L'autobiografia, il carteggio e le poesie varie/II. Carteggio/Appendice

II. Carteggio - Appendice

../XC. Del padre Tommaso Maria Alfani ../../III. Poesie varie filosofiche e autobiografiche IncludiIntestazione 2 maggio 2022 25% Da definire

II. Carteggio - XC. Del padre Tommaso Maria Alfani III. Poesie varie filosofiche e autobiografiche

[p. 279 modifica]

Notizie intorno ai corrispondenti e alle materie

DEL CARTEGGIO DEL VlCO.

I. — Il Magliabechi aveva carteggio (serbato nella NazionaleCentrale di Firenze) coi principali studiosi napoletani del tempo, e particolarmente col suo collega in bibliofilia Giuseppe Vailetta. Dal quale, indubbiamente, il V. fu consigliato a inviare all’erudito fiorentino la sua canzone, per la quale si veda sopra a p. no e piú appresso, tra le Poesie varie, I.

II. — Cfr. pp. no e 116. La lettera del Magliabechi al V. del 28aprile 1693 è andata dispersa. Sul Vailetta pp. 106 e 117-8.

III. — Cfr. p. 109 e no.

IV. — Il conte Antonio Coppola, fratello cadetto di Nicola duca di Canzano e, come costui, fiero antiaustriacante, era nato a Napoli il 16 luglio 1664 e s’era laureato in giurisprudenza nel 1681. Sui rapporti del V. con suo nipote Andrea, p. 122. — Sul Biscardi, cfr. p. 121. La sua Epistola (Napoli, 1703), della quale il V. cita il titolo con qualche inesattezza, gli fruttò nel 1707, all’ingresso degli austriaci a Napoli, la destituzione da reggente del Collaterale.

V. — Sul Vidania, sul Rinaldi e sul Brenckmann, p. 114. Il primo, allora, si trovava temporaneamente a Barcellona alla corte di Carlo HI d’Austria.

VI. — Cfr. piú giú p. 299.

VII. — Dal testo medesimo si scorge che la presente lettera era stata preceduta: a) da una del Crescimbeni, nella quale si chiedeva al V. di restare fedele alla vecchia Arcadia, e conseguentemente di non dare il proprio nome a un gruppo di dissidenti, capeggiati dal Gravina; b) da una prima risposta impegnativa del V.; c) da una replica cortesemente rimproveratrice del Crescimbeni. — Del Nardini non s’hanno notizie. — Il «signor [p. 280 modifica]

Avitabile» è Biagio Maioli d’Avitabile, sul quale cfr. pp. 297-300.— Il «Macrini* è il giureconsulto e versificatore calabrese Giuseppe Macrino o Macri. Nel 1702 scrisse anch’egli una storia della congiura detta di Macchia, che, come l’altra lavorata dal V., fu dall’autoritá politica trovata poco riguardosa verso Filippo V e alcune famiglie nobili napoletane, e perciò non pubblicata. Nel 1711die’ fuori, pei tipi di Felice Mosca, un libro sulla famiglia Da Ponte ( Centi um Pontianae orígo et series . . . compendio descripta)\ nel 1716, presso lo stesso tipografo, un poemetto latino con note, dedicato a Paolo Mattia Doria ( Vindetnialium ad Campani ae ttsutn libri duo). Di lui, inoltre, s’hanno versi nelle raccolte del tempo (p. es. in quella per la partenza del Santostefano), che gli procurarono dal Giannelli la lode di poeta colto ed elegante. — L’abate Andrea Belvedere (1642-1732) è il noto pittore e commediografo, amicissimo del Capasso e, come il Capasso, organizzatore di burle a danno di comuni amici, tra cui qualche volta potè essere il V.

Vili. — Bernardo Maria (al secolo Severo) Giacco o Giacchi da Napoli (1672-1744)1 entrato a quindici anni nell’ordine cappuccino, del quale divenne «definitore», non senza essere interinalmente bibliotecario del convento napoletano di San Giovanni a Carbonara e, un’altra volta, provinciale, era stato messo in moda a Napoli, come predicatore (1700 circa), dalla celebre Aurora Sanseverino (1669-1726). Ma nelle sue prediche, a giudicarne dal testo a stampa (Napoli, 1746; 2® ediz., ivi, 1749), piú che altro, si trova una gran cura della forma, stucchevolmente treeenteggiante e toscaneggiante: quella appunto che piaceva a Napoli a palati ormai disgustati dalle stravaganze dei predicatori barocchi. Circa il 1720, a causa di continui sbocchi di sangue, s’era rivirato nel convento di Santa Maria degli Angeli di Arienzo, recandosi, per altro, di tanto in tanto a Napoli fra i suoi amici e ammiratori, tra i quali il piú entusiasta era forse il V. — Sulla Sinopsi del Diritto universale., p. 117.

IX. — Del Ghemmingen dá notizie lo stesso V. nella nota. — Il domenicano Tommaso Maria Alfani (n. a Salerno j 679, in. a Napoli, 1742) si occupò di filosofia scolastica, poi di fisica e matematica; fondò a Salerno l’Accademia degli Inquieti (1709); fu teologo cesareo; visse i suoi ultimi anni nel convento di San Domenico Maggiore di Napoli, donde ebbe rapporti letterari col Ledere e parecchi studiosi napoletani, tra cui Agostino Ariani e il V. [p. 281 modifica]

(cfr. pp. 242, 244, 278). Oltre che pubblicare alcune opere di materia ecclesiastica, curò edizioni del Tasso, del Sannazaro, del Guidiccioni e di altri scrittori italiani. — Per l’accenno all’Hiiber e al Tomasio, p. 118. — Il passo di Tacito ( Germania , 19) fu poi messo a profitto dal V. nella seconda Scienza nuova (ediz. Nicolini 2 , capov. 435).

