Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Altra situazione del campo con altre tende, fra le quali la tenda di Abchar.

Dadian, Abchar1 e Guardie.

Dadian. Abchar, udisti il temerario orgoglio

Di Bacherat? Manda la figlia in pegno
D’amistade e di pace, e viene ei stesso
Capo de’ fuorusciti e de’ ribelli,
Minaccioso a tentar la mia possanza?
Parlami or tu per lui. Priega ch’io gli usi
Indulgenza e pietà: vedi, s’ei merta
Che tu t’adopra a disarmar miei sdegni.
Abchar. Scusa, signor, ma dell’ostil sua trama
Tu gli desti ragion. La figlia ei t’offre

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Per omaggio sincero, e tu l’accogli

Con dispregio sì rio, che fora indegno
Del più vil de’ vassalli? A schiavo abbietto
Doni la prole sua? concedi al rozzo
Disgraziato Macur la prole istessa
D’un picciol sì, ma rispettabil prence?
Dadian. Che favelli di prence? è mio vassallo
Bacherat, come gli altri, Io lo soffersi
Alla testa finor del numeroso
Popol di Guriel, perchè suo peso
Fosse d’invigilar, ch’io non restassi
Sprovveduto di schiave. O trascurato
Abbia il cenno per arte o debil cura,
Meritato ha il mio sdegno, e oppresso il voglio.
E lo sprezzo con cui trattai la figlia,
Il segno sia dell’odio mio col padre.
Abchar. Questa figlia, signor, sangue innocente
Di sventurato genitor, non merta
Onta soffrir sì vergognosa e indegna.
Se di lei non ti cal, rendila al padre;
E se al padre non vuoi, donala almeno
A chi più di Macur merta un tal dono.
Lasciala in mio poter. Se la mia fede,
Se il mio lungo servir può lusingarsi
Di tua regia mercè, Tamar ti chiedo.
Dadian. Altra avesti da me maggior mercede.
Ti unisco al sangue mio, la suora istessa
Ti destino in consorte: e a sì gran dono
Osi antepor d’un mio nemico il sangue?
Abchar. Non chiedo a te di Bacherat la figlia
Per isposa, signor, ma sol per schiava.
Dadian. L’ebbe Macur.
Abchar.   Ti calerà d’uom vile
Più che di un tuo Visir? D’altra mercede
Fia contento Macur.

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Dadian.   No: di tal sfregio

Macchiato i’ voglio Bacherat.
Abchar.   Signore,
Temi gli armati suoi2.
Dadian.   Timor non reca
L’errante stuolo a mie falangi armate.
Abchar. Chi gli eserciti tuoi condurrà al campo?
Dadian. Tu, Visir.
Abchar.   No, mio Re, depongo il grado,
S’anche un lieve favor sperar non posso.
Dadian. Altri non mancheran di te men vili.
Abchar. Guardati che gli armati al mio comando
Sono avvezzi a ubbidir.
Dadian.   Minacci, indegno?
Abchar. Non minaccio, signor, ma soffri almeno
Rammentar che da me conosci il trono;
Che in poter mio fu lungamente il regno,
E ch’io solo potea dalle fraterne
Ostilità trar per me stesso il frutto.
Ancor non sei ben stabilito in soglio,
Ancor fremon gli oppressi; e se fian questi
Uniti a quei ch’or ti minaccian guerra,
Vedi quanti nemici avrai d’intorno.
Pugnai per te, ma nel pugnar la giusta,
L’onesta causa sostenere intesi.
Or perdona, signor; veggoti accinto
Ad impresa inumana. Il cuor non soffre
D’onorato guerriero armar il braccio
Per far insulti all’innocenza, e l’onte
Meritare e i dispregi ancor vincendo.
Tu sei signor della mia vita, imponi
Che dal busto mi sia troncato il capo,
Non ch’io contro ragion denudi il brando.

