Atto I

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Personaggi Atto II
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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Campo di Dadian sulle rive del fiume Kodur, padiglione reale ed altre tende inferiori, carriaggi, armi, bagagli ecc.

Dadian, Arcuar, Macur, Schiavi, Soldati, Guardie, poi Chechaiz.

Dadian. Olà, basta, Visir, più non parlarmi

In favor di Bachrat. Sai che mi offese,
Sai che insulti non soffro, e sai che in vano
A disarmar lo sdegno mio t’adopri.1
Al regno d’Imerette unir io voglio
Di Gurielle il principato, e voglio
Che conosca la Giorgia un padron solo.

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Abchar. Ma tu, signor, dal Caucaso gelato

Sino alle rive del mar Nero imperi,
Ed imponi le leggi, ed hai tributi.
Non ha di prence Bacherat che il nome,
E se questo gli togli e la provincia
Rendi priva d’un capo, i sediziosi
Di Guriel solleveransi a gara,
E pena avrai di soggiogarli un giorno.
Dadian. Compiasi pur la mia vendetta, e il ferro
Che troncar dee del contumace il capo,
Faccia tremar chi a sedizioni aspira.
Abchar. Ah! signor, sì gran colpo!
Dadian.   Olà, t’imposi
Di cessare a suo pro discolpe o preci.
Grave è sempre il delitto in chiunque ardisce
D’opporsi al mio voler. Di cento schiave
Ch’io gli chiesi in tributo, appena offerte
Me n’ha tre volte o quattro volte dieci,
E le men belle e le più vili ha unite.
Il Sofì della Persia a me venduta
Ha la pace contesa al solo prezzo
Delle belle Giorgiane, e sol per esse
Poss’io goder tranquillamente il regno.
Sa Bacherat in qual impegno io sono,
Sa che può sol di belle schiave il pregio
Farmi caro al nemico, e per dispetto
Le più schifose e più deformi ha scelte?
Paghi sua vita il malizioso inganno;
E in avvenir potrò mandar io stesso
Nella vasta provincia a trar dal seno
D’accorte madri di bellezze il fiore.
Chechaiz. Signor, su picciol disarmato legno
Giunse testè di Bacherat un messo,
Che desia favellarti.
Dadian.   Odasi; in guisa

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Non d’amico però, ma di nemico.

S’incateni il messaggio; al mio cospetto
Strascinato egli sia, più che condotto.
E lungi dal sperar pel suo signore
Pace, triegua e perdon, m’ascolti e tremi.
Chechaiz. Ubbidito sarai. (parte
Abchar.   Deh! non volerti
Espor, signore, ai disperati sdegni
D’un popolo feroce. In parte siamo
Perigliosa, sospetta. Al campo intorno
Non abbiam che nemici; e guai2 se nuovo
Furor gl’irrita 3 ed a vendetta i’ move!4
Dadian. L’ammutinato popolo nemico
Non può farmi temer. Senz’arte e senza
Militar disciplina, avvezzo solo
A rapine, a saccheggi, e a gire intorno
Quai pecore confuse e senza freno,
L’urto non sosterrà de’ miei guerrieri.
Abchar. Molto più del valor, più assai d’ogn’arte
Puote talor disperazion feroce.
Dadian. Viltà move il tuo labbro.
Abchar.   Ah! no, signore.
Di’ che fede più tosto e zel mi sprona.
Dadian. La fede, il zelo a rispettar t’insegni
Del sovrano la legge. Ecco il nemico
Fra catene guidato.
Abchar.   Almen...
Dadian.   T’accheta.
(siede sopra un guanciale

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SCENA IL

Vachtangel, Chechaiz con seguito, e detti.

