L'avventuriere onorato/Nota storica

Giuseppe Ortolani

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Appendice II
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NOTA STORICA

Prima che altri autori attingessero dalla sua vita qualche argomento adatto al teatro, pensò Goldoni stesso a porre in iscorcio sulle scene, in quel terribile anno delle 16 commedie, se non proprio la sua figura, almeno qualche cosa di sè, un carattere predominante dell’indole sua e dei suoi casi nella giovinezza; e scrisse l’Avventuriere onorato. Dal padre parve il nostro autore aver ereditato lo spirito irrequieto, che fin dalla fanciullezza lo trasse a errare di luogo in luogo, dall’una all’altra occupazione, e non trovò posa che in Francia, per ragione sopra tutto della vecchiezza. Non è già questo un segno indispensabile di scrittore drammatico, benchè giovasse al Goldoni tanta esperienza di persone e di cose: ma direi quasi un segno dei tempi, che si può ritrovare negli uomini nuovi in Italia nella seconda metà del Cinquecento e nel Seicento.

Nel Settecento, il secolo delle confessioni, il buon Dottor veneziano ebbe più d’ogni altro scrittore l’animo pronto alle espansioni e alle confidenze. Egli si compiace di conversare col pubblico, sia quello degli spettatori, sia dei lettori, di manifestare i propri gusti e i propri pensieri, di raccontare le proprie vicende: così come certi suoi personaggi, che si rivelano, parlando con altri o da soli, fin troppo. Tuttavia non bisogna scambiare Goldoni per un ingenuo, il quale anzi nelle sue stesse Memorie lasciò tante cose nella penombra e portò con sè morendo più di un segreto. Si diverte a ripetere cento volte quello che gli pare e piace, nel proemio all’edizione Bettinelli, nelle lettere di dedica e nelle prefazioni delle singole commedie, nelle memorie italiane premesse ai vari volumi dell’edizione Pasquali, nelle epistole in versi e nei poemetti che andavano ad arricchire le raccolte veneziane, infine nei “Mémoires„ che sono la consacrazione, meglio che gli annali, del nuovo teatro comico, e l’ultima sua opera.

Chi del resto cercasse documenti per la biografia goldoniana nell’Avventuriere onorato, resterebbe deluso: questa commedia servì soltanto all’autore per difendersi dalla lingua di qualche maledico, che non aveva mancato di mormorare sull’esistenza passata del grande commediografo, piena d’accidenti bizzarri e mal noti. È bene avvertir subito che il nome di avventuriere non aveva ancora a quel tempo il significato sinistro che assunse più tardi; e se ne adornavano comunemente gli eroi di tutti i romanzi. Invece riesce strano che il Guglielmo della commedia si mostri ben poco onorato, anzi, secondo la coscienza nostra moderna, indegno d’onore. Questo falso medico e falso avvocato, questo mercante semifallito e fuggitivo, che s’insedia sotto falso nome nella casa d’un povero cittadino e per quattro mesi, disprezzato fino dai servi, si pasce all’altrui mensa, che accetta denaro dalle donne, che tradisce una giovane innamorata, che infine fonda la sua fortuna sulle ricchezze d’una vedova capricciosa, è lontano dalla morale insegnata e coltivata nel secolo stesso del Muratori, del Parini, del Filangieri, e lontano dal ritratto a noi familiare di Carlo Goldoni (P. Molmenti, La Storia di Venezia nella vita privata ecc., P. 3.a, il Decadimento, Bergamo, 1908, p. 43 1 ). Certi episodi innocenti nelle memorie goldoniane ricevono una luce men buona passando nella commedia: per colpa, credo anche, della difficoltà del soggetto e dell’arte, che qui venne meno. Così [p. 346 modifica] Goldoni non esercitò mai la medecina, nè fu avvocato di frodo; fu console di Genova, ma non partì da Venezia nel ’43 inseguito dai creditori; non indusse la fanciulla di Feltre a fuggire dalla casa paterna, nè abbandonò sulle lagune una Eleonora; dal Bontadini nel ’33 e da qualche mecenate più tardi accettò ospitalità, doni, soccorsi, ma che chiedesse nel ’53 un prestito di denaro alla nobil donna Sagredo Pisani (v. lettera ed. dall’Urbani) sono restio a credere. Guglielmo dunque invece di scaturire, creazione d’arte perenne, dalla vita vissuta dell’autore, accetta con soverchia facilità sentimenti e avventure dai romanzi del tempo, finchè dopo aver sedotto tanti cuori di donna, seduce anche il Viceré, e sale in poco d’ora al fastigio degli onori e delle ricchezze: vero Gil Blas da strapazzo del teatro riformato.

