La Veste d'Amianto/Il volo che schiantò un cuore
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LA VESTE D’AMIANTO
Il volo che schiantò un cuore.
Si separarono all’entrata del recinto.
Egli s’inchinò in un saluto correttissimo mentre il lampo degli occhi e la stretta della mano esortavano ancora e pregavano insieme:
— Coraggio!
Ella susurrò rapida:
— Che Dio ti assista, caro!
E dal suo sguardo intenso d’angoscia e di speranza parve sprigionarsi una carezza ardente e tenera che volesse avvolgere il diletto come un possesso e una protezione.
Subito furono staccati.
L’onda della folla travolse Eva fin oltre lo steccato, la spinse verso le tribune e la lasciò — diradandosi, sciogliendosi, sparendo — sola e sperduta all’angolo estremo del breve viale tagliato fra lo steccato di cinta all’aereodromo e le tribune.
Prima di pensare a scegliersi un posto ella si rivolse a cercare collo sguardo, sul campo, la figura del diletto che s’era portato via tutta la sua anima.
Non lo vide.
Allora s’avviò verso la gradinata, della tribuna centrale cercando un posto in alto in alto da dove poter dominare il campo e distinguere nettamente l’hangar e seguire dettagliatamente tutta la manovra degli aviatori. Lo trovò nel penultimo giro delle tribune. Uno scanno era libero proprio accanto alla gradinata, cosicchè Eva non dovette neppure disturbare nessuno per recarsi ad occuparlo.
Ancora da lassù il suo primo sguardo fu per il campo. Ettore Noris non si vedeva.
— Sarà nell’hangar, intorno al suo apparecchio, — pensò Eva.
C’era invece, sul campo, in mezzo a un gruppo di giornalisti e d’uomini sportivi, Lorenzo Rolla che doveva pilotare un Farman e che era già in tenuta da volo; scafandro di tela cerata ed elmetto di cuoio.
Istintivamente, Eva confrontò il costume di Lorenzo Rolla con quello di Ettore e pensò che quest’ultimo era più scuro e più opaco.
— Più funebre, — pensò con un brivido.
Poi, il suo povero cuore malato prese a battere con violenza perchè quel pensiero improvviso le era parso di malaugurio.
— No, no, no! — disse mentalmente, con forza, come a scongiurare la possibile sventura.
Ettore avrebbe vinto, Ettore doveva vincere.
Ma come tremavano, adesso, i suoi gracili polsi e come le battevano, alle tempia, le arterie!
Come poteva la moglie di Lorenzo Rolla essere così serena e tranquilla?
Dal suo posto Eva la vedeva benissimo seduta presso all’hangar, circondata da una piccola corte di giovani eleganti intenta a chiacchierare, a scherzare, a ridere. Non temeva, dunque? o non comprendeva il pericolo? o non amava suo marito e poco le importava di lui?
Ecco, ella rideva rideva buttando indietro la testina civettuola stracarica di riccioli posticci, scoprendo due file di denti candidissimi tra le labbra tinte di carminio e una gola bianca nuda, libera, palpitante.
Era bella la moglie di Rolla.
Una fitta improvvisa di gelosia attraversò violenta e rapida come un colpo di pugnale il cuore di Eva.
Anche Noris avrebbe veduto che quella donna era bella e quella donna, forse, avrebbe ambito anche l’omaggio di Noris.
Bastò un attimo di riflessione per dissipare la preoccupazione nuova: il ricordo vivo vivo dell’amore ardente di Ettore, il pensiero di quello ch’egli si accingeva a fare per lei.
Nessuna donna glielo avrebbe tolto il suo amore poichè di belle donne è pieno il mondo e malgrado questo egli l’aveva prescelta fra tutte e l’aveva collocata sopra un altare come una Madonna, e la nascondeva con cura gelosa agli occhi di tutti e sognava di portarsela via, lontano lontano, dove nessuno li conoscesse più, dove tutto fosse loro estraneo ed essi fossero estranei a tutti per vivere più intima e più piena la vita del loro amore.
Ma Ettore voleva che questa vita fosse larga e dolce e sicura specialmente per lei ed era appunto per raggiungere i mezzi di realizzare il suo sogno ch’egli s’era fatto aviatore e iniziava quel giorno la sua nuova carriera.
Intelligente, risoluto, audace, egli aveva calcolato a lungo quale fra le sue qualità fosse stata la più atta a rendergli presto e sicuramente i larghi profitti indispensabili per tradurre in atto i suoi progetti e aveva concluso per l’audacia.