Vachtangel. Illustre eccelso Dadian, supremo

Can della Giorgia, regnator felice
D’Imerette e Mingrelia, a cui tributa
Il mar, la terra e la fortuna omaggio.
Sperai recar del mio signor in nome
A te del suo dover, del suo rispetto,
Verace testimon, ma non credei
Venir accolto fra catene e armati.
Che sperare poss’io, che sperar puote
Bacherat, o signor, se un suo messaggio
Qual nemico tu tratti, e senza colpa
Fra lacci avvinto al tuo cospetto è scorto?
Dadian. Pria che tu sappia che sperar si possa
Da te, dal signor tuo, di’ qual ragione
Venir t’ha mosso ed a qual fin sei giunto?
Vachtangel. Sappi, o signor, che Bacherat si duole
Che tu offeso da lui ti chiami e credi.
Lo scarso stuol ch’ei t’inviò di schiave,
Colpa non è di lui, ma del paese
Scarso in quest’anno di donzelle, appunto
Come suole il terren d’ogni altra messe
Scarseggiare talor. Giura che scelte
Ha le meno imperfette: e se non credi
Al sincero suo dir, mandar tu stesso
Puoi le tue genti a Guriel d’intorno,
E assicurarti ch’ei mentir non suole.
Ma per darti, signor, della sua fede,
Dell’amicizia sua piò certo segno,
Tale offerta ti reco e tal tributo,
Che il dritto forse e il suo dover sorpassa.
Recoti, o Re, (misero me! qual duro

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Sacrifizio al mio cor! qual aspra legge

Obbedire degg’io!) Ti reco, o Sire,
Del mio signor, di Bacherat in nome,
La figlia sua, la bella figlia in dono.
Merta ben ella d’occupare il soglio
Del Sofì della Persia, e puoi con essa
Merito farti, ed ottener mercede.
Dadian. Sia timor che lo sprona o sia dovere,
Non accetto qual don, ma qual tributo,
La figliuola d’un prence a me vassallo.
Venga costei, non destinata al cenno
Del Sofì della Persia, ove talvolta
Suol fortuna condur le schiave al trono;
Ma all’uso vil cui destinar mi piace
Di un nemico la figlia. Al più infelice,
Al più vil de’ miei servi io donar voglio
Questa rara beltà, sprezzata prole
Di un genitor, di cui la testa io bramo.
Olà. Venga Macur.
Macur. (Si avanza un poco.
Dadian.   Macur, ti appressa.
Schiava ha seco costui ch’io sprezzo e sdegno;
A te recola in dono, e tua la rendo.
Usane a tuo piacer, nè fia chi ardisca
D’opporsi al mio volere. Al messaggiero
Si disciolgano i lacci. Vanne, e reca (s’alza
Al tuo signor, come i suoi doni accolgo, (a Vachtangel
E quanto il sangue suo stimo ed apprezzo.
(parte con Chechaiz

SCENA III.

Vachtangel, Abchar, Macur, Guardie.

Vachtangel. (Oh Tamar infelice! Oh sventurata

Meta dell’amor mio!)

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Macur.   Qual schiava è questa,

Che il mio Re vuol donarmi? (a Vachtangel
Vachtangel. O vile, o indegno
Di posseder tanta bellezza, e tanta
Peregrina virtù! Mal ti lusinghi,
Se il cor di lei che in nobil cuna è nata,
Assoggettare al tuo voler tu speri.
Macur. Tanto meglio per me s’è bella e adorna.
Tanto maggior del mio signor è il dono:
E tal son io, cui non dispiace il bello,
Nè d’esser parmi di tal sorte indegno.
Vachtangel. Deh! tu, signor, che a sostener mi sembri
Nobil grado prescelto, usa pietade
A una misera figlia, e non permetti
Che da schiavo vulgar sia posseduta. (ad Abchar
Abchar. Sacro è il cenno del Re, nè lice altrui
Disubbidire o interpretar suoi detti.
Guardie, da voi Macur si scorti al lido;
Abbia la schiava in suo potere, e alcuno
Onta in ciò non gli rechi. Va, ricevi
Del tuo signore il prezioso dono. (a Macur
Macur. Vado, signore. Da qui innanzi io spero
Farmi molti invidiosi e molti amici.
(parte con le Guardie

SCENA IV.

Vachtangel ed Abchar5.

Vachtangel. Ah! non fia ver...

Abchar.   T’arresta, ad ogni passo
Un periglio tu incontri; e non è poco
Che sciolto il piè la libertà ti renda
L’irritato signore.

