monda ristaura industrioso e abbella;
485Siccome lo scultor che di macigno
Informe crea spirante simulacro
D’alcun nume, che l’are indi, o il fastigio
De’ templi adorni: che il rigor del sasso
Vince traendo fuor le membra e i panni,
490Indi a più fina inteso opera prende
L’aspro bulino, e i delicati finge
Capegli e l’ugne, e le più picciol rughe;
Nè si ristà dal suo lavor, se prima

[p. 72 modifica]

All’arduo gusto non risponde e piace
495La varia delle membra intera mole.


Note

  1. [p. 84 modifica]Osserva Columella nel Lib. 5. Cap. 8 che plerumque etiam locis siccis et humidis arhores musco infestantur, quem nisi ferro resecueris nec fructum, nec laetam frondem olea inducet.
  2. [p. 84 modifica]Nel citato Lib. 5., Columella raccomanda l’uso della morchia a piè degli ulivi per distruggerne gl’insetti. Amurca olivantibus infundenda est; nam per hyemem si vermes atque alia suberunt animalia, hoc medicamento necuntur; e quantunque per amor di poesia mi abbia tolto a parafrasare Virgilio, trovo ottimo e più sicuro l’espediente indicato da Columella.
  3. [p. 84 modifica]Stercus authumno debet imjci, ut permixum hyemi, radices oleae calefaciat.
  4. [p. 84 modifica]Disse Ovidio, in altro senso, nelle Metamorfosi;

    .....immedicabile vulnus
    Ense recidendum est, ne pars sincera trahatur.