XI. — Francesco Ventura, al quale il V. dedicò il Diritto universale ’, fu via via giudice di Vicaria (1715), uditore generale dell’esercito, consigliere del Sacro Reai Consiglio (1717), reggente del Collaterale (1725), caporuota del Sacro Reai Consiglio e consigliere della Reai Camera di Santa Chiara (1735), presidente del Supremo Tribunale di Commercio (1739). Mori a Napoli il io novembre 1759. Del suo salotto letterario, frequentato, oltre che dal V., anche e sopra tutto dal Giannone, danno notizie il medesimo Giannone nella Vita scritta da lui medesimo e Vincenzo Ariani nella Vila di Agostino Ariani. — Don Muzio di Maio era allora uditore generale dell’esercito e favorito del viceré Cardinal d’Althann: nel giugno 1729 fu nominato caporuota della Gran Corte della Vicaria. Anch’egli aveva un salotto letterario, frequentato, tra altri, dal Capasso, che vi lesse via via la sua traduzione in dialetto napoletano dell’ Iliade, dedicata per l’appunto al Di Maio. — Di Aniello Spagnuolo, che ha rime in parecchie tra le miscellanee poetiche alle quali collaborò il V., non si conosce altro, oltre le poche notizie fornite dal V. stesso (cfr. p. es., a p. 102, quella della sua morte violenta, avvenuta intorno al 1730), che nel 1694 era studente di giurisprudenza presso l’Universitá di Napoli e che nel 1710fu ascritto all’Arcadia. — Veramente, lo stile del Giacco era proprio il contrario della «naturalezza». Ma naturale sembrava al «purista» Vico. — Di Marcello Filomarino delia Torre — di cui non mancano rime nelle raccolte del tempo e che, datosi poi a vita ecclesiastica, fu vescovo di Mileto e mori a Napoli il 13 marzo 1750— il V. era stato nel 1708 maestro supplente durante l’infermitá del maestro titolare Giovanni Scoppa: vedere anche sopra pp. 113 e 123. — Per l’accenno al Salvini, p. 117; per le giovanili «debolezze ed errori» religiosi del V., p. 109; pei «dotti cattivi», detrattori giá della Sinopsi e ora del De uno, p. 117.

XII. — Anche il marchese Alessandro Rinuccini (1686-1758) — valente studioso di economia, che dalla natia Firenze s’era ritirato a Napoli, ov’è sepolto nella chiesa di San Domenico Soriano — soleva radunare nella sua casa presso Port’Alba (poi palazzo Tom [p. 282 modifica]

masi) una scelta conversazione letteraria. La lettera di lui al Salvini è andata dispersa: si serba bensí nella Marucelliana di Firenze, con molte postille autografe del Salvini, il magnifico esemplare del De uno , in carta reale e dai larghissimi margini, inviato dal V. al filologo fiorentino.

XV. — Dal carteggio inedito di Celestino Galiani si desume che nel 1720 l’allora giovanissimo Gianluca Pallavicino (1697-1773), poi feldmaresciallo austriaco e governatore di Milano, volendo sposare (e la sposò), contro la volontá dei suoi genitori, la sua congiunta Anna Maria Pallavicino, di cui egli medesimo aveva fatto sciogliere a Roma le precedenti nozze, mandò in giro, tra risate generali, da Genova per tutta Italia, e anche a Napoli (maggio 1720), precisamente Goffredo Filippi, con l’incarico di raccogliere «pareri» di persone ragguardevoli intorno a quel divisato matrimonio. Ed è molto probabile che il Filippi interrogasse al riguardo anche il V. (che sembra gli donasse, per giunta, il De uno), giacché dal medesimo carteggio galianeo appare che il Pallavicino (giá, a Roma, discepolo del Galiani) era stato nel 1717-8 a Napoli, ricevendovi molte cortesie da Paolo Mattia Doria (cfr. sopra p. 113) e dai principali studiosi napoletani, tra i quali è difficile mancasse il V.

XVI. — Poiché la presente lettera fu pubblicata dal V. in appendice al De constantia, è da supporre ch’egli inviasse allo Spagnolo i fogli dell’opera prima ancora che questa vedesse la luce. — Il «Beclero» è, fra tanti altri scrittori di questo cognome, certamente lo storico Giovanni Enrico Boeder da Kronheim (16x1-92); Guglielmo Grozio era fratello del grande Ugo.

XVII. — Giovanni Antonio Chiaiese — probabile discendente di quel ridicolo dottor Giovan Domenico Chiaiese, il cui nome ricorre tante volte nella letteratura dialettale napoletana della prima metá del Seicento ed è ricordato altresí nella Pinacotheca dell’Eritreo (cfr. Arch. stor. nap., l, 19 sgg.) — aveva avuto nel 1701 l’ interim e nel 1703 la proprietá della cattedra d’istituzioni civili nell’Universitá di Napoli. Nel 1723 concorse contro il V. a quella di ius civile della mattina. Dal 1731 al 1734 fu vescovo di Mottola. Qualcuna delle sue osservazioni, e particolarmente quella sui divina nomina , fu messa a profitto dal V. nella seconda Scienza nuova (ed. cit., capov. 433). — Del Geremia non s’hanno notizie.

XIX. — L’archeologo e letterato Biagio Garofalo, nato nel 1677 a Napoli e ivi laureato in giurisprudenza (1694), era stato alcuni [p. 283 modifica]

anni a Roma presso monsignor Giusto Fontanini, e circa il 1720 s’era ritirato a Vienna, ove mori nel 1752. Assai ben visto dal principe Eugenio di Savoia, ebbe anche cordiale amicizia con Pietro Giannone. Tra le molte sue opere, il V. ricorda con lode, nel De constantia , una Dissertatio de niercaturis (Venezia, 1718).

XX. — Dal testo non parrebbe che destinatario della lettera fosse il V. Forse essa è brano di piú ampia lettera scritta dal Minorelli (professore di teologia, prefetto della Casanatense, autore di parecchie orazioni parenetiche e panegiriche) al suo correligionario padre Tommaso Maria Alfani.

XXI. — Di Alfonso Carfora non s’hanno notizie. Un Francesco Carfora, bensi, fu consigliere del Sacro Reai Consiglio e mori a Napoli il 24 settembre 1764; e un Nicola Cafora, studioso di storia e di questioni giurisdizionali e autore d’un disperso riassunto dell’ Istoria ch’ile del Giannone, fu nel 1737-8 segretario dell’ambasciata napoletana a Madrid, alla dipendenza dell’ambasciatore titolare ed ex-allievo del V., Giambattista Filomarino della Rocca.

XXIII. — L’esemplare del Diritto universale inviato al principe Eugenio si serba nella Biblioteca Nazionale di Vienna. Copia delle molte postille autografe, aggiunte dal V. nei margini, è nella Collectio viciana di Benedetto Croce.