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Vachtangel.   Ah! ceppi e morte

Vorrei prima soffrire, anzi che d’onta
Veder macchiato di Tamarre il seno.
Abchar. L’ami tu forse?
Vachtangel.   Sì, l’amo, il confesso.
E amor mi sprona a riparar col sangue
L’onor, la gloria di colei che adoro,
O morir prima ch’io la vegga oppressa.
Abchar. Come amarla puoi dir, se qui tu stesso
La recasti in tributo, e se l’esponi
A gir anch’essa fra le schiave un giorno
Dell’aram del Sofì?
Vachtangel.   L’amore istesso
Diemmi il fiero consiglio. Il padre io vidi
Del bell’idolo mio tremar, veggendo
Il vostro Re contro i suoi stati armati.
L’unico mezzo per placar suo sdegno
Giudicò la figliuola: a lei si espresse,
Ella v’acconsentì. Chinar la fronte
Dovetti io pur al mio destin: ma certo,
Che se in Persia ella giugne, e se la mira
Il sovrano Sofì, non tarda un giorno
A sollevar tanta bellezza al trono.
Poco amarla saprei se io non sapessi
Preferire al mio amor la sua fortuna;
E soffocando i miei sospiri in petto,
Io ministro mi fei del mio martoro.
Fin qui le voci di virtù ascoltando,
Fei tacere l’amor: ma s’io la veggio
A destin vergognoso espor da un’empia
Orgogliosa vendetta, ah! non ho core
Di soffrirlo e tacer. Nè fia ch’io torni
Vivo colà, donde partimmo uniti,
S’ella agl’insulti dal tiranno è esposta.
Abchar. Che disegni di far?

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Vachtangel.   Mal confidarmi

A un nemico potrei.
Abchar.   Men che tu credi
Nemico i’ sono al tuo signor. Per esso
M’eccitai contro del mio Re lo sdegno,
Perorando per lui. Dadian rispetto;
È mio Re, mio sovrano, io suo Visire.
Ma abborrisco i tiranni, e ingiusto io trovo
Che con vani pretesti accrescer tenti
Coll’altrui danno la ricchezza e i stati.
Ministro i’ son de’ cenni suoi, ma sdegno
Esser ministro di barbarie ingiusta.
Lascia che il vil Macur la giovin abbia.
Onta non le farà; dalle sue mani
O trarrolla col prezzo, o il servo abbietto
Farò perir, se a possederla insiste.
Tanta beltà, tanta virtù che intesi
Dal tuo labbro esaltar, m’invoglia averle
Quella pietà ch’è di lei degna. Guardie,
Pria che Macur colla straniera inoltri
Il piè alle tende, l’un e l’altra i’ voglio
Veder io stesso e ragionar con seco.
Ite e qui li guidate. (parton le Guardie
Vachtangel. O saggio, o illustre,
O pietoso Visir. Condegno aspetta
Premio dal mio signor: non è qual pensi
Lungi da noi di Bacherat l’aspetto.
Abchar. Celato è forse in vicinanza il prence?
Vachtangel. Sì, l’amor che tu mostri all’onestade,
E alla giustizia, e alla ragion, non merta
Ch’io t’asconda un arcano. Io però svelo
Ciò che nuocere a me potria soltanto,
Non a lui, che sicuro è d’ogn’insulto.
Due tiri d’arco non è lungi il prence
In folta macchia rimpiattato, e cinto

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Con quanti armati pon bastare all’uopo

Di rispignere i vostri. Ei colà aspetta
Udir come all’offerta il Re sia grato,
Per esser presto a ragionar di pace,
O vender cara la sua vita almeno.
Confido in tua virtù, temer non posso
Da’ tuoi detti un inganno, e in ogni evento
Sappi che il mio signor, più ch’altri crede,
Ha coraggio, ha fortezza, e ha genti armate.
Segui, s’è ver che in suo favor parlasti,
Segui l’opera degna, e ti assicura
Di mercé generosa al tuo consiglio.
Abchar. Va dal principe tuo. Di’ lui che speri
Calmato il Re da’ miei consigli, o oppresso
Dal mio poter, se a mal voler s’ostini.
Vachtangel. E partire dovrò, senza ch’io possa
I begli occhi mirar?...
Abchar.   Non trattenerti,
Se ti cal di salvarla.
Vachtangel.   Oh Dei! rammenta
Che il Ciel vendicator...
Abchar.   L’indegno torto
Non mi far di temer. Non è discorde
Dal mio labbro il mio core.
Vachtangel.   Ah! sì, fidarmi
Vo’ nella tua virtù. Ma allor ch’io torni,
Mi sarà dalle guardie aperto il varco?
Abchar. Venir potrai, quando t’aggrada: io stesso
Darò l’ordin per te. Fa che il tuo nome
A me ignoto non sia.
Vachtangel.   Vachtangel sono,
Non oscuro guerrier. Secondi il Cielo
La tua pietade e i voti miei. Se mai
Tamar di me chiedesse, ah! dille almeno
Ch’io le son fido, e che per essa io parto. (parte

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SCENA V.

