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Livia. Venite meco, e se amate veramente Guglielmo, preparatevi a far due cose per lui. La prima a giustificar l’esser suo, con gli attestati che sono in vostro potere. La seconda, e questa fìa la più dura, far un sagrificio del vostro cuore alla di lui fortuna.

Eleonora. Aggiungetene un’altra. Morire per sua cagione.

Livia. Se non avete valor per resistere, non lo fate.

Eleonora. Voi non mi proponete una cosa, intorno la quale risolver possa qui su due piedi.

Livia. Andiamo, e ne parleremo.

Eleonora. Sì, andiamo; e se il destino vuol la mia morte, si mora. (via)

Livia. Eh, che il dolor non uccide. Troverò il modo io con l’oro del mio scrigno di acquetare Eleonora, di obbligare Guglielmo, e di consolare l’innamorato mio cuore. (via)

SCENA III.

Camera del Vice Re.

Vice Re ed il Conte Portici.

Conte. Signore, a voi che siete il nostro Vice Re, che vale a dire quella persona che rappresenta il nostro Sovrano, non parlerei senza fondamento; non sono io solo, che ho de’ ragionevoli sospetti contro il forastiere di cui parliamo. Tutti oramai lo guardano attentamente, tutti lo trattano con riserva e tutti lo credono un impostore.

Vice Re. L’ho mandato a chiamare. Poco può tardar a venire. Scoprirò l’esser suo. S’egli è un uomo ozioso, s’egli è un vagabondo, lo farò partir quanto prima; e se di qualche colpa sarà macchiato, lo tratterò come merita.

Conte. Io credo ch’ei sia in Palermo a far la caccia alla dote di D. Livia.

Vice Re. Non è lodabile che un forastiere venga ad usurpare un piccolo tesoretto da questo paese, per trasportarlo nel suo.