XXIV. — Per l’ Alfano cfr. quassú pp. 280-1. — Nessun’altra notizia, oltre quelle fornite dal V. (che probabilmente gli fu precettore), s’ha della dimora a Napoli del giovane conte di YVildenstein.

XXV. — Cfr. p. 122. Di che potesse trattare il passo aggiunto a penna nell’esemplare dell’Orazione per la d’Althann inviato al Giacco non si riesce nemmeno a congetturare.

XXVII. — La lettera del V. al principe Eugenio del 25 luglio 1724è andata dispersa.

XXVIII. — Il bolognese Filippo Maria Monti fu nominato nel 1734segretario di Propaganda Fide e nel 1743 cardinale: mori il 1754. Cosi la lettera scritta a lui dal Garofalo (che le lettere di Pietro Giannone al fratello mostrano in quel tempo in breve dimora a Napoli), come la sua risposta al medesimo Garofalo sono andate disperse. — Sul Corsini, p. 119. — Il «museo», cioè la biblioteca privata, del Monti è rifuso oggi nella Biblioteca universitaria di Bologna, ove si trovano, con dediche autografe al Monti, quasi tutte le opere del V., comprese la prima e la seconda Scienza nuova. — La «lettera dedicatoria a Sua Eminenza» è una prima redazione, oggi dispersa, della dedica al Corsini, che, in una [p. 284 modifica]

seconda redazione e con la data dell’8 maggio 1725, fu premessa alla prima Scienza nuova. Che il Monti la presentasse al Corsini e scrivesse o facesse scrivere al V. che il cardinale l’aveva gradita, è affermato esplicitamente nella lettera XXXVII: sta, per altro, in fatto che il V., oltre che del Monti, si servi, come d’intermediario presso il Corsini, anche di Francesco Buonocore (cfr. lettera XXIX).

XXIX. — Francesco Buonocore o Boncore, nato a Napoli da famiglia ischiana il 22 novembre 1680, era stato in medicina discepolo del Cirillo e dell’Ariani e, in rettorica, del V-, dal quale aveva imparato a far versi, parecchi dei quali s’incontrano nelle raccolte del tempo. Archiatra allora di Filippo V di Spagna, tornò a Napoli nel 1734 con Carlo di Borbone, che lo nominò protomedico del Regno, non senza critiche di chi rimproverava al B. di dare ai suoi ammalati troppe medicine. A istanza di lui il V. scrisse nel 1738 un’iscrizione pel sepolcreto deH’arciconfraternita dei farmacisti di Napoli.

XXXI. — È risposta, naturalmente, a una lettera dispersa del V., il quale, terminata nel ms. la Scienza nuova iti forma negativa , aveva chiesto quel sussidio per la stampa, che il Corsini, con l’accettazione della dedica, aveva implicitamente promesso (cfr. lett. XXX).

XXXII. — Sull’Esperti, p. 124. La sua lettera al Porcia del 23giugno 1725 è andata dispersa. Ma dalla risposta del Porcia appare chiaro che fin da quel giorno l’Esperti gli aveva inviato a Venezia il primo pezzo dell’ Autobiografia vichiana. — Tra i «medici letterati» napoletani, di cui l’Esperti aveva discorso col Porcia, era indubbiamente Nicola Cirillo (cfi\ lett. XXXIV).

XXXIII. — Il padre abate Celestino Galiani (n. a San Giovanni Rotondo il i68x, m. a Napoli il 1753) dimorava allora a Roma, ove insegnava storia ecclesiastica nella Sapienza. Fu poi generale dell’ordine celestino (1729), arcivescovo di Taranto (1731), cappellano maggiore del Regno e arcivescovo di Tessalonica (1732), stipulatore d’un concordato tra Roma e Napoli (1737-41)» presidente del Tribunale misto (1741). I suoi mss., tra cui un’autobiografia e un amplissimo carteggio inediti, si serbano oggi dalla Societá napoletana di storia patria. Il V. lo conobbe di persona a Napoli nel 173 r, ricevendone poi parecchie prove d’affetto e di stima (cfr. pp. 304-9). — Sul Petagna vedere anche lett. XXXI V e XLIII. — L’esemplare della Scienza nuova prima inviato al Galiani si serba, [p. 285 modifica]

con dedica autografa del V., dal signor Angelo Marzorati di Roma. E nella Collectio citata del Croce è, parimente con dedica autografa al Galiani, un esemplare postillato della Scienza nuova seconda (i73o).

XXXIV. — La lettera delI’Esperti, a cui il V. risponde, è andata dispersa. — -La «cassetta» è quella di cui si discorre nella lettera precedente: l’invio di essa doveva essere stato preannunziato in un’altra lettera del V. all’Esperti, parimente perduta. — «Sua Eminenza» è il Cardinal Corsini; «don Saverio Mastellone», probabilmente l’avvocato Francesco Mastellone, poi giudice di Vicaria (1731) e commissario di campagna, morto a Napoli nel marzo 1736. — Il V. s’illudeva d’aver dimostrato, mercé la sua interpetrazionc dei due dragoni sprizzanti fiamme nell’insegna del Toson d’oro e dei tre rospi (come si credeva ai suoi tempi) della primitiva arma di Francia ( Scienza nuova prima , libro III, cap. 30), che gli Asburgo e i Borboni avessero un’antichitá «eroica» di ben quattromila anni. — Tra gli esemplari della Scienza nuova prima che dovevano «andar per l’Italia», e pei quali il V. si riprometteva d’ «incomodare appresso» l’Esperti, furono quelli inviati a Venezia, per mezzo di costui, al Porcia, al Lodoli e ad altri. — Da Marcello Filomarino l’Esperti desiderava che sollecitasse il Doria a scrivere pel Porcia la propria Vita letteraria. — Sul Ciccarelli, p. 124. — L’«incomodo», che Nicola Cirillo (cfr. p. 124), a giudizio del V., non avrebbe voluto prendersi «per la sua gloria», era anch’esso relativo all’invito fattogli dal Porcia, per mezzo dell’Esperti, del Ciccarelli e del V., di scrivere la propria autobiografia.

XXXVI. — Principe di Avellino era allora Marino Francesco Marino Caracciolo, gran cancelliere del Regno dal 1674 alla sua morte (1727) e, come tale, capo del Collegio dei dottori. È probabile che la lettera del Ledere al V. fosse consegnata o inviata a esso Caracciolo dal suo secondogenito Ambrogio, che documenti del tempo mostrano dimorante abitualmente a Vienna e sovente viaggiante per l’Europa. — Per gli articoli del Ledere sul Diritto universale , cfr. sopra l’ Appendice all’ Autobiografia. — L’ Indice o, meglio, la Tavola delle volgari tradizioni sta in fine della Scienza nuova prima e ha inizio col ricordo del giudizio di Ledere. — Il pistoiese Carlo Agostino Fabroni, cardinale dal 1706 e morto nel 1727, appare dal carteggio inedito di Celestino Galiani uno dei «barboni» del Sacro Collegio, cioè tra i cardinali ostili a qualsiasi [p. 286 modifica]

novitá religiosa e politica e sopra tutto antigiansenisti. Il suo giudizio sul V. fu forse comunicato a quest’ultimo dall’ Esperti in qualche lettera dispersa. — Sull’Athias, pp. 120-1.

XLI. — Sul Degli Angioli, p. 123. — Parecchie osservazioni contenute nella presente lettera furono poi rifuse e ampliate nella seconda Scienza nuova. — Sul Sostegni, p. 123. — S’avverta che nel 1730comparve un’edizione delle Poesie del Degli Angioli con prefazione del V.

XLII. — Anche la lettera dell’Esperti, a cui qui il V. risponde, è andata dispersa. — L’«onesta utilitá», che il V. sperava dalla sua immaginaria scoperta dell’origine eroica e antichissima degli Asburgo e dei Borboni (cfr. lett. XXXIV), doveva essere qualche ricognizione ch’egli si lusingava d’ottenere, per mezzo del Corsini, dagli ambasciatori austriaco e francese a Roma. Da che il consiglio dell’Esperti di rivolgersi piuttosto a questi ultimi, ossia ai cardinali Alvaro Cienfuegos (1657-1739) e Melchiorre di Polignac (1661-1741): il primo, gesuita, fiero antigiansenista e poi anche vescovo di Catania e arcivescovo di Monreale; il secondo, autore, fra l’altro, del notissimo poema Antilucretius seu de Deo et natura, e che dal 1724 al 1730 tenne aperto a Roma un elegantissimo salotto letterario, su cui fornisce notizie l’inedito carteggio di Celestino Galiani, che ne fu tra i frequentatori piú assidui. — Non si conosce nulla dell’abate Odazi, che a Roma aveva lodata la Scienza nuova. Forse era ascendente dell’economista Troiano Odazi da Atri (1741-94), titolare dal 1781 della cattedra di commercio nell’Universitá di Napoli e che, coinvolto nella congiura giacobina del 1793-4, mori suicida nelle carceri della Vicaria. — «Davia» e » Pico» sono i cardinali Giannantonio Davia da Bologna (fi74o) e Luigi Pico della Mirandola (+1743): «barbone» il secondo; ma giansenista o filo-giansenista, oltre che dottissimo e praticissimo di affari politici, il primo, che nel 1730 per pochi voti non ebbe il papato, e di cui si serbano inedite molte belle lettere a Celestino Galiani. — Per le vite letterarie promesse dal Cirillo e dal Doria cfr. lett. XXXIV.

XLIII. — Il gesuita Edoardo de Vitry (n. a Chálons sur Marne 1666, m. a Roma 1730) aveva professato a Caen (1702 sgg.) filosofia, matematica, astronomia, sacra scrittura e teologia; s’era poi trasferito a Cambray, ov’era stato in dimestichezza col Fénelon, di cui fu «teologo»; e dal 1709 s’era ritirato a Roma, dedito sopra tutto a studi di archeologia e di numismatica. Da una sua lettera [p. 287 modifica]

inedita a monsignor don Leone Sforza (Parigi, 20 maggio 1702), serbata nella Biblioteca civica di Torino, si desume che fin dal 1702era tra gli estensori dei Mémoires de Trévoux, ai quali giá da allora faceva di tutto per procurare corrispondenti italiani. La lettera, con la quale il V. gli aveva raccomandato il Petagna e inviata la Scienza nuova prima , è andata dispersa. Per la risposta del V. cfr. lett. XLV.

XLV. — Il «Cardinal del Bosco» è il celebre primo ministro della Reggenza Cardinal Guglielmo Dubois (1656-1723). Della vendita della sua biblioteca discorre altresí in una inedita lettera a Celestino Galiani (Vienna, 8 decembre 1725) il matematico milanese Gian Iacopo Marinoni, il quale informa che i libri matematici, perché non ricercati, furono venduti per poco (e taluni ne acquistò il Marinoni medesimo), ma che gl’incunaboli o libri rari vennero «pagati a prezzi enormi», e, per es., non meno di 2700 fiorini d’Olanda la raccolta di rami francesi conosciuta col nome di Cabinet du roi. — Le stamperie napoletane, che fino a pochi anni prima, avevano procurato d’imitare, anche nei rami, quelle francesi e olandesi, erano state le due dei francesi Antonio Bulifon (scappato da Napoli nel 1707) e Iacopo Raillard (che nel 1726doveva essere morto). Procurava d’accostarsi a loro il tipografo abituale del V., Felice Mosca. — Sul Vailetta e la vendita della sua biblioteca, pp. 117-8.

XLVII. — Cfr. p. 123 sgg. — Il «residente veneziano» è, ancora una volta, Giovanni Zuccato. — Le annotazioni alla Scienza nuova prima, di cui il V. avrebbe voluto inviare nel marzo 172S soltanto una parte, furono poi spedite tutte, come s’ è visto, nell’ottobre 1729. — La lettera del V. del io marzo 1728 è andata dispersa: per le «protestazioni» ivi contenute, pp. 65-6.

XLVIII. — Dell’Estevan non s’hanno altre notizie che quelle fornite da lui medesimo nella presente lettera. Alla quale il V. dovè rispondere inviando, tra altri suoi scritti, l’orazione in morte della Cimmino, e l’Estevan replicare affermando (e, da un punto di vista meramente stilistico, non del tutto a torto) questa il capolavoro vichiano: da che la controreplica del V. e la lettera di scusa dell’Estevan (lett. XLIX e L).

LI. — Il filosofo Tommaso Rossi o Russo da Montefusco (?-i743) scrisse, tra l’altro, Considerazioni di alcuni misteri divini (Benevento, 1736); Dell’animo umano (Venezia, 1736); La mente sovrana del mondo (Napoli, 1743). [p. 288 modifica]

LII. — Il cappuccino Michelangelo Franceschi da Reggio Emilia (1688-1766) aveva con grande successo predicato nel Duomo di Napoli durante la quaresima del 1729 ed era stato piú volte ospite del V., che s’era fatto promotore e raccoglitore di alcuni Componimenti poetici in lode di lui (Napoli, Mosca), ai quali aveva collaborato con una dedica epigrafica e anche, insieme con sua figlia Luisa, con alcune rime. — La lettera del V., a cui il Franceschi risponde, è andata dispersa. — L’Orsi è il noto letterato Gian Gioseffo Orsi da Bologna (1652-1733): cfr. anche lett. LVI, da vedere sopra tutto pei rapporti del Muratori col V. — Malgrado la «felicissima cura», il Sostegni mori pochi mesi dopo (cfr. pp. 61-2, 123). — La «signora donna Luisa» e la «signora Marianna» (cosi chiamata scherzosamente) sono rispettivamente la Luisa Vico e la sua figliuoletta Marianna Servillo (cfr. p. 129). — La «buona aria», di cui esse erano andate a godere, era quella d’un «casino» che il marito della Luisa, Antonio Servillo, possedeva a Capodimonte e che poi fu espropriato da Carlo di Borbone per la villa reale. Ivi pare si recasse di quando in quando a ritemprarsi il V. — Il libro che si doveva stampare a Venezia era, naturalmente, la divisata edizione accresciuta della prima Scienza nuova (cfr. p. 62 sgg). — Proprio «Cranio (sic) de Iosa» è scritto nell’autografo. Ma si tratta certamente di un canonico Mattia de Iossa da Potenza, che curò per le stampe una Orazione panegirica iti lode del glorioso san Gennaro, protettore della fedelissima cittá di Napoli, recitata nella seconda domenica dí quaresima dal padre Michelangelo da Reggio dí Lombardia, cappuccino, lettore di sacra teologia e predicatore del Duomo di Napoli nell’anno MDCCXXIX, consacrata all’ill.mo et ecc.mo don Nicolò Gallo de’ duchi d’Alvito, ecc. (in Napoli, per Francesco Ricciardo, 1729). — Il «padre guardiano de’ capuccini» è, probabilmente, il padre Antonio da Palazzuolo (cfr. p. 132), col quale il V. era in relazione per lo meno dal 1728.

LUI. — Cfr. p. 125. — La libreria di Antonio Rispolo, amico d’infanzia del V., era a San Biagio dei Librai, n.° 34.

LIV. — Le iscrizioni, alle quali qui si accenna, sono un rifacimento vicinano di altre (ora perdute) scritte dal Giacco per una serie di medaglioni (ora distrutti) fatti dipingere da lui nel chiostro del convento di Santa Maria degli Angeli di Arienzo. Il Cassino, che vide ai principi dell’Ottocento il ms. del Giacco, scrive che «era bello vedere il latino del frate, che alquanto olebat hircutn, messo a confronto del latino vicinano, tutto oro» . [p. 289 modifica]

LV. — A proposito dell’opera del Russo: Dell’ animo umano , pubblicata, come s’è detto, a Venezia nel 1736 e fregiata di questa lettera del V., con lievi ritocchi e con data mutata.

LVI. — L’Accademia degli Assorditi di Urbino, fondata giá nel Cinquecento, era stata riordinata nel 1728 col consiglio e l’assistenza del Muratori, a ciò invitato sopra tutto dallo scolopio modenese Gian Prospero Bulgarelli di Sant’Ubaldo (1701-75). — La lettera del Muratori, a cui il V. risponde, è andata dispersa; ma da altre lettere del carteggio muratoriano si conosce che il V. fu aggregato agli Assorditi, insieme con gli altri regnicoli Matteo Egizio e Giacinto Gimtna, il 17 maggio 1730, e che intermediario fra essi tre e il Muratori era stato il letterato napoletano, e attivo corrispondente dello storico modenese, Ignazio Maria Cuomo. — Ciascun accademico assordito doveva fornire al Bulgarelli (il «consaputo padre» a cui allude il V.) appunti autobiografici, che il Bulgarelli avrebbe dovuto poi distendere in un volume di Vite, che non fu mai pubblicato e dei cui materiali non si conosce la sorte. Da ciò la richiesta del Muratori e il cortese rifiuto del V., il quale, per altro, non è impossibile finisse col cedere e inviare al Bulgarelli cosi il perduto rifacimento del primo pezzo Autobiografia , come l’ Aggiunta, ritrovata in minuta tra le sue carte (cfr. nota bibliografica in fine del presente volume). — L’«abate Chiappini» è l’agostiniano Alessandro Maria Chiappini, n. a Piacenza nel 1680, m. a Roma nel 1751. — Sull’Orsi e il padre Michelangelo da Reggio, cfr. lett. LII.

LVII. — Sul Lodovico, p. 127. Nel suo scherzo complimentoso si allude alla «dipintura» premessa alla seconda Scienza nuova.

LVIII. — Nicola Gaetani di Laurenzana, marito della giá ricordata Aurora Sanseverino, era stato discepolo privato del V., che gli riscrisse da cima a fondo (come mostra l’autografo vichiano tuttora esistente) l’opera: La disciplina del cavalier giovane (Napoli, 1738), della quale il V. stesso die’, come censore civile, un parere altamente elogiativo. Da che la probabilitá che il V. ponesse le mani anche nell’altra opera del Gaetani ricordata nella presente lettera, e cioè negli Avvertimenti intorno alle passioni dell’animo umatio (Napoli, 1732).

LX. — Nicola Giovo o Giuvo, studente nell’Universitá di Napoli press’a poco negli anni in cui vi fu iscritto il V., era un poeta cortigiano, che servi dapprima in casa Laurenzana, poi presso Carlo di Borbone, che nel 1739 1 ° nominò poeta di corte, final G. B. Vico, Opere - v.

19 [p. 290 modifica]

mente, a quanto sembra, in casa di Carlo Spinelli principe di Tarsia, per l’apertura della cui biblioteca (per la quale il V., poco prima di morire, aveva preparato un distico, che fu poi ivi inciso) curò una miscellanea poetica (Napoli, 1747). — In casa del Laurenzana il V. dovè incontrarsi altresí col pittore Bernardo de Dominici (1684-1770), che serviva di paesi, marine e bambocciate quel signore, e che ricorda il V. e il Giovo tra coloro che gli dettero aiuti per le sue famigerate Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani (Napoli, 1742-3).

