Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO

SCENA PRIMA.

Padiglione.

Tamar, Macur in abito da soldato, e Guardie.

Macur. Tamar, deh! per pietà, salva, proteggi

Il povero Macur.
Tamar.   Come, non sei
Fra’ prigioni tu ancor? Quai spoglie intorno
Veggoti da guerrier?
Macur.   Se non t’incresce,
Tutto ti narrerò. Giunti i nemici,
Procurai di fuggir; ma aveva meco
Quell’impiccio d’Ottiana, e non poteva
Correre a voglia mia. Stanca la donna

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Rimpiattossi nel bosco, io lasciai seco

Chechaiz, meno accorto, e a basta lena
Corsi, volai, fin che mi resse il fiato.
Giunto al fiume Codur, di sete ardendo,
Scendo per ristorarmi, e gemer sento
Fra cespugli una voce... Il cor in petto
Mi balza ancora pel timor. Pian piano
M# accosto, e veggo un misero soldato
Che penava a morir. Mi chiede in grazia
Ch’io lo tolga di pene, ed io pietoso
Lo spoglio in prima, e poi nell’onde il getto.
Vestimmi1 io poi de’ militari arnesi,
Cinsi al fianco la spada, e mi pareva
D’esser pien di valor. Da lì a non molto
Veggo stuol di guerrier, e il mio valore
M’abbandona sul fatto. Or io, confuso
Fra il fuggire e il restar2 temei fuggendo
Dar sospetto maggior. Restai tremante
Ragionando in me stesso: 3 or or mi fanno
La carità che al moribondo io feci.
Odi quando la sorte aiutar vuole
Un solenne poltron. Que’ buoni armati,
Ch’eran del padre tuo, dell’armi in grazia
Mi crederò un de’ suoi. Veggendo il tetro
Pallor del volto mio, chieser s’io fossi
Per sventura ferito. Io lor tremante
Dissi: ferito i’ son. Dove? In un piede.
Scese allor da cavallo un pio guerriero,
Me l’offrì, l’accettai, comodamente
Son venuto fin qui. Ma se scoperto
Vengo per quel ch’io son, dubito il nolo
Del cavallo pagar colla mia testa.
Tamar. Degno fin de’ ribaldi. Avesti ardire

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Di volermi tua schiava?

Macur.   Ah! ti rammenta
Che per grazia del Re mia fosti, è vero;
Ma fui sì galantuom, che di mia sorte
Valermi io non osai: puoi tu dolerti
Di que’ pochi momenti, in cui poteva
Dirti voglio e non voglio?
Tamar.   Olà! ti scosta,
Viene il mio genitor.
Macur.   Pietà ti chiedo,
Pietà, bella Tamar.
Tamar.   Vattene, lo sono
Pietosa ancor con chi nol merta.
Macur.   Il Cielo
Faccia sì ch’i’ ti vegga un dì reina.
Sì, tu merti lo scettro, anzi più scettri.
Coronato consorte il Ciel ti doni. (parte

SCENA II.

Tamar, poi Bacherat.

Tamar. Ah! sì, questo è il mio voto; e ogni arte onesta

Usar saprò per ottenere il fine.
Ecco il padre; se mai quest’arte ho usata,
Or ne deggio tentar la prova estrema.
Bacherat. Figlia, son teco. Ora che gli ordin diedi
Ai ministri, ai guerrieri, in pace or teco
Possomi trattener.
Tamar.   Riposa, o padre,
Dopo sì lungo faticar, riposa.
Guardie, olà! due sedili, (le Guardie portano da sedere
Bacherat.   Alle fatiche
Sono avvezzo, lo sai: dolci fatiche,
Di cui sì grande e glorioso è il frutto!

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Tamar. Piacciati di seder.

