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164 | parte seconda |
che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo».
— Anche questi santi son curiosi, — pensa don Abbondio: — in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote.
E poichè il cardinale è rimasto in atto di chi aspetti una risposta, risponde:
— Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare.
Il che significa appunto: — Sissignore, ragionando astrattamente, la ragione è dalla parte di Vossignoria Illustrissima; il torto sarà mio. Però Vossignoria Illustrissima parla bene, ma quelle facce le ho viste io, le ho sentite io quelle parole.
— Ma perchè dunque, — gli domanda in fine il Cardinale, — vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo?
Oh, il perchè noi lo sappiamo bene: il Manzoni stesso ce l’ha detto fin da principio; ce l’ha voluto dire e poteva anche farne a meno: Don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio e mettersi in una classe privilegiata e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta.
In lotta dunque con le passioni del secolo? Ma se egli s’è fatto prete per guardarsi appunto dagli urti di quelle passioni e col suo sistema particolare di scansar tutti i contrasti!