LXI. — Questo rifacimento della lettera LIX era destinato a un volume contenente elogi del duca di Laurenzana.

LXII. — Il domenicano friulano Domenico Concina (1686-1756), di cui può vedersi il ritratto nella Marciana di Venezia e le cui opere fílosofico-teologiche, prevalentemente polemiche, suscitarono molte ire durante l’accesa guerra prò e contra il giansenismo, era allora a Napoli a predicare la quaresima. Domenicano altresí il fratello di lui Nicola (m. 1763), il quale, dopo d’avere insegnato nelle scuole del suo ordine, era passato circa quel tempo (1732) alla cattedra di metafisica nell’Universitá di Padova. Del qual Nicola il padre Daniele donò al V. il testo a stampa d’una Or alio recitata per l’apertura dell’anno accademico 1732-3 e nella quale era ricordato con grandi elogi il Diritto universale. Da clic’ una dispersa lettera di ringraziamento del V., accompagnata dall’ invio di due opuscoli, che furono quasi certamente le llndiciae e il De mente heroica (cfr. lett. LXI II).

LXI II. — L’esemplare postillato della Scienza nuova seconda (1730) donato dal V. al padre Daniele Concina è andato disperso. Ma in che cosa consistessero quelle postille, attese con tanta ansia dal p. Nicola, può scorgersi da parecchi altri esemplari postillati della medesima opera. Esse, del resto, furono rifuse dal V. stesso nelle Correzioni, miglioramenti e aggiunte terze (cfr. p. 1 26). — L’«orazione» del p. Nicola Concina è quella ricordata nella nota alla lett. LXII, da vedere altresi pei due opuscoli a lui inviati dal V.

LXIV. — Giuseppe Pasquale Cirillo da Grumo (1709-76), della stessa famiglia dei medici Nicola e Domenico, era stato discepolo del V. Nel 1729 ebbe la cattedra di diritto canonico nell’Universitá di Napoli, salvo a passare nel 1732 a quella di istituzioni di diritto civile, nel 1738 a quella di diritto municipale e nel 1755 alla cattedra di diritto civile della mattina (quella invano desiderata dal V.). Pubblicò parecchie opere giuridiche; fu estensore del [p. 291 modifica]

Codice carolino ; scrisse versi e commedie, nelle quali soleva anche recitare; curò edizioni delle Battaglie del Muzio e delle Poesie di Francesco Lorenzini; e compilò altresi i Ragguagli dell’ accademia degli Oziosi istituita in casa del signor don Niccolò Salerni (Napoli, 1734), intorno alla quale si veda sopra p. 127.— Il passo del Giustiniani è nelle Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli (Napoli, 1787-8), I, 154: per quelli della Scienza nuova messi a profitto nella ricostruzione della presente lettera cfr. ediz. Nicolini 2 , capovv. 910 e 1034.

LXV. — Non si conosce quale posto il V. volesse far conferire a suo figlio Gennaro per mezzo del p. Lodovico, né se questi, secondo la sua promessa, s’occupasse della cosa «a rinfrescata» , cioè nell’ottobre 1733.

LXVI. — Cfr. pp. 84, 130. — Pel conferimento al V. della cattedra di rettorica cfr. p. 112. — L’«ordine reale» di Filippo V è quello relativo alla riforma dell’Universitá di Napoli del 1703 (cfr. sopra p. 113). — Ai tempi del V. si diceva che una cattedra era «opposta» allorché la si metteva a concorso. Ma contro la sua esplicita affermazione che, nel 1703, egli fosse dispensato dal ridare il concorso, starebbero: 1. una consulta del cappellano maggiore Vidania del 1723, in cui è detto che, per la rettorica, il V., oltre quello del 1697, aveva dato nel 1703 un secondo concorso, in occasione dei «concorsi generali * ; 2. il bando stesso di questi concorsi generali del i° gennaio 1703, nel quale è mentovata anche la cattedra di rettorica, con l’avvertenza che per essa il tempo utile per presentarsi sarebbe decorso dal 6 gennaio. Tuttavia il Vidania potrebbe aver ricordato male, e il V., malgrado l’inclusione della sua cattedra nel bando, avere ottenuto una dispensa all’ultimo momento. — Per l’accenno al Tanucci cfr. pp. 309-10.

LXVII. — La Scienza nuova di cui qui si discorre è la seconda (1730). — I fratelli Paolo Emilio e Giulio Cesare Marocco, forse scolari del V., erano probabilmente figliuoli di Carlo Marocco (16781724), anch’egli, come loro, di Caiazzo e cultore di studi storici e letterari (cfr. Lauro, Dizionario degli uomini notevoli di Terra di Lavoro , al nome). — Il «Silvio» è, naturalmente, il De dictis et factis Alphonsi ecc. di Enea Silvio Piccolomini. — L’«Usserio» è lo storico irlandese Giacomo Usher (1580-1656).

LXVIII. — Il marchese di Salcito era di casa Francone; ma il volume di sue poesie a cui qui s’allude, e del quale pare che il V. fosse al tempo stesso revisore letterario e censore civile, è [p. 292 modifica]

riuscito finora introvabile (e può anche darsi che finisse col non vedere la luce). — L’«augurio» che l’Alfani trovava intempestivo si riferiva, forse, a un auspicio di nozze per Carlo di Borbone. — Alla domanda di chiarimenti sul luogo della Scienza nuova, che è a p. 369 dell’edizione del 1730, il V. rispose in certo modo nella redazione definitiva (1744), ch’egli cominciò a preparare in quel tempo e in cui l’osservazione sull’antinomia tra poesia e metafisica ricomparisce ampliata (c ir. ediz. Nicolini 2 , capov. 821).

