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452 ATTO SECONDO
Tamar.   Ah! sì, pur troppo

Abbonda il mondo di menzogne, e ammiro
Chi ne sospetta, e tiene in guardia il core.
Ma, signor, perchè mai condire il labbro
Teco dovrei di falsi detti? Il padre
Mi vuol tua schiava, a te mi manda, e pende
Dal tuo cenno il mio fato; e se fia d’uopo
Di tua pietà per migliorar mio stato,
Usar degg’io sincerità, non frode.
Odi quel che sa dirti un’infelice
Col pianto agli occhi, e sulle labbra il core.
Duoimi che il padre mio mal ti conosca,
E poco in tua bontà speri e confidi.
S’egli avesse il mio cor, s’egli pensasse
Qual io penso di te, verrebbe ei stesso
A prostrarsi al tuo piè, certo d’avere
Grazia pace perdon da un Re pietoso.
Oh volesser gli Dei che al genitore
Favellar potess’io! Pinger sì al vivo
Vorrei quel dolce signoril sembiante,
Che s’invaghisse di venir giulivo
A depor nel tuo sen l’ire, gli sdegni.
Perchè mandar ad un monarca offeso
Una figlia infelice, e non piuttosto
Correr ei stesso a dimandar pietade?
Perchè a sì grande necessaria impresa
Sceglier me disadorna, a cui fu avara
De’ suoi doni natura, e manca ogni arte?
Ecco il giusto motivo, ond’io soffersi
Il rossor di vedermi a un servo in preda.
Grazie alla tua bontà, passai da un laccio
Ad un altro men vil: ma laccio è sempre;
E il superbo mio cor ne freme ancora.
Ora dimmi ch’io mento. Ecco ch’io stessa
L’ardir mio ti paleso. Io son sì altera,