L'avventuriere onorato/Appendice II/Atto III

Atto III

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Appendice II - Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA I.

Camera di D. Livia.

D. Livia ed Eleonora.

Livia. Dunque mi assicurate voi che il signor Guglielmo sia una persona ben nata?

Eleonora. Sì, signora, ve lo dico con fondamento, e ve lo posso provare.

Livia. Come potete voi provarlo?

Eleonora. Egli aveva in Napoli tutti quegli attestati che possono giustificare l’esser suo, la sua nascita, le sue parentele, e dello stato vero della sua famiglia. A me nella sua improvvisa partenza sono rimaste tutte le robe sue. Fra queste vi sono i di lui fogli, de’ quali sono io depositaria, e li ho meco portati per renderli a lui, che forse sarà in grado d’usarli, per darsi a conoscere in un paese ove non sarà ancor conosciuto.

Livia. Voi, Eleonora, colla vostra venuta avete fatto nello stesso tempo un gran bene ed un gran male al vostro caro Guglielmo.

Eleonora. Del bene che gli posso aver fatto, ho ragione di consolarmi, siccome rattristarmi io deggio, per il male che mi supponete avergli io cagionato.

Livia. Sì, un gran bene sarà per lui l’essere in Palermo riconosciuto; ma un rimarcabile pregiudizio gli fia l’essere con voi impegnato.

Eleonora. Perchè, signora, dite voi questo?

Livia. Perchè se libero egli fosse, sperar potrebbe le nozze di una femmina, la quale non gli porterebbe in dote niente meno di diecimila scudi d’entrata.

Eleonora. Oh Dei! Guglielmo è in grado di conseguire un tal bene?

Livia. Sì, ve lo assicuro, quand’egli provi la civiltà dei natali, può disporre di una sì ricca dote. [p. 326 modifica]

Eleonora. Ed io sarò quella che gli formerà ostacolo al conseguimento di una sì estraordinaria fortuna?

Livia. Sino ch’egli è impegnato con voi, non può dispor di se stesso.

Eleonora. Oimè! Come viver potrei senza del mio adorato Guglielmo?

Livia. Ditemi, gentilissima Eleonora, ha egli con voi altro debito, oltre quello della fede promessa?

Eleonora. No certamente, sono un’onesta fanciulla; e se cadei nella debolezza di venir io stessa a rintracciarlo in Palermo, venni scortata da un fido servo, e trasportata da un eccesso d’amore.

Livia. Voi non vorrete perdere il frutto delle vostre attenzioni.

Eleonora. Perderlo non dovrei certamente.

Livia. Quand’è così, sposate Guglielmo, e sarete due miserabili.

Eleonora. Povero il mio cuore! Egli è soverchiamente angustiato.

SCENA II.

Cameriere e dette.

Cameriere. Signora, queste venti doppie le manda la signora D. Aurora, ed il signor Guglielmo le ha portate fino alla porta.

Livia. Che ha detto nel dare a voi questa borsa?

Cameriere. Mi ha ordinato dirle espressamente, che una donna prudente la invia e che l’ha portata un uomo onorato.

Livia. (Sì, Guglielmo è onorato. Se nelle miserie in cui si trova, mi manda le venti doppie per salvar il decoro di D. Aurora, convien dire ch’egli apprezzi molto l’onore. Andate). (cameriere via) Ah, Eleonora, Guglielmo merita una gran fortuna. Il cielo gliela offerisce, e voi gliela strappate di pugno.

Eleonora. Voi mi trafiggete, voi mi uccidete. Ditemi, che far potrei per non essere la cagione della sua rovina? Potrei sagrificar l’amor mio, potrei perdere il cuore, potrei donargli la vita? Ma come riparare all’onore? Come rimediare sii disordini della mia fuga? Che sarebbe, misera, sventurata, di me? [p. 327 modifica]

Livia. Venite meco, e se amate veramente Guglielmo, preparatevi a far due cose per lui. La prima a giustificar l’esser suo, con gli attestati che sono in vostro potere. La seconda, e questa fìa la più dura, far un sagrificio del vostro cuore alla di lui fortuna.

Eleonora. Aggiungetene un’altra. Morire per sua cagione.

Livia. Se non avete valor per resistere, non lo fate.

Eleonora. Voi non mi proponete una cosa, intorno la quale risolver possa qui su due piedi.

Livia. Andiamo, e ne parleremo.

Eleonora. Sì, andiamo; e se il destino vuol la mia morte, si mora. (via)

Livia. Eh, che il dolor non uccide. Troverò il modo io con l’oro del mio scrigno di acquetare Eleonora, di obbligare Guglielmo, e di consolare l’innamorato mio cuore. (via)

SCENA III.

Camera del Vice Re.

Vice Re ed il Conte Portici.