Bacherat.   Sediam, se il brami. (siedono
Tamar. Finalmente gli Dei giustizia han reso
Al tuo valore, e sei signor tu solo,
Tu solo vincitor. Il Re nemico
Geme fra’ lacci tuoi; puoi col suo sangue
Lavar dell’onor tuo le macchie e i torti.
Glorioso sei. Puoi la corona al crine
Cingerti quando vuoi; fortuna amica
Ti seconda, t’esalta, e teco è unita.
Pur fra tante vittorie e glorie tante
Non ho quieto il cor, nè lusingarmi
Posso che duri lungamente il dono
Dell’amico destin.
Bacherat.   Deh! non volere
Funestar vanamente i miei trionfi.
Scaccia dal sen la vergognosa, indegna,
Importuna viltà, con cui far tenti
Alla fortuna un manifesto oltraggio.
Che più s’ha da bramar? Che più sperare
Si potrebbe da noi? A qual maggiore
Felicità si può salir qui in terra?
Tamar. Ah! che appunto, signor, tant’alto è giunta
La tua felicità, che non potendo
Salir più oltre, la caduta io temo.
Sai che fortuna la volubil ruota
Fissar non può. Fin che fia lento il moto,
Innalzandosi l’uom di grado in grado,
Termina il corso al terminar dei giorni.
Ma volando repente al fin prefisso
Dalla volubil dea, sovente l’uomo
Rivolge il piè dove s’ergea col capo.
Bacherat. Tetre immagini invano oppor t’ingegni
Al presente mio fato. È ver, fortuna
Stabil non è; ma il variar che temi,

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Troppo è lungi da noi.

Tamar.   Signor, perdona.
Il periglio è vicin più che non credi.
Pensi tu che non abbia invidia e sdegno
La tua sorte a destar? Sai pur che in guerra
Visser tant’anni i tre german feroci,
E vinti furo i due minor dal primo?
Spenti non son questi reali germi
Degli antichi signor del vasto impero.
Vivono entrambi, e in loro vive il caldo
Desio di regno; e se divisi un tempo
Furo gli amici loro, or tutti uniti
Li vedrai contro te. Nemici sempre
Ti saranno, signor; l’odio nel seno
Nutriranno al tuo nome e a tua grandezza.
Vuoi fidarti di loro; o vuoi col ferro
Tenerli in freno, e spopolar dei grandi
Le soggette provincie? Il pensier primo
Debole ti faria, l’altro ti espone
Alla fin dei tiranni. In ogni guisa
Veggo il periglio tuo, lo temo, e in mezzo
Ai trionfi e alle glorie io piango e tremo.
Bacherat. Che vorresti perciò? Ch’io rinunziassi
Al favor della sorte, e al mio nemico
Ridonassi la preda, e che vilmente
Alle selve natie tornassi umile?
Tamar. No, padre mio, se d’ascoltar ti degni
Di donna il ragionar, di donna alfine
Ch’è sangue tuo, che più d’ogni altro è a parte
Del tuo ben, di tua gloria; io mi lusingo
Che inspirata dal Ciel vaglia a proporti
Il consiglio miglior.
Bacherat.   Fuor che viltade,
Tutto posso ascoltar.
Tamar.   Di’, che ti spinse

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A mover guerra a Dadian?

Bacherat.   L’onore
Del sangue mio, d’una mia figlia; il vile
Trattamento inuman che a te si fece;
Indi l’avidità d’un Re crudele
Che aspirava a vedere ai suoi congiunti
Gl’infelici miei stati.
Tamar.   Al Ciel sia lode,
Soddisfatto tu sei. Di lui non temi,
Avvilito lo vedi. Odimi e scusa
Femminile talento. A dire intesi:
Meglio è il poco sicur, che il molto incerto.
Tre son le parti della Giorgia nostra:
Due ne occupava il Re nemico, e l’altra
Più infelice finor fu tuo retaggio.
Se pago fosse Dadian del regno
Unico d’Imerette, e la Mingrelia
A te cedesse a tue provincie unita,
Ampio non fora il tuo dominio? a fronte
Non saresti di lui possente e forte?
Dirai, perchè m’ho a contentar d’un regno,
Se due ne vaglio a posseder? Rispondo,
Val la pace assai più d’un vasto impero;
E due Re forti, in amistade uniti,
Pon far fronte4 ai nemici, e impor la legge
Alla Giorgia non sol, ma in fren tenere
E Turchi, e Persi, e Tartari feroci.
Ecco il consiglio mio: consiglio, o padre,
Che dal Ciel nasce, e che gradito io spero.
Bacherat. Credi tu che il superbo a simil patto
La cervice abbassar volesse altera?
Tamar. Un Re vinto, in catene, un Re che tutto
Perduto ha già, che per favor sol vive
Della clemenza tua, credi che possa

