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Ella s’era rassegnata perchè aveva compreso che ogni sua resistenza sarebbe stata inutile, perchè aveva intuito nell’entusiasmo nuovo di Ettore qualcosa di più dell’intenzione di far fortuna: la passione viva dell’avventuroso, dell’arrischiato, del difficile; e non s’era sentita in diritto di contrariarlo e aveva anche temuto un poco, in una opposizione risoluta e violenta, un possibile pericolo pel suo amore.
Non era una tempra di lotta la sua.
Forse Ettore Noris l’aveva amata per contrasto: perchè ella era fragile quanto egli era forte: fragile nella personcina flessuosa, nel viso perlaceo, nella bocca malinconica, nei grandi occhi scuri velati sempre dal sogno e dal languore, nell’onda greve dei capelli biondissimi ch’erano quasi un peso e una sofferenza pel suo esile collo venato d’azzurro, nel piccolo cuore malato, infine, cui i medici proibivano qualsiasi commozione e che bruciava la sua vita con una costante intensità d’emozioni centuplicante il suo lavorio misterioso.
Per contrasto l’aveva amata Ettore Noris che aveva un forte cuore sano e sicuro dentro un largo petto d’atleta e un austero viso orgoglioso e risoluto che per lei sola sapeva raddolcirsi sino alla commozione, e una fiera testa bruna sempre alteramente alzata in un atteggiamento di perpetua sfida contro qualcosa o contro qualcuno.
Naturalmente Eva non era stata il primo amore di quest’uomo che aveva fatto assai precocemente il suo tirocinio di vita ed era giunto a ventisei anni con una esperienza sentimentale d’eccezione, ma ella era, adesso, nella sua vita, l’amore — la tenerezza profonda e insieme la febbre; tutto il pensiero e tutto il cuore e tutto il desiderio. Quello che non gli era mai accaduto, di sognare come la più grande felicità di trascorrere tutta la sua vita accanto a una creatura, egli lo aveva provato, lo provava per Eva. Il possesso d’ogni giorno non gli pareva mai definitivo, lasciava sempre un’irrequietezza al suo desiderio, una trepidazione alla sua sicurezza.