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Dadian. (Ah! freno a stento l’irritato sdegno

Contro il superbo, e simular mi è forza).
Di’, vedesti la schiava?
Abchar.   Sì, la vidi,
E di tanto rigor mi sembra indegna.
Dadian. Sei tu spinto a impetrar per lei pietade
Da zel di gloria, o da imprudente amore?
Abchar. Gloria mi sprona, ed è alla gloria unita
La pietà e la giustizia.
Dadian.   Or via, vo’ darti
Segno novel della mia stima. Accordo
Che a te spetti la schiava.
Abchar.   Il tuo bel core
Mei faceva sperar. (Timor lo move).
Dadian. Ma non devi con tal pietà sospetta
Onta fare alla sposa e mia germana.
Abchar. So il mio dover.
Dadian.   Non secondar soverchio
L’ambiziosa nemica. Usa con essa
Titolo di signor, non quel d’amico.
Sia contenta del cambio; a lei sol basti
Passar dal seno d’un vil schiavo a quello
Di un illustre Visir; ma soffra almeno
Di catena servil lo scorno e il peso.
Abchar. In ciò pago sarai.
Dadian.   Le sparse voci
Tenta di rilevar. Cadano oppressi
O dal ferro o dal foco; e più non resti
Orma di lor, nè più memoria al mondo.
Vanne, e della tua fè novelle prove
Dammi, e del tuo valor; poi chiedi e spera.
Abchar. Ubbidito sarai. Portar le stragi
Saprò nel sen di chi insultarti ardisce;
Chi t’offende, morrà. (Ma in van tu speri
Che l’innocente Bacherat perisca). (parte

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SCENA II.

Dadian, poi Macur.

Dadian. Convien cedere al tempo. Ancora ho d’uopo

Del potere d’Abchar. Domati, oppressi
I ribelli, i nemici, e stabilito
Tranquillamente il piede mio sul trono,
Disfar saprommi del Visir superbo 3,
Che chiede e vuole, e minacciare ardisce.
Macur. Sire, nel regno tuo chi ha più possanza,
Tu, o il Visir?
Dadian.   Io comando, e in te perdono
L’insolente domanda, e in grazia solo
Della stoltezza tua. Comando, e i doni
Posso dare e ritor; e quel che diedi
Per vendetta a un vil schiavo, accordar posso
Per mercede a un Visir.
Macur.   Visir ingordo,
A cui non basterian tutte le donne
Che produce la Giorgia! È ver, son vile,
Sono abbietto, lo so; ma sono anch’io
Uom come gli altri sono: e giuro al Cielo,
O fatemi morir prima ch’io il veda,
O vel sveno sugli occhi, e poi m’uccido.
Dadian. Tanto furor per l’avarizia infame
D’una semplice schiava! In oro, in altro
Compensarti saprò.
Macur.   Non è avarizia
Che mi fa disperar. Non piango il prezzo
Che ritrarne potea. Duolmi perduta
Aver la donna più gentil, più bella

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Ch’abbia prodotto di Gurielle il regno,

In cui d’ogni bellezza il fior si trova.
Che vezzosa beltà! Che volto ameno!
Che amabil fronte! Che sereni sguardi!
Che ridente, soave, umido labbro!
Sventurato Macur! Facea disegno
Di starmi seco dolcemente in pace.
È venuto il grifagno, e mi ha rapito
Di man la preda, e divorarla ei vuole.
Dadian. Tamar è bella tanto?
Macur.   Ancor veduta
Non l’hai, signor?
Dadian.   No, non la vidi ancora.
Macur. Ah! se il sguardo in lei fissi un sol momento,
Ogni rara beltà ti sembra vile.
Ha due guance vermiglie, ha un occhio nero,
Ha sì candido seno... (Oh! s’io potessi
Farlo tanto invaghir che non l’avesse
Quell’indegno Visir, sarei contento).
Dadian. Dov’è costei? Tu di veder m’invogli
Così rara beltà.
Macur.   Dacchè dal fianco
Me la tolse il Visir, la tien celata
Colà nella sua tenda.
Dadian.   Guardie, entrale
Nella tenda d’Abchar, e a me condotta
Sia la schiava novella.
Macur.   Ordine ha dato
Che nessuno s’accosti, e i suoi soldati
Si opporranno alle guardie.
Dadian.   Olà! non siavi
Chi opporsi ardisca al mio voler. La figlia
Esca di Bacherat; vederla io voglio.
(ai Custodi della tenda
Macur. Signor, sei Re; puoi comandare, e puoi

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Donar cortese, e ritrattare i doni.