Bisognava sfruttare il coraggio freddo e sicuro sortito da natura e non c’era che una via: farsi aviatore.
Non era riuscito senza difficoltà.
Tutti avevano tentato di dissuaderlo: parenti, amici, amante. Egli aveva resistito alle esortazioni dei parenti, alle dissuasioni degli amici, alle lagrime di Eva. Gli era occorsa una gran forza per resistere ad Eva. Questa era stata veramente la parte più aspra della lotta, ma infine, la sua volontà aveva avuto ragione anche delle ribellioni appassionate della piccola compagna che della impresa nuova non vedeva che i pericoli e disprezzava il miraggio della fortuna, presa tutta dalla dolce febbre del suo amore e paga di quello.
Ancora adesso, ancora adesso, egli aveva piegato alla sua volontà la docilità di Eva ma non l’aveva convinta.
Ella s’era rassegnata perchè aveva compreso che ogni sua resistenza sarebbe stata inutile, perchè aveva intuito nell’entusiasmo nuovo di Ettore qualcosa di più dell’intenzione di far fortuna: la passione viva dell’avventuroso, dell’arrischiato, del difficile; e non s’era sentita in diritto di contrariarlo e aveva anche temuto un poco, in una opposizione risoluta e violenta, un possibile pericolo pel suo amore.
Non era una tempra di lotta la sua.
Forse Ettore Noris l’aveva amata per contrasto: perchè ella era fragile quanto egli era forte: fragile nella personcina flessuosa, nel viso perlaceo, nella bocca malinconica, nei grandi occhi scuri velati sempre dal sogno e dal languore, nell’onda greve dei capelli biondissimi ch’erano quasi un peso e una sofferenza pel suo esile collo venato d’azzurro, nel piccolo cuore malato, infine, cui i medici proibivano qualsiasi commozione e che bruciava la sua vita con una costante intensità d’emozioni centuplicante il suo lavorio misterioso.
Per contrasto l’aveva amata Ettore Noris che aveva un forte cuore sano e sicuro dentro un largo petto d’atleta e un austero viso orgoglioso e risoluto che per lei sola sapeva raddolcirsi sino alla commozione, e una fiera testa bruna sempre alteramente alzata in un atteggiamento di perpetua sfida contro qualcosa o contro qualcuno.
Naturalmente Eva non era stata il primo amore di quest’uomo che aveva fatto assai precocemente il suo tirocinio di vita ed era giunto a ventisei anni con una esperienza sentimentale d’eccezione, ma ella era, adesso, nella sua vita, l’amore — la tenerezza profonda e insieme la febbre; tutto il pensiero e tutto il cuore e tutto il desiderio. Quello che non gli era mai accaduto, di sognare come la più grande felicità di trascorrere tutta la sua vita accanto a una creatura, egli lo aveva provato, lo provava per Eva. Il possesso d’ogni giorno non gli pareva mai definitivo, lasciava sempre un’irrequietezza al suo desiderio, una trepidazione alla sua sicurezza.
Perchè questo avvenisse, di che cosa fosse fatto il fascino di quella creatura ardente e mite, con quali segrete forze ella riuscisse ad avvincerlo così, egli non sapeva e nemmeno cercava.
In realtà, Eva lo teneva soltanto colla forza del suo amore ed era semplicemente il fascino di quell’amore che Ettore Noris subiva. Egli non aveva mai amato nessuna donna come amava Eva ma, anche, nessuna lo aveva amato mai come quella lo amava. Qualcuna lo aveva forse desiderato con maggiore violenza o cercato con maggior febbre o conteso con spasimo di gelosia o avvinto con raffinata arte o lusingato con devozione fedele o più profondamente turbato con vicende drammatiche complicatrici....
Nessuna aveva mai saputo dargli il senso d’assoluto che l’amore di Eva gli dava. Egli sentiva d’essere entrato definitivamente nella sua vita e per sempre, d’aver messo il suggello sul suo corpo e sulla sua anima, primo ed unico, nel tempo e nell’eternità. E che ella gli apparteneva come gli apparteneva il sangue delle sue vene, il battito del suo cuore, la febbre del suo pensiero.
Sentiva che nessun uomo avrebbe potuto essere per una donna più di quello ch’egli era per la sua piccola compagna: l’amante, il marito, l’amico, il padre, il fratello, Dio.