Conte. Signore, a voi che siete il nostro Vice Re, che vale a dire quella persona che rappresenta il nostro Sovrano, non parlerei senza fondamento; non sono io solo, che ho de’ ragionevoli sospetti contro il forastiere di cui parliamo. Tutti oramai lo guardano attentamente, tutti lo trattano con riserva e tutti lo credono un impostore.

Vice Re. L’ho mandato a chiamare. Poco può tardar a venire. Scoprirò l’esser suo. S’egli è un uomo ozioso, s’egli è un vagabondo, lo farò partir quanto prima; e se di qualche colpa sarà macchiato, lo tratterò come merita.

Conte. Io credo ch’ei sia in Palermo a far la caccia alla dote di D. Livia.

Vice Re. Non è lodabile che un forastiere venga ad usurpare un piccolo tesoretto da questo paese, per trasportarlo nel suo. [p. 328 modifica]

Conte. Quattro mesi ha mangiato alle spalle del povero D. Filiberto.

Vice Re. Ha trovato un uomo di buon cuore. Un povero cittadino, che qualche volta si dà aria da cavaliere.

Conte. E quel ch’è più rimarcabile, D. Aurora è incantata dall’arte di quel ciarliere.

Vice Re. Conte, state certo che, se sarà giusto, lo farò partire.

SCENA IV.

Messo e detti.

Messo. Eccellenza, è qui il forastiere che mi ha comandato condurre.

Vice Re. Conte, ritiratevi; lasciatemi solo con lui.

Conte. Farò come comandate. (Il Vice Re è un cavaliere risoluto; lo esilierà assolutamente, ed io avrò nel cuore di D. Livia un rivale di meno). (via)

Vice Re. Fate che passi.

Messo. Obbedisco. (via)

Vice Re. È debito di chi governa, tener la città purgata da gente oziosa, dai vagabondi, dagl’impostori. Eccolo. All’aria non sembra uomo di cattivo carattere. Ma sovente l’aspetto inganna. Noi non abbiamo a giudicar dalla faccia, ma dai costumi.

SCENA V.

Guglielmo e detto.

Guglielmo. Me umilio a V. E.

Vice Re. Chi siete voi?

Guglielmo. Guglielmo Aretusi.

Vice Re. Di qual paese?

Guglielmo. Venezian per servirla.

Vice Re. Qual è la vostra condizione?

Guglielmo. Ghe dirò, Eccellenza. Son oriondo de Lombardia, e dai mi antenati xe stada trasportada la mia fameggia in [p. 329 modifica] Venezia. Siccome la mia origine xe civil, cussì l’istesso grado s’ha sempre conservà in Venezia, vivendo sempre in parte delle nostre scarse rendite, e in parte con qualche civil impiego. I onesti, ma poveri mi genitori, no i ha mancà de farme applicar a tutti quei studi che giera adattabili alla mia condizion, e ho anca trova nella mia amorosissima patria un tal compatimento, che me dava speranza de dover assae meggiorar el mio stato. Un amor imprudente, un contratto de nozze che doveva esser la mia ruvina, m’ha fatto averzer i occhi, e m’ha messo in desperazion. Ho lassà la patria, ho troncà el filo delle mie speranze; ho cambià cielo, e son stà el bagolo della fortuna, la qual ora alzandome a qualche grado de felicità, ora sbalzandome al fondo della miseria, ha sempre però respettà in mi la civiltà della nascita, l’onestà dei costumi, la illibatezza del cuor, e ad onta de tutte le mie disgrazie, non ho el rimorso d’aver commessa una mala azion.

Vice Re. (La maniera sua di parlare non mi dispiace). Che fate voi in questa città?

Guglielmo. Per dirghela, no so gnanca mi. Dopo varie vicende, unido qualche poco de soldo, me son portà in Napoli. Ho trovaà un certo Agapito Astolfi, el qual m’ha lusingà, m’ha sedotto a far con lu una spezie de società mercantil, e avemo piantà la ditta in mio nome. Dopo qualche tempo pareva che le cose andasse assae ben, ma el mio compagno, el qual tegniva la cassa, fatta una segreta vendita dei meggio capitali, e levà el soldo dalla cassa, el m’ha portà via tutto, e el m’ha lassà miserabile, e quel ch’è pezo, el m’ha lassà esposto col nome e colla persona ai creditori, e per questo me son refugià in Palermo, e ho sconto el cognome per non esser cognossù, e aspetto che do mi amici napolitani, i quali xe andai seguitando el traditor, o me porta la nova d’averlo trovà, o desperandome de poder gnente recuperar, possa determinarme a qualche nova resoluzion.

Vice Re. Conoscete voi D. Livia?

Guglielmo. La conosso. [p. 330 modifica]

Vice Re. Avete seco lei amicizia?

Guglielmo. La m’ha onorà della so bona grazia.

Vice Re. Sento dire ch’ella abbia dell’inclinazione per voi.