Se ti piace costei...
Dadian.   Parti.
Macur.   Ubbidisco.
(Voglia il Ciel che gli piaccia, e che non l’abbia
L’avido rapitor che a me l’ha tolta). (parte

SCENA III.

Dadian, poi Tamar.

Dadian. Mera curiosità veder m’invoglia

Decantata beltà; non brama insana
Di apprezzar donna, e molto men la figlia
D’odiato nemico, il di cui sangue
Furor mi desta, e non amore in seno.
Tamar. (Il Re mi chiede? Il tuo favore invoco,
Grata amica fortuna: a passo a passo
Guidami tu felicemente al trono).
Dadian. (Eccola: e qual beltà vedere aspetto
Che comune non sia con altre cento?)
Tamar. Signor, poiché la sorte a me concede
Veder in faccia il mio sovrano, il sommo
Dominator di più provincie e regni,
Lascia che meco i’ mi consoli, e possa
Saziar miei lumi nel real tuo sguardo.
Oh come il Ciel sparge le grazie e i doni
Sugli eletti monarchi! in te traspare
L’anima grande che t’alberga in petto.
Veggo il giusto rigor nel ciglio austero,
Veggo la tua pietà dipinta in fronte,
Veggo mille virtù...
Dadian.   Basta. Il costume
So di voi donne adulatrici, e in vano
Meco usarlo si tenta.

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Tamar.   Ah! sì, pur troppo

Abbonda il mondo di menzogne, e ammiro
Chi ne sospetta, e tiene in guardia il core.
Ma, signor, perchè mai condire il labbro
Teco dovrei di falsi detti? Il padre
Mi vuol tua schiava, a te mi manda, e pende
Dal tuo cenno il mio fato; e se fia d’uopo
Di tua pietà per migliorar mio stato,
Usar degg’io sincerità, non frode.
Odi quel che sa dirti un’infelice
Col pianto agli occhi, e sulle labbra il core.
Duoimi che il padre mio mal ti conosca,
E poco in tua bontà speri e confidi.
S’egli avesse il mio cor, s’egli pensasse
Qual io penso di te, verrebbe ei stesso
A prostrarsi al tuo piè, certo d’avere
Grazia pace perdon da un Re pietoso.
Oh volesser gli Dei che al genitore
Favellar potess’io! Pinger sì al vivo
Vorrei quel dolce signoril sembiante,
Che s’invaghisse di venir giulivo
A depor nel tuo sen l’ire, gli sdegni.
Perchè mandar ad un monarca offeso
Una figlia infelice, e non piuttosto
Correr ei stesso a dimandar pietade?
Perchè a sì grande necessaria impresa
Sceglier me disadorna, a cui fu avara
De’ suoi doni natura, e manca ogni arte?
Ecco il giusto motivo, ond’io soffersi
Il rossor di vedermi a un servo in preda.
Grazie alla tua bontà, passai da un laccio
Ad un altro men vil: ma laccio è sempre;
E il superbo mio cor ne freme ancora.
Ora dimmi ch’io mento. Ecco ch’io stessa
L’ardir mio ti paleso. Io son sì altera,

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Che col nome di schiava abborro il peso