Ancora sapeva come nella perfetta semplicità e sincerità del suo cuore ella trovasse in lui tutte le bellezze, tutte le qualità, tutte le virtù: come fosse affascinata dal suo coraggio e innamorata dei suoi chiari occhi sempre un po’ corruschi sotto la pennellata violenta delle sopracciglia nerissime; come la seducesse il suo ingegno che ella esaltava sino alla genialità e la piegasse il bacio della sua molle bocca ardente che ella diceva chiudere nel suo cerchio magico tutta la vita e tutta la gioia.
Questo amore fatto di venerazione e di fede si traduceva anche in forza per Ettore Noris. Ancora più salda era diventata la fiducia ch’egli aveva in sè stesso dacchè Eva credeva tanto ciecamente in lui. E provava il bisogno di fare qualcosa che davvero giustificasse l’alto concetto che la sua piccola amata aveva di lui, qualcosa che confortasse codesto concetto e si traducesse ancora in alimento d’amore.
Per questo egli aveva voluto che Eva assistesse quel giorno al suo primo volo che egli pensava sarebbe stato il suo primo trionfo. Un pensiero e un orgoglio d’amante, unicamente, avevano determinato la sua preghiera. Forse Eva lo avrebbe amato di più o per lo meno avrebbe aggiunto alla trama del suo amore un nuovo filo e diverso quando avesse risentito l’emozione nuova d’un simile trionfo «voluto per lei, cercato per lei»...
Ed Eva non aveva saputo resistere. Ormai, a quell’ora, il suo cuore aveva compiuto intero il sacrificio. Da tre mesi — dal dì della prima risoluzione di Noris a quello del suo esame di pilota — ella era andata sforzandosi d’abituarsi all’idea di sapere il suo diletto alle prese, ogni giorno, colla morte.
Ora, aveva quasi raggiunto la rassegnazione. Non intimamente, non sinceramente, ma in forma sufficiente per rassicurare Noris e tranquillarlo. La grande fede che ella aveva nell’amato contribuiva alla sua rassegnazione: Noris era così audace e così freddo! si sentiva così sicuro!
Certo se qualcuno riuniva tutte le attitudini necessarie per riuscire nel pericoloso gioco e scampare nel diuturno duello colla morte, quegli era lui.
Ancora adesso ella pensava tutte codeste cose pensate mille e mille volte, rifaceva il ragionamento che da tre mesi andava facendo a sè stessa quotidianamente, mentre i suoi occhi non cessavano dall’indagare se apparisse sul campo la figura di Ettore Noris.
Lo vide finalmente uscire dall’hangar attorniato, circondato, preso da un gruppo di amici, di conoscenti, di semplici curiosi: lo vide stendere le mani per farsi largo e girare il viso verso le tribune e fissarle corrusco....
Cercava di lei, cercava di lei....
Un’onda di sangue affluì al cuore di Eva, salì a imporporarle il viso, a dare vertigine al suo cervello, a mettere un ronzio di febbre nelle sue arterie, alle tempia, poi ridiscese violentemente al cuore lasciandola sbiancata in viso, rigida e immota....
Non la vedeva, Ettore, non la vedeva?
Ella invece lo beveva cogli occhi cercando la nota linea snella della sua cara figura sotto lo scafandro che lo ingoffava un poco.
Era già pronto Noris. Fra poco, dunque, il giuoco terribile sarebbe cominciato.
Non ebbe tempo d’abbandonarsi alla impressione di sgomento che suscitava in lei l’idea di questa imminenza.
Improvvisamente ella aveva sentito su di sè, dolcissimi e imperiosi, gli occhi di Ettore Noris che finalmente l’aveva scoperta.
Si sorrisero da lungi.
Ettore alzò anche una mano in segno di saluto e mille occhi, dal campo e dalle tribune, seguirono la direzione di quel gesto senza riuscire a cogliere dove fosse diretto.
Un’altra volta il viso di Eva si fece di porpora.
Accanto a lei, una giovane donna molto appariscente e per l’artificio d’un viso lavorato con sapienza e per la vistosità d’una toeletta audace, osservò forte al suo compagno di sinistra:
— Noris ha salutato qualcuno qui nelle tribune.
Il compagno domandò:
— Quale è il Noris?
— Quello vicino allo steccato.
— Ah!
— Un bel ragazzo, — commentò ancora la donna.
Ed Eva sentì disciogliersi in un’onda di languore piacevolissimo la tensione dell’orgasmo che la teneva da qualche istante.
Sì, Ettore era bello ed era tutto suo, tutto suo, tutto suo!
Per la prima volta sentì sorgere nel suo amore un senso d’orgoglio.
