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Qualcuno, a un suo cenno, entrò nell’hangar e ne uscì portando l’elmetto dell’aviatore.

— Ora, ora! — si disse Eva ricadendo nell’ambascia.

Ed ella non immaginava che il cuore unico della folla rispondeva in quell’istante con un palpito di trepidazione all’angoscia e alla febbre del suo cuore innamorato.

— Va tutto bene, — disse qualcuno dietro di lei, — parte subito.

Osservò, un altro:

— Si sentiva che il motore andava magnificamente.

— Bell’apparecchio!

— Magnifico.

Un ometto sbilenco s’arrampicò sulla gradinata offrendo delle cartoline e gridando torte:

— Il programma della giornata col ritratto degli aviatori, signori! il ritratto di Rolla e di Noris!

Si fermò proprio dinanzi ad Eva ripetendo:

— Vuole il ritratto di Ettore Noris, signorina?

Furono le ultime parole che ella udì e le udì come in sogno.

Adesso, tutta la sua anima era nelle pupille e le pupille erano fisse con una forza magnetica nel suo diletto come a comunicargli in una dedizione suprema tutto il suo martirio e tutto il suo entusiasmo, come a trasfondergli in virtù di forza la sua possanza d’amore.

Noris era risalito sull’apparecchio e guardava verso di lei. Era sorridente. Prima di togliersi il berretto per sostituirlo coll’elmo, lo sollevò in un gesto di saluto verso di lei, per lei sola.

Ella rispose con un pallido sorriso, ch’egli colse e bevve, telioe, come un augurio lieto.

Era l’ora.

Egli s’installò, ispezionò ancora davanti a sè con una rapida occhiata se ogni cosa fosse al suo posto, disse qualche cosa agli uomini che di nuovo si erano disposti a trattenere l’apparecchio, accese ancora il motore.