Delle giuste catene. Odiami, o Sire,
Odiami; n’hai ragion. Ma no, capace
Non è d’odio il tuo cor. La tua bontade
Compatirmi saprà; veggo il bel labbro
Pronto a dir: ti perdono; e mi lusingo
Molto più ch’io non merto. Ah! Sire, ah! Nume
Della Giorgia e di me, pietade imploro.
Dadian. (Chi resister potrebbe al fiero incanto?)
Tamar. (Un misto ragionar confuso ad arte
L’inimico in più parti assalir puote).
Dadian. Da’ tuoi detti comprendo esser tu degna
Di fortuna miglior. Così non fosse
Superbo il padre tuo, che tua mercede
Sperar grazia potria.
Tamar.   Signor, perdona;
Tu condanni di laudi il falso suono,
E lodi me? Che giudicarne io deggio?
Dadian. Giudico ch’io conosco i ricchi pregi,
Onde adorna tu sei. Giudica pure
Ch’io non sono inumano, e che del pari
Il dolce labbro e il tuo bel volto ammiro.
Tamar. O me felice! se sperar potessi
Del tuo ciglio real pietoso un guardo.
Dadian. Tamar, tu sei del tuo destin mal paga.
Tamar. Sia orgoglio o sia virtù, signor, confesso
Schiettamente il mio cor. Lo soffro a forza.
Dadian. Tornar vorresti al genitore?
Tamar.   Oh stelle!
Che risponder degg’io? Mio Re, lo veggo,
Dovrei gettarmi a’ piedi tuoi, soltanto
Pel desio di tornar del padre in braccio.
Ma a qual pro, sventurata? A viver sempre
Misera qual io nacqui, in mezzo all’armi,
Fra le ingorde rapine ed i scorretti

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Di popolo vulgar costumi incolti?

Perdoni il genitor, vorrei con seco
Vivere i giorni miei; ma non fra balze,
Fra romite foreste e alpestri monti.
Non saprei dir qual di natura io sento
Voce nel sen, che a desiar mi sprona
Uno stato miglior. Lo so, lo veggo,
È superbo il pensier; ma senza colpa
L’ho nutrito nel cor. Virtù bastante
Ho per soffrire ogni destino avverso.
Ma se chiesto mi vien fin dove aspiri,
Ardisco dir che il ben conosco e il bramo.
Dadian. Restar meco tu puoi.
Tamar.   Ah! Sire, io sono
Schiava del tuo Visir.
Dadian.   La libertade
Ridonarti poss’io.
Tamar.   Tanta clemenza
So di non meritar. Ma un Re ha il potere
Di far grandi i più vili. Io non ricuso
I tuoi cenni ubbidir. Ma oimè! mio padre,
Sire, non vedrò più?
Dadian.   Tuo padre è giunto
Il suo Re a minacciar.
Tamar.   Sospendi ancora
Il tuo giusto rigor. Lascia ch’ei vegga
Generoso qual sei colla sua figlia,
Tel prometto, signor, verrà egli stesso
A gettarsi al tuo piè.
Dadian.   Venga e conosca
Da te sol sua fortuna.
Tamar.   O Re clemente,
O magnanimo Re! Qual donna al mondo,
Qual bellezza più schiava, o qual sovrana
Coronata beltà non arderebbe

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Dolcemente al tuo foco! Ah! se difesa

Non foss’io dal rispetto e dalla giusta
Cognizion di me stessa, ah! non so quanto
Sottrar potrei dall’adorarti il core.
Deh! perdona, signor, scusa la pura
Sincerità di chi conosce i pregi,
E gli ammira e gli onora, e in lor confida.
Dadian. Tamar, non più. Già m’accendesti a segno
Che resister non so. Vincesti, o bella,
Il mio cor, l’ira mia. Deh! lascia almeno...

SCENA IV.

Ottiana e detti.

Ottiana. Ah! mio Re, mio german, dimmi, è codesta

La schiava forse che d’Abchar mio sposo
Trafitto ha il sen con sue lusinghe indegne?
Dadian. Che sai tu di tal schiava?
Ottiana.   A mio rossore
Lo sepp’io da Macur. Macur si duole
Che rapita gli fu dal disleale;
E che tu, per timor di un tuo Visire,
Osi accordare ad Ottiana un torto.
Dadian. Tutto ancora non sai...
Tamar.   Signor, perdona.
Questa è germana tua?
Dadian.   Sì, del Visire
Sposa già destinata.
Tamar.   Ah! principessa,
Non isdegnar ch’una tua serva umile
Usi teco il dover del suo rispetto.
Non temer ch’io t’usurpi il cor che adori.
Non l’amo, non l’amai: se amar potessi
A seconda del cor, son sì superba,

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Che alzerei le mie fiamme oltre ogni grado

Di privato amator. S’io per sventura
Piacqui allo sposo tuo, non è mia colpa.
Eccone il testimon. Fui chiesta in dono
Dal Visire al sovrano; ora il sovrano
Mi ritoglie al Visir, da prieghi miei
Mosso soltanto; or potrai dir ch’io l’amo?
Ottiana. Posso fede prestarle? (a Dadian
Dadian.   Sì, germana,
Credile pur, ch’ella del vero è amante,
E non usa a mentire. Abchar in vano
Si lusinga d’averla. Ella a’ miei lumi
Ha saputo piacer. Privar non voglio
Me di tanta beltà per far felice
Un de’ sudditi miei; un che all’onore
Delle nozze innalzai di mia germana.
Frema egli pur: non troverà tornando
Tamar alle sue tende. I passi miei
Siegui, donna gentil; molto finora
Potesti in tuo favor; ma forse è il meno,
In confronto di ciò che a te destino.
Sieguimi, non temer; confida, e spera. (parte
Tamar. (Nulla darmi tu puoi, che prevenuto
Non sia dal desir mio. Sentomi in petto
Quell’ardor di grandezza, a cui son scorte
L’anime altere, non d’amore accese,
Ma da sovrano virtuoso orgoglio.
Che grandezza cercar con mezzi onesti,
È coraggio e virtù, non vizio o inganno). (parte

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SCENA V.

Ottiana, poi Abchar con seguito'.

Ottiana. O ingratissimo sposo! o indegno abuso

Di viril libertà! Non siam noi donne
Metà dell’uom che ci calpesta e opprime?
Lecito a lui sarà partir gli affetti
Con più care bellezze, e un sguardo solo
In noi colpa sarà? Santa onestade,
No, esentar tu non puoi da un’egual fede
Il viril sesso, a cui la legge istessa
11 Cielo impone e di natura il dritto.
Eccolo il traditor. Vederlo io spero
Svergognato, avvilito: ah no! non merta
Amor da me, ma vili disprezzo e orgoglio.
Abchar. Qual affar, principessa, or ti conduce
Lungi dalle tue tende?
Ottiana.   Il sol desio
Di vederti, signor, di consolarmi
Teco de’ nuovi tuoi felici acquisti;
Di pregarti dal Ciel pace e riposo
Colla bella tua schiava.
Abchar.   In van nascondi
Sotto il vel d’amistà l’ira e il dispetto.
Tu fremi, il vedo, ch’una schiava io stimi,
Che onor merta e rispetto. Ella è di sangue
Nobile e signoril. Da tuo germano
Insultata, potea di questo regno
La rovina produr. Pietà mi mosse
Più di voi che di lei.
Ottiana.   Lodo, signore,
Lodo la tua pietà. Dadian ti è grato,
Grata ti sono anch’io. Va, ti consola

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Nelle vaghe sue luci, e il premio aspetta

Che da lei t’è dovuto.
Abchar.   Io non son vago
Di ritrarne mercè. D’amor non ardo,
Qual tu pensi, di lei: la serbo al padre,
La serbo al grado suo; di fè non manco
All’illustre mia sposa, e se ti lagni,
Principessa, di me, ti lagni a torto.
Ottiana. Io lagnarmi di te? t’inganni. È giusto
Che un eroe, qual tu sei, salvi e protegga
L’innocenza depressa. Va, rinnova
L’onorate proteste all’infelice.
Fa che in te si assicuri, e più non pianga
L’ingiurioso destin di sue catene.
Abchar. Sia menzogna o virtù che in te favelli,
Sì, farò il mio dover. Se andar mi sproni,
Seguirò il tuo consiglio. Addio. (s' incammina verso la tenda
Ottiana.   Signore,
Dove addrizzi il tuo piè?
Abchar.   Ver l’infelice
Che impaziente m’aspetta.
Ottiana.   E dove speri
Di rinvenirla?
Abchar.   Alle mie tende.
Ottiana.   In vano
La ricerchi colà. Se andar ti cale
Il bel volto a mirar, dirotti io stessa
Dove puoi rintracciarla.
Abchar.   Oh stelle! e dove
Credi tu ch’ella sia?
Ottiana.   Va, se ti preme
Tamar veder, alle reali tende.
Abchar. Alla tenda real Tamar condotta?
Chi a me fece l’insulto?
Ottiana.   Il Re medesmo.