Suo! suo! suo!
Mille occhi di donna contemplavano in quell’istante il suo diletto con infinite sfumature di sentimento e ognuna di queste sfumature era inutile e inutile era lo sfoggio di tutte quelle bellezze. Nessuna di quelle donne avrebbe avuto da Noris un sorriso perchè Noris era tutto suo.
Quasi a confermare il suo pensiero, Ettore Noris passava in quell’istante dinanzi alla moglie di Lorenzo Rolla che gli si rivolgeva sorridendo e procedeva oltre chinando appena il capo in un saluto breve.
— Grazie! — gli susurrò Eva da lungi protendendo verso di lui tutta la sua anima in un impeto di passione e di gratitudine.
Dio, come si sentiva felice!
Non fosse stato il terrore di quella prova imminente, ella si sarebbe proclamata, adesso, la più felice fra le donne.
Ancora una volta il rammarico insorse. Perchè, perchè Ettore aveva prescelto quella vita? Non avrebbero potuto vivere sempre tranquilli in una mediocrità che il loro amore faceva davvero aurea, in una modestia che la loro felicità trasfigurava.
Inutile il rammarico, ormai.
Fra poco, fra poco la terribile prova sarebbe cominciata.
Ecco: adesso il pubblico cominciava a impazientirsi e reclamava con insistenti battimani l’inizio dello spettacolo. Qualcuno, dal campo, fece un cenno e la banda militare, raccolta in un angolo in capo al viale maggiore di fianco al recinto, attaccò una marcia di moda per ingannare l’attesa.
Lorenzo Rolla s’era staccato dai giornalisti e moveva verso l’hangar. Qualcuno, dietro ad Eva osservò:
— È Rolla che vola per primo.
— Quando volerà, — rispose una voce.
— Perchè?
— O non vedi che c’è bandiera rossa?
— Dove?
— Là sul tetto dell’hangar.
— Ebbene?
— Ebbene, vuol dire che non si vola perchè c’è troppo vento.
Un impeto di gioia gonfiò il cuore di Eva. Era vero, era vero? Come mai ella non s’era avveduta di quella benedetta bandiera rossa? Ettore non avrebbe volato, adunque....
Tutta la sua gioia cadde a un’osservazione che udì:
— Troppo vento? ma se non si muove nemmeno una foglia!
— Scuse, — fece un’altra voce, — adesso che il comitato ha intascato i quattrini del biglietto d’ingresso, chi ha visto ha visto.
La voce di prima rinforzò:
— Buffonate!
Ed emise un fischio acuto e lungo che cento altre labbra ripeterono.
Una sofferenza improvvisa fatta di sdegno, di angoscia, di terrore strinse il cuore di Eva. Prevalse lo sdegno. Pallida come una morta ella si alzò, si rivolse, e poichè il fischio si ripeteva, si moltiplicava più intenso, più insistente, ella disse a colui che aveva cominciato:
— Villano!
Lo sconosciuto — un giovanotto dall’aspetto volgare sotto il pretenzioso abito domenicale — parve dapprima sorpreso, poi, squadrò la fanciulla che si era rimessa a sedere e ostentando una cavalleria grottesca disse in falsetto:
— Gioia!
Si udì una risata breve e sguaiata poi un altro coro di fischi.
Eva si sentiva gli occhi pieni di lagrime.
Ma erano feroci, dunque, erano proprio feroci?
Adesso, qualcuno sorgeva in difesa del suo sdegno, qualcuno ch’ella non vide perchè non si rivolse più, che udì soltanto impegnare un dibattito breve con colui che l’aveva insultata.
— Ma La finisca, dunque! — diceva l’intervenuto, — la signora ha perfettamente ragione. Lei è un villano!
L’altro ribattè vivacemente e per affermare il suo proclamato diritto di fare quanto gli piaceva di fare, tornò a fischiare.
— Badi, — ammonì l’intervenuto, — se non la smette, io la indico al Commissario di servizio e la faccio espellere.
— Ma chi è lei?
— Io sono uno che non tollera villanie e prepotenze.
— E io non tollero mistificazioni.
— Ma la smetta, da bravo! Non c’è nessuno che la mistifichi qui. Se non capisce niente, se ne vada.
— Ci vuol poco a capire che del vento non ce n’è. Non si muove nemmeno una foglia!
— Quaggiù. Ma lassù in alto che ne sa lei?
— Ah! — fece l’altro ironico, — hanno mandato su lei a vedere se c’è vento?