Abchar6 solo.

Abchar. Qual vendetta inumana e qual indegno

Sacrifizio far tenta un Re crudele!
Giovine è ancora e gioventù l’inganna,
Presumendo sia tutto ad un monarca
Lecito in terra, e che sul regio capo
Non comandi onestà, natura e il Cielo.
Io quello fui che il contrastato soglio
Gli assicurai di tre germani a fronte,
E a dispetto dei più regnare io il feci.
Or di me più non cura, or mi rigetta
Arditamente i miei consigli in faccia?
Vuol regnar da tiranno, e vuol... Ma è questa
La donzella infelice? Oh qual sembiante
Nobile, maestoso! Oh come altera
Move il labbro ridente, e le pupille
Volge senza timor! Non anche ad essa
Noto è forse il destin che le sovrasta.
Tanto ardito non ha forse quel vile,
Vinto e confuso dal gentile aspetto.

SCENA VI.

Tamar, Macur ed il suddetto.

Tamar. (Cuore, non t’avvilir: che se ti perdi,

Degno ti crederan d’onte e dispregi).
Macur. Che vuoi, Visir, perchè veder ti preme
La schiava mia? Perchè di bella il vanto
Sentisti ad essa attribuir? Sì, è bella;

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Ma è cosa mia. Mi fu dal Re donata,

Nè alcun può trar dalle mie man tal dono.
Tamar. (S’i’ non sperassi migliorar destino,
Ferir vorrei colle mie man quel vile).
Abchar. (Noto ad essa è l’oltraggio, e ’l soffre in pace?)
Macur. Vieni alla tenda mia. (a Tamar
Tamar.   Sì, lascia in prima
Che al ministro del Re tributi omaggio;
Poi sarò qual mi vuoi. (L’arte giovarmi
Potrà più dell’orgoglio).
Macur.   (Non vorrei
Che piacesse a lui pur).
Tamar.   Signor, perdona;
Il nome di Visir che darti ho inteso,
Mi assicura che sei del Re ministro.
E il dolce e grave venerando aspetto
Segno è che nutri un nobil core in seno.
Tu saprai chi son io, saprai ch’io vanto
Sangue d’un genitor sovrano anch’esso,
Benché d’incolte povere provincie.
Ed a fronte di un Re men grande e forte,
Pur siam liberi ancora, e ancor godiamo
Quella sovranità che il Ciel ne diede:
E se vengh’io dal genitore offerta
Per ostaggio di pace ed amicizia,
Non perdo il fregio di natura, e merto
Dalle schiave vulgari esser distinta.
Così m’accoglie il tuo signor! Mi dona
Al più vil de’ suoi servi! È ver, non sono
Di beltà rara e di bei fregi adorna,
Ma spregevol non parmi esser cotanto
Per esser data alla vil plebe in preda.
Deh! il tuo tenero cor salvi, protegga
L’innocenza, l’onor. Placa gli sdegni
D’un sovrano irritato; e s’io non sono

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Degno prezzo per lui di pace e amore,

Fa che stimolo i’ sia di tua virtude.
Usa la tua bontà; rendimi, o prode,
S’io non merto pietà, giustizia almeno.
Abchar. (Che soave parlar! che dolce foco
Esce dal bel di quelle luci!)
Macur.   Andiamo.
Abchar. No, Macur, non sperar che a te rimanga
Sì vezzosa beltà. Rapir non voglio
Ciò che il Rege ti dona. Usar tu puoi
Del reale favor, chiedendo il prezzo
Da chi brama acquistarla.
Macur.   Io non vo’ prezzo;
Vo’ la donna, mi piace, e ad ogni costo
Cederla non vogl’io.
Abchar.   Se non vai teco
Generosa mercè, varrà la forza.
Macur. So che più del Visir potrà il sovrano.
Abchar. E il sovrano dovrà l’incauto dono
Revocar per giustizia.
Macur.   Un Re non manca,
Quando accorda un favor.
Abchar.   T’accheta, e parti.
Macur. Non partirò senza la schiava.
Abchar.   In vano
Speri teco condurla. Un servo abbietto
Non ardisca al Visir opporsi ardito.
Macur. Se violenza mi fai...
Abchar.   Guardie, l’audace
Da me lungi si tragga. (le Guardie si muovono
Macur. 9Un’ingiustizia
Son costretto a soffrir. Lo so che tutto
L’avidità del ministero usurpa;
So che del regno d’Imerette i grandi
Spoglian del meglio gl’infelici, e ad essi

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Credon tutto dovuto, e sotto il piede

Pongonsi I’onestà.
Abchar.   Taci, o tacere
Per sempre io ti farò.
Macur.   Sì, so ancor questo,
So che la verità punge e dispiace. (parte

SCENA VII.