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Ricusar il partaggio, e non si pieghi

A ringraziar la tua pietà?
Bacherat.   Non lice
Parlar di pace al vincitor. Cominci
A umiliarsi l’audace, e fè mi giuri...
Ma qual fede sperar da un inimico?
Chi m’assicura che salito in trono
Non ritorni agl’insulti, e non rinnovi
Le ostilità, del giuramento ad onta?
Tamar. Altro mezzo, signor, se mel concedi,
Suggerirò per eternar con esso
La più certa amicizia. A lui potresti
Dar tua figlia in consorte. Il Ciel te priva
Di maschil prole, e la sua fresca etade
Lo può ben lusingar di possedere
Dopo di te tutta la Giorgia unita.
Che ti sembra, signore?
Bacherat.   E cuore avresti
Di dar la mano a chi donotti a un schiavo?
Tamar. Che non farei per dar la pace a un padre?
Bacherat. Ah! che in van ti lusinghi. Un cor feroce
Sprezzerà l’amor tuo.
Tamar.   Lascia, signore,
Ch’io gli possa parlar. Credimi, io spero
Che m’adori non sol, ma che tu il veda
Umiliato al tuo piè chieder la figlia,
Domandar pace e assicurarti il trono.
Bacherat. Tanto in te ti confidi?
Tamar.   Il so, signore,
Che poco vale il mio poter; favello
Più col cor che col labbro. Io quella sono
Che ha interesse maggior, che ha maggior zelo
Per te di quanti consiglieri hai intorno.
Renditi al parer mio; mostrami, o padre,
Che ti fidi di me, che mi ami e apprezzi.

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Bacherat. Sì, figlia mia, questo vo’ darti ancora

Testimonio d’amor. Fra’ tuoi consigli
Un ne veggo che tende a tua fortuna;
Secondarlo vogl’io. Ma il primo sia
Dadian a umiliarsi.
Tamar.   A lui, signore,
Fa ch’io possa parlare.
Bacherat.   Olà! condotto
Sia qui il Re prigioniero.
Tamar.   Oh! generoso,
Oh amabil genitor!
Bacherat.   Sul cor del padre
Vedi se tutto puoi! Soave incanto
Il tuo labbro è per me. S’egual potere
Hai sugli animi altrui, vederti io spero
Regnar felice e dominar più imperi. (parte

SCENA III.

Tamar, poi Dadian con catene, e Guardie.

Tamar. Dicolo a gloria mia, parmi d’avere

Sovra gli animi altrui poter bastante.
Il più fiero di tutti ed il più austero
Fors’è il mio genitor; ma cesse anch’egli
Al dolce suon degli amorosi accenti.
Grazie però agli Dei, non ho rimorso
Che sien false ragion gli accenti miei.
So che il vero sol dissi; e se nel vero
V’entra un bene per me, di lode è degno
Chi col proprio suo ben l’altrui procura.
Eccolo il prigioniero. Io gli preparo
Più soavi catene.
Dadian.   Eccomi alfine
Solo dinanzi a te. Tamar, ti sfoga

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Meco, che n’hai ragion. La crudeltade

Che t’usai, mi rinfaccia, e sfoga pure
La vendetta, il furor.
Tamar.   Sì, di vendetta
Giunto è il tempo per me. Tiranno, avesti
Cor di vedermi sulla torre esposta
Alle spade nemiche. Era tuo dono
Questa misera vita, e mi volevi
Condannata a morir per tua germana.
Se per amor, per gelosia, per sdegno
Spenta m’avessi, perdonar poteva
Al tuo barbaro cor. Ma per vendetta,
Per piacere alla suora, oltraggio farmi?
Dadian. Che val teco scusarmi? Hai ragion tante
Dell’odio tuo, che il supplicarti è vano,
Vano è il chieder pietà.
Tamar.   Di’, che superbo
Pietà chieder non degni, e che morresti
Anziché supplicar.
Dadian.   Ah! s’io pregassi,
Che sperare potrei?
Tamar.   Provati.
Dadian.   A costo
Del rossor di veder gettati i prieghi,
Vo’ quest’ultimo scorno ancor soffrire.
Sì, ti priego, idol mio, pietà domando,
Non per la vita mia che più non curo,
Non pe ’l regno perduto. Ah! sol ti chiedo
Del mio core pietà. Non far ch’io mora
Coll’odio tuo. Scusa il furor malnato,
Perdonami, mia vita.
Tamar.   Olà, dal piede
Gli si tolgan que lacci. (alle Guardie ch'eseguiscono
Dadian.   Ah! qual speranza
Giungemi a lusingar!

