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uffiziale, di custodire il palazzo della polizia. Allora nella strada de’ Pennacchieri alcuni arditi cominciarono a scomporre i lastroni e i ciottoli del selciato per formarne barriere. Le donne d’ogni condizione gittavan loro dalle finestre coccarde tricolori e medaglie votive al Pontefice. II palazzo di Santa Margherita fu attaccato, invaso; e l’archivio della polizia arso in parte cogli stipi e co’mobili ch’entro trovavansi. Un grido di rabbia a lungo represso echeggiò per le vaste contrade 13 «Viva Italia!» cui un altro rispondeva e più impetuoso d’assai «Fuori i barbari !» E il vessillo nazionale sorgeva sulle barricate che già asserragliavano le vie della bella città.

Il furore ministrava le armi. Vecchie sciabole, pistole, archibugi da caccia, tegole, sassi, tutto era buono per correggere le antiche ingiurie. L’audace impresa fece credere all’inimico il pericolo più grave di quel che realmente si fosse; laonde, dopo il fuoco della prima giornata, il maresciallo Radetzky si provò colle a minacce di domare i concitati spiriti e scrisse al municipio fosse disarmato il popolo; e aggiungeva:

«Mi riservo poi di far uso del saccheggio e di tutti gli altri mezzi che stanno in mio potere per ridurre all’obbedienza una città ribelle; ciò mi riescirà fecile, avendo a mia disposizione un esercito agguerrito di cento mila uomini e duecento pezzi di cannone.»

Il suono delle campane a stormo fu la risposta dei Milanesi. Allora i nemici si chiusero in castello, traendovi a forza tutti quei cittadini che, smaniosi di novelle o di ordini, vennero presi nel riconquistato palazzo di città. Di quivi il Radetzky spinse i suoi armati — i quali nel vero sommavano a 46,000 uomini— sulla linea dei bastioni, alti terrapieni interni guerniti di alberi che, circuendo Milano, la separano dalla campagna. Presso ogni porta dispose grosso presidio con artiglieria, e ordinò che per le ampie strade, aprentisi loro dinanzi, muovessero risolutamente allo assalto delle barricate. Ma, dietr’esse erano i popolani che le proprie posizioni difendevano con accanimento grande. L’avvocato Enrico Cernuschi — giovane bravo, onesto, amato e rispettato da tutti, guida e consiglio ne’ comuni disegni — si moltiplicava per ogni dove, provvedeva alle armi, preparava in loco sicuro il quartier generale della insurrezione, riconduceva al suo posto il Podestà — ritemente de’ fatti illegali che allora si commettevano contro l’autorità costituita — e co’ buoni patrioti insisteva perchè si stabilisse un governo atto a bisogni del momento.

Sul podestà di Milano, conte Gabrio Casati, dirò molto in brevissimi detti. Egli era padre di due figliuoli; ed uno mandavalo ad erudirsi nella università d’Innsbruck e l’altro collocavalo nell’artiglieria piemontese. Quando se gli offersero i trecento gendarmi lombardi, vogliosi di concorrere alla cacciata degli stranieri, scriveva al Torresani-Landsfeld — il capo della polizia austriaca — per domandargli permesso di accettare la offerta. E allorché si pensò alla urgente necessità di stabilire un governo provvisorio, dopo molte esitanze, ei nominava una congregazione municipale, la quale alle ore otto della sera del 20 marzo emanava il seguente proclama: