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mente non le potea promettere la miserabile sua condizione; nell’accettar la mia mano, qui alla presenza del Vice Re, prendete il possesso di me, del mio cuore e di quanto possedo.
Conte Portici. Quello che rende ammirabile il signor Guglielmo, si è la grazia con cui sa incantare le donne. Ecco qui anco donna Aurora, che viene a consolarsi nel rivederlo.
SCENA ULTIMA.
Donna Aurora e detti.
Aurora. Signore, come parlate voi? Non son qui venuta per il signor Guglielmo, ma per impetrare dal Vice Re la scarcerazione di Arlecchino mio servitore.
Filiberto. Conte, voi mi offendete.
Vice Re. Orsù; vi ho sofferto abbastanza. Andate e moderate la lingua, se non volete morire in una fortezza.
Conte Portici. Ah signore, compatite la mia passione. Io mi lusingavo poter acquistare la dote di donna Livia, e vedendola da un forastiere acquistata, non mi potei contenere. Vi chiedo scusa, mi rimetto al volere del cielo, e vi assicuro che di questo fatto non ne parlo mai più. Che se la goda il signor Guglielmo, che buon pro gli faccia. Egli la merita, e non so che dire.
Conte di Brano. Anch’io aspiravo alle nozze di donna Livia, ma poichè vedo che il signor Guglielmo è degno d’averla, m’acqueto e non parlo.
Marchese. Sì, il signor Guglielmo la merita, e solo a lui cedute avrei le mie pretensioni.
Aurora. Dunque il signor Guglielmo sposerà donna Livia?
Livia. Sì, malgrado le triste insinuazioni che fatte avete nell’animo di Eleonora.
Aurora. Vi sposi pure, ch’egli n’è degno. Ho fatto stima di lui, ho compatite le sue disgrazie, e la mia stima e la mia compassione non ha mai passato il segno dell’onestà. Sono una donna onorata, e tanto basta per assicurarvi non avere avuto per lui che una giustissima compassione.