— Hanno mandato su i palloncini sonda, per sua norma, e se non li ha visti peggio per lei.
— È vero, — disse qualcuno del pubblico.
Una quarta voce soggiunse:
— E il vento li ha spazzati via verso il mare.
L’intervenuto osservò ancora:
— Ma c’è della gente che vuol sempre parlare malgrado non sappia niente. E così succede che perla prepotenza di qualcuno la folla si accende e diventa feroce. Chi ne va di mezzo sono gli aviatori. Ecco, — soggiunse, — ecco se è vero. Hanno tolto la bandiera rossa e hanno messo quella bianca.
Tutti gli occhi cercarono l’hangar sul cui tetto sventolava adesso la bandiera bianca che il pubblico accoglieva con un applauso prolungato.
— Merito mio, — riprese, dietro, la voce dello sconosciuto con tono di baldanza e di canzonatura, — se io non fischiavo nessuno protestava e lassù c’era ancora la bandiera rossa.
Le sue parole caddero nel vuoto.
Tutti gli occhi del pubblico erano intenti, adesso, sul campo, verso l’hangar dove fervevano gli ultimi preparativi.
Con l’anima protesa in uno slancio di passione e di spasimo, anche Eva guardava laggiù. Perchè, perchè volava Noris se c’era un pericolo? Perchè non si ribellava alle irragionevoli esigenze di una parte del pubblico, perchè non pensava un poco alla sua angoscia e al suo terrore?
Come Ettore avesse intuito codesto terrore e codesta angoscia, ella lo vide uscire dall’hangar in compagnia di un meccanico, attraversare il campo fino all’altezza del punto dove ella si trovava, avvicinarsi allo steccato e indicare all’uomo proprio il punto dove ella si trovava.
L’uomo accennò d aver compreso e mosse per uscire.
Noris rimase ancora un attimo, le sorrise con un’espressione di letizia sul bel volto energico, poi la salutò e rientrò nell’hangar.
Adesso tutti gli spettatori e le spettatrici della tribuna avevano veduto la scena breve e tutti e tutte s’indicavano Eva con curiosità e meraviglia.
— Una parente di Noris.
— Sorella, forse.
— Non gli assomiglia.
— Che vuol dire?
— Forse sua moglie.
— Macchè! è così insignificante!
— Eppoi, se fosse sua moglie sarebbe là dentro con lui.
— Questo è vero.
Nessuno poteva immaginare che quella creatura così poco appariscente nella succinta veste di lana bianca che lasciava scoperti il collo e l’avambraccio, fosse il grande amore di Ettore Noris.
Ma certo ognuno pensò che ella doveva essere persona cara e vicina all’aviatore quando vide il meccanico salire la gradinata della tribuna e avvicinarsele.
Eva non attese che egli parlasse; domandò subito con ansia:
— Volano?
— Il signor Noris sì.
— Come? Noris soltanto?
— Già. Il signore la manda ad avvertire appunto per dirle che volerà lui per primo, e forse solo, perchè a Rolla s’è guastato il motore.
— O Dio, Dio! — susurrò Eva impallidendo.
— È la stessa cosa, signora, — fece il meccanico sorridendo.
— Ma c’è vento, vero?
— C’era vento poco fa. Adesso non più.
— Davvero?
— Glielo garantisco. Noris le raccomanda di star tranquilla che va tutto bene e non c’è nessun pericolo.
— Grazie.
Soggiunse, lasciando traboccare tutta la sua segreta angoscia:
— Come vorrei che fosse già finito!
Il meccanico osservò:
— Sa cosa dovrebbe fare? Venire laggiù, nell’hangar, con noi. Sarebbe più tranquilla.
— Grazie, no, — fece Eva arrossendo.
— C’è anche la signora Rolla....
— L’ho veduta. Grazie, resto qui.
— Allora, buona sera, signora.
— Addio. Raccomandate a Noris di essere prudente.
Il meccanico sorrise ancora e scomparve.
Rimasta sola, Eva ritornò col pensiero sulla proposta che le aveva fatto il meccanico. No, andare laggiù, no. Nemmeno Ettore sarebbe stato contento. Egli pure glielo aveva proposto ma senza insistere, ed ella aveva intuito subito, nel tono della sua voce, il desiderio che ella non accettasse. Ettore era insofferente dei commenti che si sarebbero potuti fare su di lei e sui loro rapporti, insofferente persino del pensiero che uno sguardo indiscreto potesse frugare nella intimità della loro vita profanandola.