Guglielmo. Volesse el cielo, che fosse la verità.

Vice Re. Che! ardireste voi di sposarla?

Guglielmo. Eccellenza, la me perdona, no son omo capace de simular. Digo costantemente, che se le mie circostanze me permettesse de sposar una donna ricca, no saria stolido a ricusarla.. La mia nascita no me fa arrossir, e circa alle ricchezze, queste le considero un accidente della fortuna; e siccome la sorte ha beneficà quella signora col mezzo de una eredità, cussì la me poderia beneficar mi col mezzo de un matrimonio.

Vice Re. Per quel che sento, voi avete delle forti speranze rispetto a un tal matrimonio.

Guglielmo. Anzi no spero gnente. V. E. sappia che gh’ho un impegno con una zovene napolitana, che questa xe vegnua a Palermo a trovarme, e benchè la sia povera, sarò costretto a sposarla.

Vice Re. Sposerete la povera, e lascierete la ricca?

Guglielmo. Cussì pensa, e cussì risolve, chi più delle ricchezze stima el carattere dell’omo onesto. No credo che D. Livia de mi ghe pensa, ma se la me volesse, saria l’istesso.

Vice Re. (Egli ha sentimenti di vero onore). Quanto tempo è che siete in Palermo?

Guglielmo. Quattro mesi.

Vice Re. E io non l’ho mai saputo.

Guglielmo. Eccellenza, ghe domando perdon, l’averia savesto che ghe son, se qua se usasse una certa regola che gh’ho mi in testa, rispetto ai alloggi dei forastieri e alle abitazioni dei paesani.

Vice Re. E qual è questa regola?

Guglielmo. Ghe dirò. Eccellenza, xe un pezzo che gh’ho in tel stomego un progetto, o sia un arrecordo rispetto ai alloggi, tanto fissi che accidentali. Sto mio progetto tende a tre cose: all’utile pubblico, al comodo privato e al bon ordene della città. Se la comanda ascoltarme, la vederà la facilità dell’esecuzion, la verità del progetto e la bellezza dell’arrecordo. [p. 331 modifica]

Vice Re. Esponete e assicuratevi della mia protezione.

Guglielmo. Perdoni, Eccellenza, questo no me par logo per trattar e concluder un affar de sta sorte. Ella xe un cavalier pien de carità e de clemenza, e spero che avanti de obligarme a parlar, la me vorrà assicurar che el mio arrecordo, trova che el sia profittevole, no l’anderà senza premio.

Vice Re. Di ciò siate certo. Andiamo a discorrerne nel mio gabinetto.

Guglielmo. Se V. E. me permette, vago a tor una carta, nella qual ghe farò veder in un colpo d’occhio tutta la macchina, desegnada e compita.

Vice Re. Andate, ch’io v’attendo.

Guglielmo. A momenti son a servirla. (Intanto anderò a vedere cossa xe de Leonora, e po tornerò. Spero de stabilirme in te la grazia del Vice Re, e farò morir de rabbia i nemici. L’arrecordo xe bello, el xe novo, el xe certo; sta volta fazzo la mia fortuna). (via)

Vice Re. Povero giovine! Egli, per quel ch’io scorgo, viene perseguitato con ingiustizia. Il Conte è un amante di D. Livia, non lo credo sincero.

SCENA VI.

Conte Portici e il Vice Re.

Conte. Mi permette V. E....

Vice Re. Oh Conte, io credo che a voi questa città averà una grande obbligazione.

Conte. Per qual ragione, signore?

Vice Re. Voi mi avete scoperto esservi quel forastiere...

Conte. È poi come dicevo io? E un impostore, è un gabbamondo?

Vice Re. Egli è uno il quale darà un arricordo che tende all’utile pubblico, al comodo privato, e al buon ordine della città. Ora vado a sviluppare il progetto, per il quale averà il signor Guglielmo il premio che gli conviene, e voi sarete ringraziato per aver promossa la sua fortuna ed un pubblico beneficio. (via) [p. 332 modifica]

Conte. Il signor Vice Re mi burla. Si prende spasso di me? Colui è un parabolano. Inventerà, alzerà l’ingegno, ingannerà il Vice Re medesimo. Ed io dovrò rimanere schernito? Sarò io creduto un menzognero? L’onor mio vuole che io sostenga quanto ho già detto. Troverò il marchese d’Osimo, troverò il conte di Brano; essi che conoscono Guglielmo assai più di me, verranno meco dal Vice Re, e sosterranno che colui è un falsario e un impostore. (via)

SCENA VII.

Camera di donna Livia.

Donna Livia ed Eleonora.

Livia. Brava, voi siete un’eroina. Voi rinunziate all’amore di Guglielmo, ed io vi lascio in libertà di disporre di seimille scudi.

Eleonora. Che volete ch’io faccia d’un tal denaro?

Livia. Egli servirà per la vostra dote; e se dubitate di trovare uno sposo, sarà mia cura di procurarvelo.

Eleonora. Eh, signora mia, chi ha bene amato una volta, non può assicurarsi di amar un’altra.

Livia. Io non vi propongo un amante, vi propongo un marito.

Eleonora. Un matrimonio senza amore? Sarebbe lo stesso che voler vivere sempre penando.

SCENA VIII.

Cameriere e dette.

Cameriere. Il signor Guglielmo ha premura di parlare colla signora Eleonora.

Livia. Venga pure; io non glielo vieto.

Cameriere. Non ardisce venire. L’aspetta giù.

Livia. Se vuol parlar con lei, ditegli che venga qui, altrimenti non le parlerà certamente.

Cameriere. Glielo dirò. (via) [p. 333 modifica]

Eleonora. (Come mai lo riceverò?) (da sè)

Livia. Su via, seguite ad essere valorosa. Ricevetelo voi. Io mi ritiro, per lasciarvi in libertà di pariare come il cuore vi detta. Non voglio che la mia presenza vi abbia a dar soggezione. Non voglio che abbiate a dire, che siete stata da me violentata. Eccolo; parlategli come v’aggrada, e nuovamente pensate, che dalle vostre parole dipende la sua fortuna. (via)

Eleonora. Ah! fin che non lo vedevo, non mi pareva tanto difficile l’abbandonarlo; ora colla sua vista mi si accresce il tormento.

SCENA IX.

Guglielmo e detta.

Guglielmo. Coss’è, patrona? Tanto la se fa desiderar?

Eleonora. Eh, signor Guglielmo, non credo poi che mi abbiate tanto desiderata.

Guglielmo. Xe tre ore che aspetto.

Eleonora. Ed io sono tre ore che piango.

Guglielmo. Pianzè? per cossa?

Eleonora. Piango per causa vostra?

Guglielmo. Per mi? Cosa v’hoggio fatto?

Eleonora. Non piango per il male che voi a fate me; piango per quello ch’io sono in grado di fare a voi.

Guglielmo. No no, no pianzè per questo. Inveze de farme del mal, e pianzer; feme del ben, e ridemo.

Eleonora. Sì sì, voi ridete, ed io piangerò.

Guglielmo. Coss’è sta? gh’è qualche novità?

Eleonora. Vi par poca novità di dovervi lasciare?

Guglielmo. Lassarme? per cossa?

Eleonora. Per non levarvi una gran fortuna.

Guglielmo. Quala fortuna?

Eleonora. Quella di sposare una ricca vedova.

Guglielmo. Mi sposar una ricca vedova?

Eleonora. Sì, donna Livia con diecimille scudi d’entrata.

Guglielmo. Bisogna veder prima se ela me vol. [p. 334 modifica]

Eleonora. Ella vi desidera, ella sarà vostra, se io vi cedo.

Guglielmo. Come! Chi v’ha dito sta cossa?

Eleonora. Donna Livia medesima.

Guglielmo. Mo se la m’ha scazzà de casa.

Eleonora. Lo ha fatto per gelosia.

Guglielmo. Se no la sa gnancora chi son.

Eleonora. Io ho giustificato l’esser vostro coi documenti che sono ancora nelle mie mani.

Guglielmo. (Mi resto incantà). Ma no sala che son promesso con vu?

Eleonora. Lo sa benissimo.

Guglielmo. Donca, cossa sperela sora de mi?

Eleonora. Spera che io vi ceda, per non recarvi un sì fiero danno.

Guglielmo. La spera? E vu mo cossa diseu?

Eleonora. Dico che morirò, se così volete.

Guglielmo. Eh via! Coss’è sto morir?

Eleonora. Crudele! Avreste cuore d’abbandonarmi? Eccomi per voi esule dalla patria, priva della grazia dei genitori, in grado di dover miseramente perire. Mi lascierete voi in preda alla disperazione?

Guglielmo. No, non sarà mai. Son omo d’onor. Vaga tutto, ma no se diga che per causa mia una putta onesta, una putta civil, s’abbia precipità. Vaga tutto; ve sposerò. E me maraveggio che donna Livia abbia sto cuor, de soffrir che una povera sfortunada se redusa andar remengo, per causa sua.

Eleonora. Ella mi ha offerto seimille scudi.

Guglielmo. Siemille scudi?

Eleonora. E giunse perfino a lusingarmi, che mi avrebbe ritrovato uno sposo.

Guglielmo. Anca un sposo la ve troveria? E vu mo cossa diseu?

Eleonora. La sua proposizione m’irrita.

Guglielmo. Siemille scudi i xe qualcossa.

Eleonora. Potrebbe darmeli sposando voi.

Guglielmo. Oh, sarà diffìcile!

Eleonora. Caro Guglielmo, non mi volete voi bene? [p. 335 modifica]

Guglielmo. Sì, ve veggio ben; ma dìesemille scudi d’intrada?

Eleonora. Ah sì; l’interesse vi accieca. Voi m’abbandonate. Voi mi tradite.

Guglielmo. No, no v’abbandono, no ve tradisso. Son qua, ve sposo in sto momento, se lo volè, e ve fazzo veder in sto ponto, per mantegnir la mia parola, rinunziar diesemille scudi d’intrada.

Eleonora. Ed io avrei cuore di privarvi d’un sì gran bene?

Guglielmo. Qua mo no so cossa dir; mi co digo de sposarve, fazzo el mio debito. Se ve par a vu de precipitarme, tocca a vu a remediarghe.

Eleonora. Sì, vi rimedierò.

Guglielmo. Via mo, come?

Eleonora. Mi ucciderò.

Guglielmo. Vedeu? Queste xe frascherie. Co parlemo de morir, sposemose, e la xe fenia.

Eleonora. Ah, se mi sposate, avrete sempre a rimproverarmi la dote perduta.

Guglielmo. Ve dirò. Qualcossa poi esser che me scampa de bocca. Bisognerà che me compatì.

Eleonora. Dunque sposate pure donna Livia.

Guglielmo. E vu?

Eleonora. E di me non pensate.

Guglielmo. Sentì, con siemille ducati e l’assistenza de donna Livia troverè da logarve.

Eleonora. Ah perfido! ah scellerato! Vedo che voi mi odiate; vedo che con piacere mi abbandonate.

Guglielmo. Ve odio? Ve abbandono? Son qua, deme la man.

Eleonora. La mano?

Guglielmo. Sì, demela, e la xe fenia.

Eleonora. E poi?

Guglielmo. E pò, schiavo.

Eleonora. E i diecimille scudi di rendita?

Guglielmo. Bon viazo; magneremo colle rendite del matrimonio.

Eleonora. Signor Guglielmo, io vi amo più di quello che voi credete, e non ho core di rovinarvi. [p. 336 modifica]

Guglielmo. Se me rovinè mi, ve rovinè anca vu.

Eleonora. Dunque....

Guglielmo. Donca cosa?

Eleonora. Addio.

Guglielmo. Dove andeu?

Eleonora. Dove il cielo destinerà.

Guglielmo. Oh, questo po no. Vôi saver che intenzion che gh’avè.

Eleonora. Crudele.

Guglielmo. Mo via.

Eleonora. Sì, siete un barbaro, siete un ingrato.

Guglielmo. No xe vero gnente; se volè, ve sposo.

Eleonora. Andate a sposare i diecimille scudi d’entrata.

Guglielmo. Sposar diesemille scudi d’entrada? No xe un matrimonio da buttar via. Lo faria volontiera, ma sta putta me fa peccà. Oh diavolo! Una ricchezza de sta sorte la metterò in competenza de una putta, per la qual no gh’ho mo gnanca tutto l’amor? No, no metto la dota in competenza de Eleonora, la metto in competenza del so onor e del mio; e digo che l’onor val più de tutto l’oro del mondo; che se Leonora se quieterà, e sarà salvo el so decoro, abbraccierò sta fortuna. Se no, vaga tutto, ma che se salva l’onor. (via)

SCENA X.

Altra camera in casa di donna Livia.

Donna Livia e donna Aurora.

Aurora. No, il signor Guglielmo da me non si è veduto; e mi meraviglio di lui, che sia partito di casa mia senza congedarsi da me.

Livia. Se vostro marito lo ha discacciato villanamente, non dovea trattenersi.

Aurora. Io non ho parte nello sgarbo di mio marito. Orsù, avete avute le venti doppie? [p. 337 modifica]

Livia. Sì, le ho avute, ma se io le ho donate al signor Guglielmo, perchè voi rimandarle?

Aurora. Perchè il signor Guglielmo non le ha volute.

Livia. Eh, donna Aurora, vi sono degl’imbroglietti.

SCENA XI.

Cameriere e dette.

Cameriere. Con permissione. (a donna Aurora) (Il signor Guglielmo va via in questo momento). (piano a donna Livia, e parie)

Livia. Attendetemi, che ora vengo. (via)

Aurora. Credevo trovar Guglielmo e non l’ho veduto. Perfido! Se ti trovo, ti voglio rimproverar come meriti. E questa la gratitudine che tu hai, per una che ti ha fatto del bene.

SCENA XII.

Eleonora ed Aurora.

Eleonora. Signora, dov’è donna Livia? Poc’anzi non era qui?

Aurora. Sì, vi era, è partita ora, e da qui a poco ritorna.

Eleonora. (Ho risolto. Parlerò a donna Livia, e le farò la rinunzia del cuor di Guglielmo. Ah, che mi sento morire!) (da sè)

Aurora. Che avete, signora, di che vi lagnate?

Eleonora. Eh, troppe sono le mie disgrazie!

Aurora. Chi siete voi?

Eleonora. Il mio nome è Eleonora.

Aurora. Di qual patria?

Eleonora. Napolitana.

Aurora. (Eleonora? Napolitana?) (da sè) Ditemi, sareste voi forse l’amante d’un tal Guglielmo?

Eleonora. Sì, signora.

Aurora. Ora comprendo perchè piangete; l’avrete trovato impegnato con la vedova, non è vero?

Eleonora. Ah, lo sapete ancor voi?

Aurora. Sì, sì, tutto mi è noto. E voi cederete la vostra autorità senza scuotervi, senza chieder giustizia? [p. 338 modifica]

Eleonora. Non ho cuore vederlo perder per mia cagione una dote sì doviziosa.

Aurora. Eh, semplice che siete! Chi v’ha insegnato d’amare in tal guisa? Rinunziare l’amante, per fare la sua fortuna? Eleonora, pensateci. Non vi lasciate sedurre, non vi lasciate ingannare. La vostra pace vai più di tutto l’oro del mondo, e se per far ricco Guglielmo, vi esponete al pericolo di morire, non siate tanto sciocca di sagrificare alla sua fortuna il vostro cuore e la vostra vita, (via)

Eleonora. Chi è costei che mi parla? Un nume del cielo, o un demone dell’inferno.

SCENA XIII.

Donna Livia ed Eleonora.

Livia. (Partì donna Aurora? Per sua cagione non ho potuto veder Guglielmo!) (da sè) Eleonora, che fate qui? Avete voi risolto?

Eleonora. Sì, signora, ho risolto. Guglielmo è mio, e non voglio sagrificare per voi il mio cuore e la mia vita. (via)

Livia. Che sento? Parla così risoluta? Ah, temo che abbia parlato con donna Aurora. Non mi perdo perciò; nulla lascierò intentato per vincere il di lei cuore; e se valerà quanto ho al mondo per persuaderla, non risparmierò denaro e fatica per l’acquisto dell’adorato Guglielmo. (via)

SCENA XIV.

Camera del Vice Re.

Vice Re e Guglielmo.

Vice Re. Io sono talmente persuaso del vostro progetto, che domani lo spedisco a Napoli a Sua Maestà, ove son certo che sarà posto in uso, e voi avrete un premio che vi darà un stato mediocre per tutto il tempo di vostra vita.

Guglielmo. Cossa disela? No xelo facile, no xelo seguro?

Vice Re. È regolato maravigliosamente.

Guglielmo. Nissuno se poderà lamentar?

Vice Re. No certamente. Anzi tutti loderanno l’autore. [p. 339 modifica]

Guglielmo. Bisogna mo trovar una persona onesta, capace de presieder a sto novo carico.

Vice Re. Si troverà.

Guglielmo. Vorria supplicarla d’una grazia.

Vice Re. Dite pure.

Guglielmo. Za che mi ho abù la sorte de proponer una cossa che la trova utile, vorria che la se degnasse de elegger per sta carica una persona che me preme infinitamente.

Vice Re. Quando sia abile, lo farò volentieri.

Guglielmo. L’è a proposito, e questo xe el sior D. Filiberto.

Vice Re. Bene. D. Filiberto averà questo carico, e riconoscerà da voi l’onore e l’utile che porta seco il novello impiego.

Guglielmo. Grazie a Vostra Eccellenza.

SCENA XV.

Conte Portici e detti.

Conte. Signore, io compatisco in faccia vostra un calunniatore, poichè sopraffatto dall’arte finissima di quel parlatore, crederete più a lui che a me. Non è maraviglia che un poeta, specialmente teatrale, avvezzo a macchinar sulle scene e a maneggiar gli affetti a suo modo, abbia l’abilità di guadagnare anche l’animo vostro. Io son nell’impegno, e vi va del mio decoro, se non vi faccio constare quanto vi ho detto intomo alle di lui imposture. Io glielo dico in faccia, e non ho soggezione. Se a me non volete credere, ecco chi più di me lo conosce. Venite, signor Conte; venite, signor Marchese: questi due cavalieri vi parleranno di lui.

SCENA XVI.

Il Conte di Brano, ed il Marchese d’Osimo e detti.

Guglielmo. Eccellenza, mi taso e no digo gnente.

Vice Re. Conte, voi vi riscaldate soverchiamente; e voi, Conte di Brano, che avete a dirmi contro di questo giovane?

Conte di Brano. Io dico che a lui devo la vita. Sapraffatto da [p. 340 modifica] un’eccessiva collera, fui da esso opportunamente avvisato che mi sovrastava la morte. Mi suggerì il rimedio; corsi alla speziaria, e fui costretto cadere. Presi il rimedio da lui ricordatomi; e sono quasi rimesso. Egli in Gaeta ha fatto il medico. Io l’ho creduto un impostore, ma ora dico esser egli un uomo di garbo, il quale oltre le varie altre virtù, possiede quella della medicina.

