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avessero loro permesso, quel movimento abbisognava d’un capo esperimentato che riunisse ogni fede; era pur mestieri le masse dei liberi battaglieri si organizzassero. Tra i cantici, il novero delle molte prodezze e l’abbandonata allegria non si potea pensarvi su più che tanto. E poi, quell’uscire contro una soldatesca — benchè in fuga — ordinata, impensieriva i più. Dietro una barriera ogni uomo è soldato; avvegnachè, a lui non occorra una regolare distribuzione di viveri, nè legge, nè ordinanza alcuna; ei può sfamarsi nella prossima casa e dissetarsi presso la vicina fontana; carica il moschetto a volontà sua; compie azioni generose che il cuore gli detta; palesasi io circostanza valente pari a un antico. Ma, in campo aperto il suo impetuoso valore diviene dannoso ove non venga regolato dal senno di chi lo guida; egli debbo combattere a posta d’altri e non sua; altrimenti, la disoiplinatezza del nemico — quantunque inferiore di animo e di numero — le atterra e lo infuga. Nullamena, parecchi che l’adorazione d’Italia spingeva innanzi, partirono. Non avevano uniformità darmi, di reggimento. Erano cenventinove animosi giovani appartenenti a povere, agiate o nobili famiglie, i quali — sapendosi come il debito di ogni lombardo non fosse interamente saldato sui cittadini asserragli — senza provvedimenti, senza vesti di ricambio, col solo moschetto dei cinque giorni, spensieratamente, ma colla esaltazione dell’eroismo, seguivano il bravo Luciano Manara, che lasciava moglie, figliuoli, abitudini di lusso, tutto, per rispondere ai voti del cuor suo, concorrere al conquisto della patria indipendenza, o morire. Il generale Teodoro Lecchi gli faceva raggiungere in Treviglio da una legione di Ticinesi e di Comaschi — milledugepto uomini all’incirca — capitanati dal Torres, uom ricco di tutti i difetti che seco traggo il soverchie dell’arditezza; e dal marchese Trotti, già ufficiale negli usseri ungheresi, braccio e pensiero della recente sommossa popolare di Como. Le turbe di contadini gli miravano passar sulla via, immote, trasognate; la lunga schiavitù aveva loro pietriQcato il cuore. Alcuni altri, mossi da quel magnanimo esempio, prendevano diversa strada. Giunti a Marignano, videro la desolazione del paesello, le tracce delle commesse barbarie; fumavano ancora le bruciate case; erano tuttora insepolti i cadaveri di quelli che avevano voluto opporsi al saccheggio e alle libidini de’disumanati stranieri. A Lodi, altre incredibili e nefande cose! Con tali atti malvagi il maresciallo guidava la difficile impresa di sicurar le sue schiere ne’forti verso cui si avviava; e se le rapine, i delitti giovavano sommamente a tenerle fide e zelose a prò dello impero, collo spavento e con crudeli misure tendeva ad infrenare la rivoluzione pullulante sotto i suoi passi. Qualche vendetta traeva il dolore incitato dalle stragi. E so di egregia donzella, libera di genio e di cuore — di cui per prudenza velerò il nome — che a compenso dell’assassinio di Carlo Porro, ano degli statichi che il Radetzky portò via di Milano, scaraventò addosso ad un ufficiale austriaco un pesante vaso di fiori che gli ruppe una spalla. Un croato minacciolla col suo archibugio. Ed ella, «Tira, vile ladrone!» a lui disse. II colpo falliva; e la imperterrita giovanetta veniva a forza ritratta dalla finestra.

Intanto i volontari milanesi, cui era stato detto non si dilungassero tanto