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Tamar.   Non dar sì presto

Tanta fè alle lusinghe. (sostenuta
Dadian.   E perchè trarmi
Dai lacci il piè, se ad infierir pur segui?
Tamar. Quel ch’io penso, or saprai. Siedi.
Dadian.   Ma oh stelle!
Se ho da morir, non prolungarmi il duolo.
Tamar. Comandi già? Per aver sciolto il piede,
Credi ancor di regnar?
Dadian.   Scusami. Oh Numi!
Quel ch’io dica, non so.
Tamar. Siedi, e m’ascolta, (siede
Dadian. T’ubbidirò. (siede
Tamar.   Brevi saran gli accenti.
M’ami tu ancor?
Dadian.   Fa che te dica amore.
Io non lo posso dir.
Tamar.   Fole son queste.
Non parla amor, se non favella il labbro.
Vo’ saperlo da te.
Dadian.   Sì, t’amo, o cara,
E moribondo ancor...
Tamar.   Non più: all’inchiesta
Rispondesti abbastanza. Or dimmi: amore,
Se tu non fossi prigionier qual sei,
Se avessi il regno tuo, la tua grandezza
T’indurrebbe a far parte a me del trono?
Dadian. Deh! volesser gli Dei che a te potessi
Tanto esibir, quanto tu merti. Al trono
Sperai condurti, e il mio destin fatale
Per te solo m’affligge.
Tamar.   Or vedi quanto
Più discreta son io di quel che brami.
Se fosse in tuo poter, tutto vorresti
Il tuo regno donarmi, e a me sol basta

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Che una parte mi ceda.

Dadian.   E di qual regno
Parli tu mai, se la mia sorte avversa
Mi spogliò d’ogni bene?
Tamar.   E non ti resta
Speranza in sen di riacquistare un giorno
Tante perdite tue?
Dadian.   Tu mi deridi,
Tu m’insulti a ragion; piacer ti prendi
Delle sventure mie.
Tamar.   T’inganni, io posso
Farti al trono salir, sol che tu il voglia.
Dadian. Oh Dei! non m’adular.
Tamar.   Cruda non sono
Qual tu fosti crudel. (con sdegno
Dadian.   Morir mi sento,
Abbi pietà di me.
Tamar.   (Vo’ che gli riesca
Più caro il don, quanto più incerto il vede).
Dadian. Tamar, non più. Se ho da morir, si mora.
Svelami il mio destin.
Tamar.   Del tuo destino
Le leggi ascolta; e se ti par crudele,
Sceglilo a voglia tua. Calmati ho i sdegni
Teco del padre mio. Disciolto il piede
Hai del laccio servil sol per suo dono.
Re ti brama ed amico.
Dadian.   Ah! tu m’inganni,
Tu derider mi vuoi.
Tamar.   Taci, e m’ascolta.
Credi tu che il poter di queste luci
Che avvinsero il tuo cor, vagliano meno
Sul paterno voler? Sì, impietosito
L’ho io per te. Dissi: Dadian m’adora;
Sposa sua mi desia; gli basta il regno

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D’Imerette soltanto, a solo fine

Di collocar la cara sposa in trono.
Cederà la Mingrelia. Avrete uniti
Della Giorgia l’impero. Ei prestò fede
Della figlia alle voci. Ei già ti chiama
Genero e figlio suo. Signor, che dici?
Promisi troppo a chi in sua mano ha il tutto?
Dadian. Io Re per tua cagion? Io d’Imerette
Nuovamente signor? Troppo, mia vita;
Basta la destra tua. Ma no, tal destra
Senza un trono regal sperar non lice.
Lodo la tua virtù. Grazie ti rendo
Per cotanta bontà. Di me disponi,
Disponga il padre tuo. Qual figlio al padre,
La man gli bacierò. Pace, sì pace,
Dolce premio di pace è il tuo bel volto.
Il mio regno è il tuo cor.
Tamar.   Dov’è mio padre?
(s’alza con allegrezza, e s’alza Dadian
Guardie, al mio genitor correte tosto,
Pregatelo per me che non ritardi,
Che vederlo desio. (le Guardie partono
Dadian.   Tu, mia speranza,
Tu sì pietosa a chi recotti oltraggio?
Tamar. Non parliam di tristezze. Ogni altro oggetto
Ceda il loco all’amor.
Dadian.   Fuor di me stesso
L’improvviso piacer...

SCENA IV.

Vachtangel e detti.

Vachtangel.   Chi trasse i ceppi

Dal prigionier al piè? (con alterezza

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Tamar.   Io. (sostenuta

Vachtangel.   Tu il facesti? (mestamente
Tamar. Io sì; che dir vorrai?
Vachtangel.   Col tuo nemico
Più pietosa sarai che col tuo sposo?
Tamar. E chi è lo sposo mio?
Vachtangel.   Se non mentisti,
Esser quegli io dovrei.
Tamar.   T’inganni, io dissi
Che dal padre dipendo.
Vachtangel.   E il Padre stesso...
Tamar. Eccolo; ora saprai chi ei mi destina.
Vachtangel. (Ah! mi palpita il cor).
Dadian.   (Pavento ancora
Che sien vane speranze e lusinghiere).

SCENA V.

Bacherat e detti, poi Ottiana.

Bacherat. Tamar, che vuoi da me?

Tamar.   Signor, perdona.
Io quella fui che qui venir ti fece
Supplicandoti, è ver. Ma vedi, è questi
Che parlarti desia.
Bacherat.   Dadian disciolto?
Vachtangel. Un arbitrio, signor, correggi, e imponi
Che a’ suoi lacci ritorni il prigioniero. ( Bacherat
Tamar. Prudente consiglier!
Dadian.   Bachrat 5, tu vedi
Non un nemico in me, ma un umil figlio,
Un amico sincer che fè ti giura.
Grato m’è il tuo favor. Qual dono accetto
Il regno d’Imeret ch’or tu mi rendi.

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Sia pur tua la Mingrelia. E sol ti chiedo

Per pegno eterno d’amistà, di pace,
La figlia tua, la cara figlia, in sposa.
Vachtangel. (Che risponde Bachrat?)
Bacherat.   Dadian, conosci
La tua sorte da lei. Sul cor paterno
Tanto poter gli accenti suoi, che alfine
M’arresi in tuo favor. Regna, e rammenta
Che superbia nei Re deturpa il grado,
E la giustizia d’ogni regno è base.
Della Mingrelia possessor mi rendo
Non per avidità, che pago io fui
Sempre del stato mio, ma perchè meno
Altier ti renda un più fastoso impero:
Altro non diermi successor le stelle
Fuor che la figlia mia; renditi degno
Del suo, dell’amor mio; nè sarà ingrato
Il mio core con te, se tu sia fido.
Vachtangel. (Oh perdute speranze! Oh sorte ingrata!)
Tamar. Vachtangel, che dir vuol che smani e fremi?
Vachtangel. Perchè mai lusingarmi, e perchè dirmi
Che mi amavi, crudel?
Tamar.   Diss’io d’amarti?
Vachtangel. Negalo, se lo puoi! Non mi dicesti:
Come un tempo t’amai, t’amo al presente?
Tamar. Con più sincerità poteva io dirti:
Non t’amai e non t’amo? E qual amore
Merta colui che conduttor si fece
Di me, guidata in schiavitude amara?
Scuso il mio genitor che di sua pace
Prezzo mi volle, ed io medesma il chiesi,
Malcontenta colà fra monti e selve
Di meschino destin. Ma un vero amante
A costo di morir non dovea farsi
Delle perdite sue ministro e scorta.