Conte Portici. Un accidente non lo può autenticare per medico.

Conte di Brano. E non abbiamo prova maggiore per crederlo un impostore.

Guglielmo. (Vardè, quando che i dise. La paura l’ha fatto squasi morir).

Vice Re. E voi, signor Marchese, che dite di questo forastiere?

Marchese. Io l’ho pregato venire a casa mia, e non l’ho veduto.

Guglielmo. La me perdona; non ho podesto, perchè son sta chiamà dove che la vede.

Marchese. Sappiate, signor Guglielmo, che ho communicata la vostra idea ai miei avvocati, e tutti l’applaudiscono, e condannano la direzione degli altri. Anzi penso di domandare la remissione, e voi sarete il principal direttore.

Guglielmo. Grazie dell’onor che la me fa.

Vice Re. Signor Conte, che dite voi?

Conte Portici. Dico che egli ha incantato tutti. D. Filiberto l’aveva in casa, e lo ha discacciato. Ecco D. Filiberto, chiedete ad esso il perchè.

SCENA XVII.

Don Filiberto e detti.

Filiberto. Signore, se io ho tenuto in casa per quattro mesi quel forestiere, l’ho fatto non conoscendolo, ma se egli è in digrazia vostra, se ha qualche malanno addosso, io non ne so nulla, e subito che mi è stato dato da questi signori qualche indizio, non ho tardato un momento a licenziarlo.

Vice Re. E in ricompenza d’averlo licenziato, il signor Guglielmo ha ottenuto la grazia di essere voi direttore di una novella carica.

Filiberto. A me? (al Vice Re) [p. 341 modifica]

Vice Re. Sì, a voi; io ve ne assicuro.

Filiberto. A me! (a Guglielmo)

Guglielmo. Sior sì, a ela, per gratitudine d’averme tegnù quattro mesi in casa.

Filiberto. Andate, che siete un gran galantuomo. Quando si principia la carica?

Vice Re. A suo tempo sarete avvisato. Che dice il signor conte Portici? Conte Portici. Dico che il signor Guglielmo è un uomo di merito, e che per coronare la sua fortuna, non manca altro se non che donna Livia lo sposi.

Guglielmo. Magari ch’el disesse la verità, ma sarà difficile, perchè son impegnà con un altra.

SCENA XVIII.

Messo, poi Donna Livia e detti.

Messo. Eccellenza, è qui la signora donna Livia, che desidera udienza.

Vice Re. Venga, che viene a tempo. (messo via)

Guglielmo. Lupus est in fabula. El xe un de quei arrivi a uso de commedia, dove se fa vegnir le persone co le bisogna.

Livia. Signore, io sono una vedova, che vale a dire una donna libera, che può dispor di se stessa. La fortuna mi ha beneficata con una eredità doviziosa, onde la mia ricca dote eccita in molti la cupidigia, più che l’amore. Vi sono di quelli che pretendono avermi, o coll’autorità, o colla soverchieria; e qui avanti di voi veggo tre rivali, tre amanti non di me, ma delle ricchezze mie. Chi mi ha queste lasciate, non mi vincola ad altro, se non che a sposarmi ad un uomo che sia nato civile, ed il testamento è a voi noto. Per il resto posso io soddisfarmi, e intendo di farlo, e imploro la vostra autorità per poterlo fare. Io amo il signor Guglielmo e lo desidero per mio consorte. Sì signori, l’amo e lo desidero per mio consorte. Vi scuotete? Fremete? Egli lo merita, perchè civilmente è nato; egli lo merita, perchè onestamente sa vivere. La sua nascita si prova con questi fogli. La sua onestà è resa a tutti palese; onde [p. 342 modifica] s’ei non mi sdegna, se il Vice Re nol contrasta, se posso dispor di me stessa, qui alla presenza di chi comanda, e di chi invano impedirlo procura, a lui offerisco la mano, il cuore, e tutto il bene che mi concede la mia fortuna.

Vice Re. Io non mi posso opporre. Siete arbitra di voi stessa. Che dite, signor Guglielmo?

Guglielmo. Digo che resto sorpreso e maraveggià, come una signora de tanto merito se degna de onorarme a sto segno. Cognosso che no merito una sì gran fortuna, e che sia la verità, no la posso accettar per causa dell’impegno che gh’ho con Leonora, la qual no m’ha messo in libertà, e no gh’ho cuor de vederla precipitada per mi. Onde se Leonora no me l’accorda, no ghe sarà pericolo che sposa altra donna, e lasserò qual se sia gran sorte, per mantegnir el ponto d’onor.

SCENA XIX.