Tamar ed Abchar, e Guardie.

Tamar. Deh! signore, per me non far che l’ira

Alteri il bel seren del tuo sembiante.
Abchar. Poco saria, se in tuo favor di sdegno
M’accendesse ragion. Più m’arde in petto
Quel vivo ardor che una bellezza inspira.
Tamar. Di’ che senti pietà di mie sventure,
E crederlo potrò; non dir che amore
Vaglia a destar. Scarso favor natura
Al mio volto accordò. Non han mie luci
L’arte, il poter di meritar gli affetti.
Abchar. Tal potere, tal arte abbondar suole
Fra voi, belle Giorgiane: e non a caso
Turchi, e Persiani, e Tartari, e Cinesi
Vengon la Giorgia ad ispogliar di donne.
Ma tu, Tamar vezzosa, hai sopra tutte
Il primier fregio di bellezza, e imprimi
Tenerezza e rispetto in chi ti mira.
Vinto son da’ tuoi lumi. In tua difesa
Impegno il mio poter, non per usarti
Violenza ardita ed usurparti io stesso
La libertà cui giustamente aspiri;
Ma perchè illesa dall’oltraggio indegno
Cui ti espone il monarca, a tuo talento
Amar tu possa e disamar qual brami.

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Vachtangel, lo so7, t’adora, e forse

Il tuo cor gli donasti. Io la mia fede
Data ho ad Ottiana, alla germana illustre
Dello stesso mio Re: ma non per questo
Legati siam, sicché sperar non s’abbiano
Da un concorde voler disciolti i lacci.
Pensaci: non temer che ad insultarti
Aspiri l’amor mio; pregarti intendo,
E col tuo cenno regolar gli affetti,
E servirti ed amarti ancor nemica.
Tamar. Ah! Visir, chi potrebbe a tal bontade
Inumana mostrarsi, avversa e ingrata?
Arbitro sei di me; Vachtangel amo
Più per dover che per affetto. Il padre
In periglio veggendo il picciol stato,
Quegli scelto m’avea per mio sostegno.
Ma un sostegno maggior se m’offre il Cielo,
Io ne son paga, e sarà pago anch’esso.
Usami la pietà che il cor t’ispira:
Sarò grata ad amore ed alla fortuna.
(Di fortuna mi cal più che d’amore).
Abchar. Basta così; non dubitar, seconda
I miei teneri voti e i miei disegni.
Tamar. E in chi degg’io sperar, se in te non fido?
Abchar. Guardie, alla tenda mia Tamar si guidi.
Niuno ardisca accostarsi, a costo ancora
D’adoprar l’armi in sua difesa e scudo.
Chiederotti io medesmo al Rege in dono,
Nè creder vo’ che al suo Visir contrasti
Ciò che incauto concesse a schiavo indegno.
Se ’l niegherà, peggio per lui. Mi aspetta
Alle tende vicine. (Oh forza! oh incanto!
Oh poter di beltà! vincesti, amore). (parte

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Tamar. Che mi giova il natal, se il padre istesso

M’espon vilmente al periglioso evento?
Son beni miei, vezzi, lusinghe e sguardi;
E usarne i’ voglio in mio favor. Se il caso
M’offre stato migliore, io lo secondo.
(parte colle Guardie


Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Nell’ed. Zatta c’è qui il punto interrogativo.
  2. Così si legge nelle ristampe dell’ottocento. Ma nell’ed. Zatta è stampato quai.
  3. Così è stampato nell’ed. Zatta e nelle ristampe dell’ottocento.
  4. Nell’ed. Zatta c’è il punto interrogativo.
  5. Nell’ed. Zatta qui è stampato Abcar.
  6. Nell’ed. Zatta anche qui è stampato Abcar.
  7. Così il testo spesso scorretto dello Zatta. Forse è da leggere: io lo so.