Pure non mancano accenti sinceri che vengono dal cuore di Goldoni, e questi ci commuovono ancora, come per esempio l’accenno all’interrotta Carriera dell’avvocato (I, sc. 13), il rimpianto dell’ufficio di Coadiutore sostenuto nell’età più bella a Chioggia e a Feltre (I, 14), e i lamenti sul miserabile mestiere di scrittore teatrale (I, 15), che suonano più dolorosi nello spontaneo accento veneziano: «El componer per i Teatri le ghe dise bella profession, mistier dilettevole? Se le savesse tutto, no le dirave cussì. De quanti esercizi ho fatto, questo xe sta el più laborioso, el più difficile, el più tormentoso. Oh, la xe una grem cossa dover sfadigar, suar, destruzerse a un taolin per far una composizion, e po vederla andar in terra, e sentirla criticar e tanaggiar, e in premio dei suori e della fadiga aver dei rimproveri e dei despiaseri». Anche il principio del racconto che fa di sè Guglielmo al Viceré é tutto vero (I, 5).

La presente commedia, avverte l’edizione Bettinelli, «fu posta in iscena il dì 13 di Febbraio 1751 e replicata per otto sere in Venezia. Ha piaciuto in ogni luogo dove si é recitata»; e anche Rosaura nel Complimento d’addio a S. Angelo ricordava: «Sta Commedia ha piasso assae». In fatti sappiamo dalla prefazione dell’autore, nell’edizione Paperini, che fu scritta per il pantalone Collalto, il quale rendeva a meraviglia la parte del bel Veneziano. (Si veda inoltre la sc. 4, A. I, del Teatro comico, nell’ediz. del Bettinelli). E in dialetto veneziano, com’era per buona metà nella rappresentazione, ci vien fortunatamente conservata nell’edizione del Bettinelli, e ora si legge nella nostra Appendice: rifatta poi dall’autore in lingua italiana nel ’54, per l’edizione Paperini di Firenze, diventò più scialba. Dei personaggi minori nessuno è vivo in tutta la commedia, che può chiamarsi a un solo personaggio; e non una scena è veramente bella: ma qua e là si trovano certi tocchi propriamente goldoniani, e si ammira sempre l’arte (qui un po’ l’artificio) di guidar le scene, in modo che l’attenzione non si stanca, e l’inverosimile par naturale. Lo stesso Guglielmo ride insieme col pubblico, quando capita donna Livia in casa del Viceré, sulla fine del terzo atto: «El xe un de quei arrivi a uso de commedia, dove se fa vegnir le persone co le bisogna.»

Si capisce come non potesse reggersi l’Avventuriere sul teatro dopo la partenza del Collalto, e ancora più dopo quella del Goldoni, per la Francia. (A Modena, per es,, fu recitato nel 1754 e nel 1762: Mod. a C. G., 1907, pp. 235 e 237). Giustamente scomparve, quando ben altri avventurieri, onorati e infamati, riempivano la seconda metà di quel secolo delle loro geste ben altrimenti comiche e romanzesche. Tuttavia il titolo trovò fortuna, [p. 347 modifica] e tante volte fu applicato come epiteto al nome glorioso di Goldoni. E forse il titolo piacque in Germania, dove di questa commedia si contano, oltre la versione del Saal, tre imitazioni; e in Portogallo, dove fu pure tradotta (1778). Ma il titolo, se basterà sempre ad attirare qualche lettore curioso, non avrà mai forza d’indurre gli attori alla esumazione d’un lavoro composto di scorie antiquate, senza alcun vitale elemento.

Del marchese Ercole Rondinelli, a Ferrara, fu «ospite fortunato» il buon Dottore nella primavera del 1752, come racconto nella lettera al Bettinelli premessa alla Famiglia dell’Antiq. (nel t. III delle Commedie), dove celebra lo «spirito» e il «talento» della marchesa Lucrezia, che godeva della sua compagnia e della lettura delle sue commedie (del Moliere specialmente), fatta più volte dal Goldoni alla presenza di altri uditori.

G. O.


La presente commedia uscì la prima volta l’anno 1753, nel t. V dell’ed. Bettinelli di Venezia: senza più dialetto e senza l’Arlecchino, apparve in nuova veste l’anno medesimo nel t. III dell’ed. Paperini di Firenze, e fu poi ristampata a Pesaro (Gavelli, III, ’53), a Bologna (Corciolani, VI, ’54), a Torino (Fantino e Olzati. III, ’56). La stampò di nuovo il Pasquali a Venezia l’anno 1762, nel t. IV, con altre correzioni dell’autore: e nella stessa città il Savioli (V. ’71) lo Zatta (cl. 1. V. ’89) il Garbo (V, ’95), a Torino Guibert e Orgeas (IV. ’72), a Livorno il Masi (I, ’88). a Lucca il Bonsignori (IV, 88) e altrove altri nel Settecento. — La nostra ristampa seguì principalmente la lezione più accurata del Pasquali, ma in nota conserva le Varianti delle precedenti edizioni, e in Appendice l’intero testo dell’ed. Bettinelli. Valgono le osservazioni ripetute più volte.