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«comuni ad armarsi immantinente in guardia civica, facendo capo alle parrocchie, come si fa in Milano; e ordinandosi in compagnie di cinquanta uomini, che si eleggeranno ciascuna un comandante e un provveditore, per accorrere ovunque la necessità della difesa lo imponga. Aiuto e vittoria!»

Quegli aerei messaggeri istupidivano vie più i croati, che gli vedevano minacciosi sorvolare sulle loro teste, e cadendo su lontane comuni in Lombardia, nel Piemonte, nel Piacentino, erano segnale di sollevamento e di fremito. Dalla Svizzera accorsero ben cinquecento armati. Ne vennero ancora di Como, di Monza e di Varese. Eia porta Tosa fu stretta d’assedio dalla parte esterna della città e contemporaneamente dalla interna. I nostri, malgrado lo spesso tuonar delle artiglierie, avanzavano sempre e guadagnavano terreno. Alcuni ingegneri avevano inventato barricate mobili che proteggevano i feritori ognora incalzanti. Praticando interne comunicazioni nelle case a diritta, gli animosi penetrarono ano all’ultima che ha di rimpetto il corpo di guardia della porta e sotto aveva i soldati. Dalle finestre di quella casa e dal tetto, essi fecero strazio de’ loro nemici con un fuoco incessante di moschetteria e con alcune bottiglie di birra attorniate da un grosso strato di gesso, le quali caricate a mitraglia e gittate al basso colla miccia accesa, davano un terribile scoppio e più terribile distruzione facevano. Dopo lungo, ostinato conflitto, la porta cadeva in potere dei nostri, guidati all’assalto dallo intrepido Luciano Manara.

Era già nostro il Duomo, d’onde i tirolesi furono fatti di viva forza sloggiare. Luigi Torelli e Scipione Bagaggia avevano sulla sua aguglia innalzato il nazionale vessillo. Nostri il palazzo della Corte, quello di Finanza, de’ Criminali, la piazza dei Mercanti. Al Genio vi fu accanito combattimento; ma le truppe dovettero cedere non al numero, sibbene al coraggio straordinario di pochi uomini, tra i quali noterò a memoria d’onore il nome del popolano Sottocorni, che arditamente muoveva incontrò al grandinar delle palle col nome allor prestigioso di Pio IX sul labbro, col sentimento profondo della nazionalità nel cuore. Il nemico cominciava a ritirarsi già da ogni parte; penuriava di viveri; e disteso siccom’era lungo la cerchia de’ bastioni — linea di dodici chilometri all’incirca — riesciva sempre più malagevole ai capi il fornirne agli affamati soldati; e non avendo tregua nè notte, nè di, questi erano sfiniti dalle fatiche, dagli stenti, dal sonno. Un valente giovane, il Colombo, erasi impossessato, non lungi della dogana di Viarenna, di una parte del bastione. La porta Comasina, assalita dal di fuori e di dentro, non avendo potuto resistere al doppio urto, cedeva ai campagnuoli che l’aprivan di forza. Gl’imperiali si erano perciò trovati disgiunti sulla curva de’ terrapieni. Ove più a lungo l’avessero occupata, la battaglia del popolo sarebbe stata quivi finita. A fitta notte si ritiravano nel castello. Questo venne assalito, e dopo parecchie ore di fuoco, espugnato. Il nemico escì fuori offeso vivamente dalle archibugiate del popolo. Il maresciallo tenne consiglio. Ei conosceva da qualche tempo la nuova politica e le ambiziose mire di re Carlo-Alberto; ma assai più temeva la effervescenza del popol suo. Le truppe regie pertanto potevano giungere da un momento all’altro. Gli esploratori gli recavano triste novelle della