LXIX. — ■ Il libretto che Daniele Concilia prometteva d’inviare fu pubblicato, non nel 1736, come nella nota del V., ma nel 1734: F. Nicolai Concinae, Origines, fundamenta et capita prima delineata iuris naturalis et genti um (s. 1 . a., ma Venezia, 1734). Il V., che vi è ricordato piú volte con elogio, volle a sua volta rammentare, con elogi non minori, il Concilia nella redazione definitiva della Scienza nuova , che allora andava preparando (ediz. Nicolini 2 , capov. 974). Per l’altro opuscolo del Concina ricordato dal V. nella nota, cfr. lett. LXII 1 . — Dell’abate Aloisio (che probabilmente aveva una causa nel Sacro Reai Consiglio) non s’hanno notizie. — Sul Ventura, p. 281. — Il «cappellano maggiore», di cui nella nota, era Celestino Galiani.

LXX. — Giovanni Barba, giá avvocato a Napoli e professore nell’Universitá, s’era trasferito quale avvocato concistoriale a Roma, ove, divenuto sacerdote, fu nominato da Clemente XII suo cappellano segreto soprannumerario e segretario della rinnovata Congregazione della direzione degli studi (istituita giá da Sisto V), che, come appare dal carteggio di Celestino Galiani, non conchiuse nulla. Mori vescovo di Bitonto il 12 settembre 1749. La sua lettera al V. è andata dispersa: della sua opera Dell’arte e del metodo delle língue , disegnata dall’autore in tre libri, comparve soltanto il primo (Roma, Zempel, 1735), inviato, oltre che al V., anche a parecchi altri studiosi napoletani (Egizio, Capasso, ecc.), le cui lettere di ringraziamento, insieme con la presente, si serbano a Roma dal barone Gennaro Serena. Una lettera inedita del Barba al p. Guido Grandi, anch’essa relativa al Metodo delle lingue, è nella Biblioteca universitaria di Pisa. Un suo sonetto si trova nei Componimenti in morte del Brunasso (Napoli, 1740), ai quali collaborò altresi il V.

LXXI. — Dalla lettera stessa appare che nell’estate del 1736 il V. e Giuseppe Pasquale Cirillo avevano scritto al Concina raccomandando il Gaspari, aspirante a una cattedra di teologia nel [p. 293 modifica]

l’Universitá di Padova; che il Concina rispose all’uno e all’altro, ma che le sue lettere non furono mai recapitate ai destinatari; e che il V. tornò alla carica in un’altra lettera parimente dispersa, nella quale discorreva inoltre delle gioie che gli dava il figlio Gennaro (che allora appunto prese a sostituirlo di quando in quando nella cattedra), lodava le Origines del Concina (cfr. nota alla lett. LXIX) e annunziava di averlo citato onorevolmente nella redazione definitiva della Scienza nuova (cfr. nota cit.). — Il Gaspari, cioè il minore conventuale fra Orazio Gaspari, era, col nome di Astratto, collega del V. e del Cirillo nella risorta accademia degli Oziosi: nel 1735 aveva pubblicato (Napoli, Abri) alcuni sonetti In occasione della venuta in Italia e del littorioso ingresso nel Regno di Napoli di don Carlo re di Napoli e di Sicilia. — La «nuova dissertazione», che il Concina preannunzia, è la litri s naturalis et gentium doctrina metaphysicae asserto (Venezia, Pasquali, 1736), dove altresí (pp. 18-21) si fanno grandi elogi del V. e di Paolo Mattia Doria.

LXXI 1 . — Il «proggetto» del Concina sono sempre le Origines, di cui alla lettera LXIX. — Gli accenni a Polibio (non sesto, ma quarto libro) e a Livio (XXXI, 1, 15 e 38) si trovano altresi nella redazione definitiva della Scienza nuova (ediz. Nicolini 2 , capovv. 117 e 285).

LXXUL — Cfr. lett. LI e LV. — Del Mattioli non s’hanno notizie.

LXXIII. — Muzio di Ottavio di Gaeta (1686-1764) — da non confondere col suo omonimo zio Muzio di Antonio (1662-1728), anche lui arcivescovo di Bari e anche lui cosi vanitoso da farsi lodare, negli Elogi degli Spensierati di Rossano del Gimma, perfino pei suoi pregi fisici — fu via via vescovo di Sant’Agata dei Goti (1722), arcivescovo di Bari (1735), arcivescovo di Capua (1755). «Dottissimo» è chiamato da Vincenzo Ariani nella giá ricordata Vita di Agostino Ariani , del quale fu amico, e per cui mezzo, probabilmente, entrò in relazione col V. La sua tanto sudata Orazione in morte di Benedetto XIII vide la luce soltanto una ventina d’anni dopo la revisione del V’. (Napoli, De Simone, 1755), con dedica a Benedetto XIV, nella quale l’autore dice d’essersi indotto, dopo tanto tempo, a quella pubblicazione, «forse e senza forse per divino consiglio». — La risposta del V. alla presente lettera è andata dispersa.

LXXVI. — L’accenno al «libricciuolo intitolato Historia de [p. 294 modifica]

ideis» (Ginevra, 1723), che è del noto storico della filosofia Giangiacomo Brucker (1696-1770), e l’altro al Leibniz e al Newton, si trovano, quasi con le medesime parole, nella redazione definitiva della Scienza nuova (ediz. Nicolini *, capov. 347).

LXXX. — Si riferisce a un’ Orazione del Cirillo per le nozze di Carlo Borbone con Maria Amalia di Walburgo (Napoli, Mosca, 1738), a principio della quale è pubblicata.

LXXXI. — Isabella Pignone del Carretto, maritata col suo congiunto Orazio de Dura duca d’Erce, fu, col nome di Belisa Larissea, un’assai colta pastorella arcade, che il Doria incitò piú volte a riunire in volume i componimenti poetici forniti da lei alle varie raccolte del tempo, e il Cirillo e altri amici (tra cui forse il V.) a dirittura a scrivere una tragedia. I versi di cui si discorre nella presente lettera, che nell’autografo è senza firma, si riferiscono a due sonetti inseriti nei Componimenti de’ pastori arcadi della Colonia Sebezia in lode delle reali nozze di Carlo di Borbone , ecc. (Napoli, 1738): del qual volume il V., oltre che collaboratore, fu anche revisore letterario per conto dell’Arcadia (donde i suoi ritocchi nei sonetti di Belisa). — L’allusione al Cirillo ( «perché mi diceste che sareste andato a ringraziare i votanti») concerne certamente la cattedra di diritto municipale conseguita dal Cirillo per concorso precisamente nel 1738. — «Don Orazio» è Orazio Pacifico (tra gli arcadi Criteo Chiionio), che ha versi in quella e in altre raccolte poetiche, e in morte del quale, con titolo plagiato dalla miscellanea poetica messa insieme dal V. per la Cimmino, ne fu pubblicata una ( Ultimi onori dí letterali amici in morte di Orazio Pacifico , ecc., Napoli, 1743), nella quale non manca un sonetto del V., l’ultimo tra i suoi di data certa. — Il «padre Cutica» era un Vincenzo Cutica, terribile predicatore di castighi e penitenze, ricordato, tra altri, dal Tannoia nella Vita di sant’ Alfonso de’ Liguori (ediz. di Napoli, 1857, I, 23, 24, 91).