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Dunque o poco mi amasti, o troppo vile

Non meritasti l’amor mio.
Vachtangel.   Crudele,
Hai ragion d’insultarmi, lo fui...
Tamar.   T’accheta.
Veggo colà di Dadian la suora;
Fa, signor, ch’ella venga a parte anch’essa
Del comune gioir. (a Dadian
Dadian.   Vieni, o germana,
Vien, che il fato per noi cangiò d’aspetto...
Ottiana. Tutto so, tutto intesi. Il tuo destino
Lieto può farti; ma di me infelice
Qual la sorte sarà? Chi sa qual legge
Preparata mi fia dalla tua sposa,
Che odiai privata e che sovrana or temo?
Tamar. Vano è il timor, se l’odio tuo fia spento.
So che sposa al Visir ti aveva eletta
L’amoroso german... Padre, il tuo regno
Di un Visire abbisogna, e di un tal grado
Vachtangel degno è per valore e fede.
Deh! per l’amor, per la bontà che avesti,
Caro padre, per me...
Bacherat.   Non più. Tu a forza
Tutto vuoi ciò brami... Sì, Vachtangel
Sarà Visir. Sei tu contenta?
Tamar.   Ah! quanto
Grata ti sarò mai! (a Bacherat) Dadian, rammenta
Che un Visir promettesti alla germana.
Eccolo qui d’Abchar non men sublime,
E più degno d’amor: deh! sì, il tuo core
Secondi i voti miei...
Dadian.   Chi mai potrebbe
A te grazia negar? Dispon tu stessa,
Se Ottiana v’assente.
Tamar.   Un segno, amica,

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Dammi che l’odio tuo per me Ha spento.

Porgi ad esso la mano, e teco impegno
L’amicizia, l’amor, la fede, il trono.
Ottiana. Tal rispetto tu merti, ond’io non oso
Oppormi al tuo voler. Basta che il nodo
Non dispiaccia al Visir.
Tamar.   Conosco a prova
Di Vachtangel il cor. Non è capace
D’ingrato farsi a chi giustizia rende
Al valor che l’adorna, e sua fortuna
Cerca di migliorar. La man cortese
Porgere è pronto a principessa illustre,
Congiunta al sangue mio. M’inganno io forse?
Vuoi tu farmi mentir? ( Vachtangel
Vachtangel.   No, mia Regina,
Obbedirti desio; troppo han potere
I labbri tuoi, troppo ragion mi sprona
E il dovuto rispetto a illustre sposa.
Se non sdegni la destra... (ad Ottiana
Tamar.   Anzi I’accetta
Col più tenero amor. (a Vachtangel
Ottiana.   Sì, la man prendi
E con essa il mio cor.
Vachtangel.   L’accetto, e giuro
Pari al rispetto mio costanza e fede.
Tamar. Lode agli Dei; or più giuliva io sono,
Or che d’Ottiana e di Vachtangel lieto 6
Potei rendere il core. Il mio vorrebbe
Assicurar la sua fortuna. Ah! dammi,
Dammi, o caro, la destra. (a Dadian
Dadian.   Eccola.
Tamar.   Oh Numi!
Che bramar più poss’io? sperai superba

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Nell’ara del Sofì vincer tant’altre,

E regnar sulla Persia. Il mio destino
Qui mi fermò, qui m’ha acquistato il trono,
Frutto non dirò già de’ pregi miei,
Ma di felice femminile ingegno.
Dicasi a nostra gloria, abbiam noi donne
Tutto il poter su gli animi virili.
Ma chi mal se ne abusa, il pregio perde,
E taccia vil d’ingannatrice acquista.
Io d’un’arte mi valsi utile a voi,
Ed utile a me stessa; da me venne
L’amor, la pace, e la concordia amica.
Se contenti di me tutti non sono,
Spero lode mi dian le donne almeno.


Fine della Tragicommedia.


Note

  1. Così nel testo.
  2. Nell’ed. Zatta c’è qui il punto fermo.
  3. Anche qui nell’ed. Zatta c’è il punto.
  4. Così credo di dover correggere. Nell’ed. Zatta è stampato: Pon fronte far.
  5. Nel testo, qui e più sotto: Bacherat.
  6. Nell’ed. Zatta è stampato: Or che d’Ottiana e Vachtangel lieto ecc.