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Abchar. Per qual ragion?

Ottiana.   Perchè non meno anch’esso
Da cotanta beltà vinto e ferito,
Crede aver più poter sulla sua schiava
D’un superbo Visir.
Abchar.   Paga in tal guisa
Il tuo crudo german le mie vittorie?
Ottiana. Così paga, inumano, il vil disprezzo
Di un’offesa germana, e qui non hanno
Fine i suoi sdegni e i sdegni miei. Paventa
Chi può farti tremar. Pensa che oltraggio
Facesti al sangue suo, che questa mano
Che onorarti potea, perir può farti.
Abchar. Guarda che il minacciar su te non cada,
E sul Giorgiano vacillante impero.
Ottiana. Tanto vale una schiava? A sua bellezza
Tanto si dee sacrificar? Deh! torna
In te stesso, o Visir. V’è tempo ancora:
Puoi placar l’ira mia; puoi del germano
Disarmar la vendetta. Un sol tuo detto,
Un sincero tuo sguardo avrà ancor forza
Di riscuotermi in petto il primo amore.
Abchar. No, non sperar che più d’amor ti parli.
Chi vendetta desia, vendetta aspetti.
Ottiana. Anima rea, d’infedeltà sol paga,
Attendi il fin de’ sconoscenti insulti.
T’amai pur troppo, ora l’amor converso
È in odio e in ira, e t’abborrisco e sdegno. (parte

SCENA VI.

Abchar e Soldati, poi Dadian con Soldati.

Abchar. Ah perfidi! ah ribaldi! il cenno mio

Fu ubbidito così? Rapir lasciaste,
Vili, la schiava mia? Qual rio timore

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Concepiste d’un Re, la di cui vita

Pende dal cenno mio? Meritereste
Pagar col sangue il violato impero.
Ma no, la macchia vergognosa io bramo
Cancellata soltanto. I miei disegni
Risoluti eseguite. Andiam la schiava
A trar dal fianco al rapitor mendace,
All’ingrato monarca. E si sorprenda
Nelle regie sue tende; e fia pentito
D’aver commesso al suo Visire oltraggio.
Seguite i passi miei...
Dadian.   Dove, o Visire,
Dove ardito t’inoltri?
Abchar.   A chieder vengo
La mia schiava, signor.
Dadian.   Con gente armata
Vieni a chieder mercè?
Abchar.   Da gente armata
Mi fu tolto un tuo dono.
Dadian.   I doni miei
Non poss’io revocar? Non m’hai tu stesso
Questa massima impressa?
Abchar.   Altro è un vil schiavo
Altro, Sire, è un Visir.
Dadian.   Ma sempre io sono
D’Imerette il monarca.
Abchar.   Anche i monarchi
Soggetti sono d’onestà alle leggi,
E son vindici i Dei de’ torti umani.
Dadian. Non temer che la schiava abbia a soffrire
Onte, insulti e dispregi. A te ragione
Rendo e a’ giudizi tuoi nel creder degno
Di rispetto e d’amor quel viso adorno.
Tu che di sua beltà conosci il pregio,
Compatirmi potrai...

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Il furor, la vendetta. Empio monarca,

Chi son io, t’avvedrai. Vedrai qual braccio
Perde la tua viltà. Vedrai se vaglia
Un ministro fedel per mille armati.
Corrasi tosto alla vendetta, all’armi,
Alle stragi, alle morti, alle ruine. (parte


Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Nell’ed. Zatta qui e stampato Abcar.
  2. Nel testo: gl’armati suoi.
  3. Nell’ed. Zatta è stampato: del mio Visir superbo.