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interporsi presso gli adunati romoreggianti e gli esortassero a disciogliersi. Questi per alcune ragioni si rifiutarono. Gl’ignaziani d’ambidue i sessi sgomberarono i loro stabilimenti, protetti dalle milizie cittadine e dalle stanziali; non si salvarono però dai fischi e dalle imprecazioni lanciate loro addosso dal popolo e dettate dal disprezzo e dalla lunga collera. In Sardegna, gli abitanti di Cagliari e di Sassari cominciarono per tumultuare sotto le case, ov’essi avevano dimora; quindi, gittarono granate ne’ loro fondachi e appiccarono il fuoco alle porte. Il municipio pregò il vice-re Delaunay di ferii sgombrare di colà onde evitare un qualche sinistro evento. Partirono di fatto per una loro casa di campagna; ma, di là mossero furtivi verso una nuova borgata, detta Carbonara — luogo di ricetto per gl’insulari che avessero espiato nelle galere i loro delitti — e quivi colle loro arti si diedero a concitar quella gente contro chi gli aveva altrove svillaneggiati. Il parroco del paesello ne avvertiva l’autorità; incontanente, vennero spediti i cavalleggeri perchè gli scortassero sino al lazzeretto di Cagliari; e siccome anche di colà si attentavano fuggire per ispargere ovunque il mal seme delle discordie civili, furono messi temporalmente a bordo della Staffetta, ancorata nel porto, e di quivi su due bastimenti partirono per Nizza e per Genova. Respinti, sbarcarono a Lerici ed a Spezia. Colà fischiati, schiaffeggiati, derisi. La milizia nazionale guarentiva a stento le loro persone; e quando con solleciti moti s’incamminarono in vettura alla volta di Parma e di Modena, le colline rintronarono al loro orecchio, a modo d’addio, le grida di «Viva Gioberti! — Viva la Costituzione! — Viva Pio IX— Viva l’Italia!» Spettacolo brutto, pur troppo meritato da un sodalizio d’uomini, il cui fomite, l’ambizione; i cui mezzi, la cabala e la bassa ipocrisia gli aveano dato libero accesso nella società, nelle reggie, per tutto, proporzionando in ogni loco infami suggerimenti, assassinando le riputazioni, abbrutendo al possibile la umanità per averla schiava soggetta.

Altri moti e di maggiore importanza avvenivano già da qualche tempo nelle province Lombardo-Venete. Cotesto territorio, comprendendo in sè l’antico ducato di Milano colla Venezia, e formante corpo con quell’agglomerazione di diversi Stati e di altrettante favelle — elementi opposti infra loro che costituiscono l’impero della casa d’Austria — trovava in Italia il suo limite sul Ticino e sul Po. La estensione della sua superficie è di quattro milioni e settecentomila ettare; la sua popolazione di cinque milioni di abitanti; il prodotto delle imposte — non comprese le tassi provinciali e comunali — di cenventicinque milioni circa di lire italiane. Il governo egoista, gretto e pesante de’ forestieri non aveva saputo — nel lungo periodo di trentaquattro anni d’insolente dominio — riscuotere da quelle popolazioni che una larga misura d’odio e di sprezzo. Aveva trovato in Italia un esercitò forte, disciplinato, agguerrito, compagno di gloria a quello di Francia; ed ei, disfacendolo, usurpava un valsente di cento milioni di franchi in apparati di guerra e marina. Veduto il suolo fertile e ricco, imponeva agl’Italiani un terzo delle gravezze dell’impero, quantunque non componessero che un ottavo della sua popolazione. Notata la prontezza dell’ingegno lombardo sì opposto alla tardività del germanico — viventi un Volta, un Oriani! — pose a capo delle