Per fare quello che egli aveva fatto, superando l’avversione sua profonda d’ogni pubblicità, per arrischiare di indicarla come l’aveva indicata alla curiosità di tutto il pubblico pur di mandarle una parola rassicuratrice, bisognava dire che l’ansia intuita e l’angoscia e lo spasimo dell’amatissima gli pesassero davvero sull’anima.
Ed era così.
Adesso, non per sè, ma per Eva, per abbreviarle il supplizio dell’attesa, per darle lo spettacolo dell’agognato trionfo e la prova della sicurezza del volo, anche Ettore Noris era impaziente di finirla.
Quando il meccanico, rientrato nell’hangar, gli ebbe reso conto della commissione compiuta e ripetuto la frase di Eva: — Come vorrei che fosse finito tutto! — egli diede subito ordine che si portasse fuori la macchina.
Dal suo posto, Eva vide due carabinieri far largo sullo spiazzo dinanzi al capanno e la gente che era sul campo assieparsi di qua e di là dalla tettoia e la prodigiosa macchina apparire alfine, tutta bianca e tutta lucente, accolta da un uragano d’applausi.
Qualcuno, nel pubblico, manifestò la sorpresa che era in molti:
— Come? non vola il Rolla per primo?
— Pare di no poichè Rolla pilota un biplano e questo è un monoplano Blériot.
— Forse volerà dopo.
— Forse.
Adesso la macchina era immobile sullo spiazzo sgombro visibile nitidamente in ogni sua parte agli occhi di tutti, occhi di profani in massima parte, che per la prima volta contemplavano il congegno prodigioso collo stupore attonito di fanciulli.
Anche Eva contemplava la macchina per la prima volta e la colpì subito, prima d’ogni altra cosa, la forma singolare del fusto così simile a quello d’una bara....
— Una bara alata, — ella pensò con un brivido.
Scacciò con un moto di ribellione il pensiero triste che le pareva un presentimento lugubre e forzò la sua attenzione a seguire gli ultimi preparativi dei meccanici.
Il giovane che era venuto poco prima da lei, adesso abbeverava l’apparecchio versando nel serbatoio misure e misure colme di essenza.
Ettore vegliava sui preparativi. Eva lo vedeva girare intorno alla macchina, toccare qua e là, ispezionare, curvarsi, rialzarsi, rivedere.
A un certo punto lo vide issarsi sull’apparecchio, saltare dentro lo scafo lugubre e sedersi... Credette che egli stesse per partire e il cuore le diè un balzo fino in gola.
Un improvviso rumore caratteristico fatto di scoppi brevi e rapidissimi susseguentisi sopra un rombo costante cupo e raffrenato, la confermò per un attimo nella sua credenza. Poi comprese e il suo tumulto interno si placò un poco.
Noris provava il motore.
Otto uomini distribuiti ai due lati della macchina la trattenevano come si trattiene un cavallo imbizzarrito ardente di slanciarsi in una corsa pazza. Le pale dell’elica giravano vertiginose smarrendo la loro forma nel moto velocissimo descrivendo soltanto una serie di cerchi grigiognoli concentrici e senza fine. E tutto l’apparecchio sussultava, pulsava col suo terribile cuore metallico, fremeva di una violenta vita che pareva sfidare qualsiasi dominio.
Più netta che mai Eva ebbe l’impressione della follia magnifica che Ettore stava per commettere.
Come avrebbe potuto la mano dell’uomo sollevare e dirigere, docile e rispondente, per le vie del cielo quell’ordigno terribile?
Eppure il miracolo si compiva, cento volte si era compiuto e anche Ettore lo aveva già operato.
Qualcosa le gonfiò il cuore che non era più dolore e non spasimo: la commozione ammiratrice che il nuovo verificarsi del prodigio diffondeva come un contagio spirituale attraverso tutta l’immensa folla attonita silenziosa come dinanzi alla celebrazione di un rito.
La prova era terminata adesso; il motore taceva e Noris discendeva dall’apparecchio evidentemente soddisfatto perchè Eva lo vedeva sorridere e accennare affermativamente ai commissari che lo interrogavano.
Qualcuno, a un suo cenno, entrò nell’hangar e ne uscì portando l’elmetto dell’aviatore.
— Ora, ora! — si disse Eva ricadendo nell’ambascia.
Ed ella non immaginava che il cuore unico della folla rispondeva in quell’istante con un palpito di trepidazione all’angoscia e alla febbre del suo cuore innamorato.
— Va tutto bene, — disse qualcuno dietro di lei, — parte subito.
Osservò, un altro:
— Si sentiva che il motore andava magnificamente.
— Bell’apparecchio!
— Magnifico.
Un ometto sbilenco s’arrampicò sulla gradinata offrendo delle cartoline e gridando torte:
— Il programma della giornata col ritratto degli aviatori, signori! il ritratto di Rolla e di Noris!
Si fermò proprio dinanzi ad Eva ripetendo:
— Vuole il ritratto di Ettore Noris, signorina?
Furono le ultime parole che ella udì e le udì come in sogno.
Adesso, tutta la sua anima era nelle pupille e le pupille erano fisse con una forza magnetica nel suo diletto come a comunicargli in una dedizione suprema tutto il suo martirio e tutto il suo entusiasmo, come a trasfondergli in virtù di forza la sua possanza d’amore.
Noris era risalito sull’apparecchio e guardava verso di lei. Era sorridente. Prima di togliersi il berretto per sostituirlo coll’elmo, lo sollevò in un gesto di saluto verso di lei, per lei sola.
Ella rispose con un pallido sorriso, ch’egli colse e bevve, telioe, come un augurio lieto.
Era l’ora.
Egli s’installò, ispezionò ancora davanti a sè con una rapida occhiata se ogni cosa fosse al suo posto, disse qualche cosa agli uomini che di nuovo si erano disposti a trattenere l’apparecchio, accese ancora il motore.
Un’altra volta, mentre tuttavia la macchina rimaneva immobile, s’udì il rombo violento ricamato dal vivace scoppiettare incessante.
Poi, Noris alzò una mano e come sciogliesse le reclini a una irruente frenesia di fuga, la macchina fuggì, scivolò un poco, leggera, sul terreno, se ne staccò, si elevò e via corse, impennata verso il cielo, come un immane proiettile che da sè stesso attingesse la forza d’impulso e dalla vertigine della sua corsa l’equilibrio e dalla fredda audacia dell’uomo la sua via segnata nerazzurro.
La seguì, sollevandola, accompagnandola, sorreggendola idealmente in un magnifico scoppio d’entusiasmo il clamore di mille e mille voci, l’applauso di mille e mille mani ripetuto, continuato, insistente anche quando l’aereoplano era già alto e lontano e Noris non poteva percepirlo più.
Adesso il rombo del motore s’era mutato in un ronzio lontano appena percettibile ed Eva lo sentiva meno forte del pulsare del proprio cuore che urtava contro le pareti del suo fragile petto con una violenza che nessun ragionamento valeva ad attenuare.
Ecco, la cosa magnifica e tremenda era avvenuta: Ettore era lassù, dentro quel congegno così formidabile e così fragile, così possente e così incerto che poteva con una equivalenza spaventosa di probabilità dargli il successo o dargli la morte. Sotto i suoi occhi s’era compiuta la cosa magnifica e terribile.
Ed ella non lo aveva trattenuto, ed ella non aveva gridato, ed ella poteva, adesso, trovare la forza di seguirlo collo sguardo nelle evoluzioni audaci ch’egli andava compiendo nell’azzurro e delle quali ella apprendeva la bellezza e il pericolo solo attraverso i commenti del pubblico.
Ah, quei commenti, che susseguirsi di trasalti per il suo cuore malato!
Dicevano, le voci, accompagnando ogni nuova manovra dell’aviatore.
— Ora va verso il mare.
— No, ritorna.
— Ahi! un viraggio troppo stretto!
— Se l’è cavata, meno male!
— Attenti, passa sopra le tribune!
— Dio, come s’abbassa!
— Ma è pazzo, ci schiaccia tutti!
— Se cadesse adesso, che frittata!
— Si alza ancora, si alza, ecco!
— Gli è andata bene ma mi pare poco prudente!
Mentalmente, meccanicamente, colla fede ingenua di quando era una collegiale. Eva pregava adesso.
— Dio mio, proteggetelo! Madonna Santa, assistilo tu!
Come era lungo il tempo!
Perchè Ettore non scendeva, adesso? Le pareva durassero da un secolo, quel volo e il suo orgasmo.
Come stava male! come stava male! tutto il suo sangue era in tumulto; forzava le pareti del suo cuore, forzava le pareti del suo cervello, ronzava nei suoi orecchi, gorgogliava nelle sue arterie, le affluiva in ondato calde al viso, si ritirava tutto al cuore....