Eleonora e detti

Eleonora. No, signor Guglielmo, non vi tradite per me; sposatevi a donna Livia, accettate quel bene che vi offerisce il destino, siate certo io non vi sarò d’ostacolo per conseguirlo. Dopo un lungo combattimento tra l’amor mio e la mia virtù, avevo risoluto in favore di questa, ed ero in punto per cedervi; sopraggiunse donna Aurora, e mi fece mutar pensiero. Tornai ad ascoltar le voci della ragione, e la virtù mi suggerì nuovamente che chi ama davvero, evitar dee la rovina della persona amata. Donna Livia qui mi ha seco condotta; essa mi ha facilitato il modo di mandar ad effetto la mia amorosa risoluzione. Ecco in questo foglio una cedula di seimille scudi, ed eccone mille in questa borsa. Con questi, e con la scorta di due buoni amici di donna Livia, vado in questo momento a chiudermi in un ritiro, e non mi vedrete mai più. (via)

Guglielmo. Come. Vegnì qua, sentì.....

Vice Re. Lasciate ch’ella vada. Non impedite un’opera generosa.

Guglielmo. No so cossa dir; bisognerà lassarla andar.

Livia. Sì, lasciate ch’ella vada a godere uno stato, che [p. 343 modifica] certamente non le potea promettere la miserabile sua condizione; nell’accettar la mia mano, qui alla presenza del Vice Re, prendete il possesso di me, del mio cuore e di quanto possedo.

Conte Portici. Quello che rende ammirabile il signor Guglielmo, si è la grazia con cui sa incantare le donne. Ecco qui anco donna Aurora, che viene a consolarsi nel rivederlo.

SCENA ULTIMA.

Donna Aurora e detti.

Aurora. Signore, come parlate voi? Non son qui venuta per il signor Guglielmo, ma per impetrare dal Vice Re la scarcerazione di Arlecchino mio servitore.

Filiberto. Conte, voi mi offendete.

Vice Re. Orsù; vi ho sofferto abbastanza. Andate e moderate la lingua, se non volete morire in una fortezza.

Conte Portici. Ah signore, compatite la mia passione. Io mi lusingavo poter acquistare la dote di donna Livia, e vedendola da un forastiere acquistata, non mi potei contenere. Vi chiedo scusa, mi rimetto al volere del cielo, e vi assicuro che di questo fatto non ne parlo mai più. Che se la goda il signor Guglielmo, che buon pro gli faccia. Egli la merita, e non so che dire.

Conte di Brano. Anch’io aspiravo alle nozze di donna Livia, ma poichè vedo che il signor Guglielmo è degno d’averla, m’acqueto e non parlo.

Marchese. Sì, il signor Guglielmo la merita, e solo a lui cedute avrei le mie pretensioni.

Aurora. Dunque il signor Guglielmo sposerà donna Livia?

Livia. Sì, malgrado le triste insinuazioni che fatte avete nell’animo di Eleonora.

Aurora. Vi sposi pure, ch’egli n’è degno. Ho fatto stima di lui, ho compatite le sue disgrazie, e la mia stima e la mia compassione non ha mai passato il segno dell’onestà. Sono una donna onorata, e tanto basta per assicurarvi non avere avuto per lui che una giustissima compassione. [p. 344 modifica]

Filiberto. Ehi, il signor Guglielmo mi ha procurato una carica decorosa e lucrosa. (a donna Aurora)

Aurora. Che animo generoso! Mi vien da piangere per tenerezza. Non ho cuor di vederlo. (via)

Vice Re. Orsù, andiamo, che io desidero si concluda il vostro nuzial contratto; e prima che esciate da questo palazzo, si ha da legalmente stabilire.

Guglielmo. Son confuso da tante grazie. Resto attonito per tanta bontà. Ringrazio el cielo, che m’ha assistito; ringrazio donna Livia, che me benefica; ringrazio sora tutti quella povera putta, che per causa mia xe andada a serrarse. Ho passa a sto mondo delle gran vicende. Ho fatto la vita dell’avventurier, ma alfin son sta assistio dal cielo e favorio dalla sorte, perchè son stà un Avventurier onorato; e za che tra le altre cose ho esercità la poesia, voggio recitar un sonetto1.

          El Maestro de scuola m’ha insegnà
               El modo e la prudenza del parlar;
               E dall’arte del Medico ho imparà
               Esser sincero, e al prossimo giovar.
          Dall’Avvocato ho appresa l’onestà;
               Taser dal Segretario, e sopportar;
               Dal Cancellier giustizia e carità;
               Dal Mercante la fede, e a vigilar.
          Come Poeta mi ho imparà a soffrir,
               E co l’è andada ben, no son stà matto
               A solenne per questo insuperbir.
          Son stà sempre l’istesso in ogni stato,
               E me basta a mia gloria poder dir,
               Se son stà Avventurier, son onorato.

Fine della Commedia.



Note

  1. Vedi a pag. 270. n. 1.