Adesso c’era un velo fra lei e la folla e le cose intorno, un velo fra i suoi occhi e le ali bianche lassù che portavano il suo diletto per le vie azzurre dello spazio: appena vagamente, colla seconda vista dell’amore, ella poteva seguire le larghissime volute che raercoplano andava trascinando al disopra deiraereodromo abbassandosi a volte con abbandoni improvvisi impressionantissimi, risollevandosi di colpo con una sicurezza che deponeva insieme dell’abilità e dell’audacia del pilota.
Certo il gioco folle doveva affascinare Noris e inebbriarlo perchè a un tratto lo si vide dirigere il suo volo sul mare, oltre la collina breve che nascondeva alla folla la distesa azzurra infinita.
D’un colpo, tutti gli spettatori furono in piedi sugli scanni, sulle gradinate delle tribune, sullo steccato per meglio seguire e più lontano le vicende del volo.
Anche Eva si provò.
Si sentiva soffocare ma voleva vedere ancora, voleva vedere....
A stento riuscì a salire sulla propria sedia, e inutilmente.
Un gruppo d’uomini era salito sulla balaustrata della tribuna vicina e le impediva di vedere non solo verso il mare lontano ma nemmeno nel raggio dell’orizzonte più prossimo.
Nulla, non vedeva più nulla.
Intuiva quello che accadeva soltanto dalle parole e dai commenti dei vicini.
E i commenti costituivano un’agonia.
— Ahi! ha incontrato una corrente!
— Ha il vento di fianco!
— Lo vince.
— Non lo vince. Non riesce a girare.
— Ahi! oscilla....
— Sul più su! perchè si ostina a voler girare in quel punto?
— Va! va!
— Cade!
— È caduto!
Un urlo nel pubblico e un’esclamazione disperata più alta dell’urlo, deprecante al destino:
— No! no!
Tutti gli occhi furono d’un tratto fissi nel punto d’onde il grido era partite. Videro due esili braccia candide e nude alzate convulse.... Un attimo, poi più nulla. Le braccia erano ricadute lungo il sottil corpo accasciato che stramazzava sulla gradinata della tribuna, la voce disperata taceva, per sempre, e per sempre era muto anche il piccolo cuore spezzato.
Nessuno pensò o credette la realtà terribile: il pubblico delle tribune s’accorse, con ribrezzo, della morte, solo quando vide un fiotto di sangue sgorgare dalle labbra violacee della caduta e scendere come un rivo di porpora lungo il suo vestito bianco.
Nello stesso istante, accolto da un applauso formidabile, riappariva all’orizzonte, alto al disopra della collina, magnifico di bellezza, di sicurezza, d’audacia, di trionfo, l’aereoplano di Ettore Noris.
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Egli seppe solo quando, strappatosi alle congratulazioni degli accorsi, sottrattosi alle insistenti domande dei giornalisti, si rivolse a cercare la dilettissima collo sguardo e non la trovò più e vide invece, nel punto dove ella doveva trovarsi, un gruppo di guardie in un grande spazio vuoto. E fu subito fuori, senza interrogare, corrusco in viso come la sua disperata ansia fosse sdegno, torvo di minaccia per non apparire spezzato dall’angoscia.
Avevano pietosamente coperto la morta con una bandiera tolta a uno dei pennoni di festa.
Senza un grido, ma con un impeto di belva, Noris si slanciò, strappò la bandiera, vide.... E allora l’urlo uscì, disperato, formidabile inutilmente imprecante al destino, inutilmente implorante la morta.
Come un pazzo egli si gettò sul cadavere, lo sollevò in un abbraccio appassionato, lo strinse sul proprio cuore come a ridargli la vita, lo chiuse fra le sue salde braccia come a rapirlo alla morte, chiamandolo disperato, incapace di credere che la diletta potesse una volta restar sorda alla sua voce.
— Eva! Eva! Eva!
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Un’ora dopo, la povera piccola morta giaceva sopra un tavolo dell’hangar, composta nel suo semplice vestito bianco, protetta da una delle ali dell’aereoplano distesa al disopra di lei.
L’hangar era stato chiuso con una gran tenda bianca improvvisata. Fuori facevano scolta d’onore alla morta i meccanici di Noris, quelli di Lorenzo Rolla, due piccoli reporters, due agenti....
Dentro l’hangar, Ettore Noris era solo colla sua morta.
E nessuno udì la promessa ch’egli le susurrò chino sul suo viso cereo, colle labbra premute sulle labbra gelide di lei:
— Per la tua vita che tu m’hai dato, tutta la mia, o cara, oggi, domani, sempre!
E il fragile corpo immoto parve trasalire di gaudio.