LXXXI I. — La lettera del V., a cui il Di Gaeta risponde, è andata dispersa. — La miscellanea pubblicata dall’Universitá di Napoli s’intitola: In regis Caroli Borbonj et Amaliac Saxonicae nuptjs regiae neapolítanae Academiae obsequentis ojficium (Napoli, Mosca, 1738). Il V. vi collaborò con YOratio proemiale, tre iscrizioni latine e un sonetto in risposta ad altro di Gioacchino Poeta.

LXXXIII. — Cfr. presente volume, pp. S5 sgg., 131.

LXXXIV. — Francesco Serao (1702-93) era medico e professore nell’Universitá di Napoli. — Vescovo di Pozzuoli, allora, era Nicola [p. 295 modifica]

de Rosa, cappellano maggiore interino per l’assenza del Galiani. — Gaetano Brancone era segretario di Stato per gli affari ecclesiastici, dalla qual segreteria dipendeva la pubblica istruzione. Ma che la nomina di Gennaro Vico si dovesse, piú che ad altro, ai buoni uffici del lontano monsignor Galiani, si scorge agevolmente dalle pp. 306-7 del presente volume.

LXXXV-VI. — Il libro del Serao s’intitola: Lesioni accademiche sulla tarantola o f alati gio di Puglia (Napoli, 1742): un tema che suscitava allora interesse fra molti letterati e corrispondenti del Galiani, per consiglio del quale il Serao attese al suo lavoro.

LXXXVII. — Il Cardinal Troiano d’Acquaviva d’ Aragona (n. ad Atri 20 febbraio 1689, m. a Roma 21 marzo 1747) era ambasciatore della Spagna e delle Due Sicilie presso la corte pontificia (in tale qualitá assunse, circa quel tempo, come scritturale Giacomo Casanova, che discorre a lungo di lui nei Métnoires). Il V., che lo aveva forse conosciuto nel 1736 in occasione d’una sua gita a Napoli e degli onori che gli resero il principe della Scalea, Paolo Mattia Doria e altri studiosi napoletani, gli aveva indubbiamente offerta, in una lettera dispersa, la dedica della terza Scienza nuova , e, avendola l’Acquaviva accettata, lo aveva, in una seconda lettera parimente dispersa, ringraziato, inviandogli nello stesso tempo gli augúri pel Natale del 1743. Da che la presente lettera, pochi giorni dopo d’aver ricevuta la quale (io gennaio 1744), il V. compose la dedica anzidetta, che è il suo ultimo scritto.

LXXXVIII. — Alfonso Crivelli, poi duca di Rocca Imperiale, nacque a Napoli intorno al 1674; s’iscrisse all’Universitá nel r687; si laureò in giurisprudenza il 19 luglio 1691; come appare dalla lettera del V. («Neapolitani Senafits lumen maximum»), nel 1702 era avvocato presso il Sacro Reai Consiglio, di cui nel 1708 fu nominato consigliere; ottenne in anno incerto la piú alta magistratura amministrativa del Regno (la luogotenenza della Camera della Sommaria), da cui si dimise nell’ottobre 1725 per ragioni di salute, divenendo, in cambio, reggente del Collaterale; mori a soli 53 anni

1125 novembre 1727. — Pietro Emilio Guaschi, nato a Napoli il

12settembre 1633, era stato «eletto del Popolo» dal 1674 al 1679, e, protetto dal viceré marchese di Los Velez, aveva, al dir delle cronache cittadine, rubato non poco all’amministrazione del grano. Per questo motivo la «Cittá di Napoli» non gli aveva voluto nel 1679dare il possesso della carica di giudice della Gran Corte della Vicaria, che fini per altro con l’occupare e che conservava ancora [p. 296 modifica]

nel 1702. — Ben noti sono il letterato e storico della letteratura Giacinto Gimma da Bari (1668-1735) e la sua accademia degli Spensierati di Rossano, alla quale venne aggregato anche il V.

LXXIX. — Sull’Egizio, p. 122.

XC. — Le notizie storiche chieste all’Alfano servavano indubbiamente al V. a rincalzo della sua tesi: che nei tempi barbari la medicina fu esercitata sempre da nobili ( Scienza nuova seconda , ediz. Nicolini*, capov. 437).

I dati di fatto raccolti nelle presenti Notizie sono desunti, oltre che dalle fonti citate a pp. 134-5, anche da un inedito schedario raccolto da Fausto Nicolini su Gli amici, conoscenti e corrispondenti di G. B. Fico. Cfr. inoltre, per le lettere XXIV e XXXVI, F. Nicolini, in Revue de littèrature comparèe , fascicolo dell’ottobre 1929, e, per la lettera LII, B. Donati, in Per il secondo centenario della «Scienza nuova» di G. B. Vico (Roma, Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1925), pp. 81-100. [p. 297 modifica] ir

Accenni al Vico in carteggi di contemporanei.

i. Nel carteggio di Antonio Magliabechi.

S’è giá visto dall’ Autobiografia (p. 114) che Antonio Rinaldi nel 1709 si recò a Firenze, ove strinse amicizia col Magliabechi. Col quale, poi, da Napoli, ebbe carteggio, in cui si discorre due volte del V. L’una, in una lettera dell’11 febbraio 1710, nella quale preannunzia genericamente il De antiquissima («tra alcuni giorni vedremo facilmente uscire alle stampe alcune opere del signor Vico in materie piú gravi»); l’altra, in altra del 26 maggio dello stesso anno, in cui invia saluti di parecchi letterati napoletani, tra i quali il V., «di cui — scrive — in brieve vedremo fuora un’assai dotta opera di Metafisica , alla quale seguirá anche la Fisica, e nell’ima e nell’altra sará suo principal disegno l’abbatter da’ fondamenti il sistema del Cartesio, che qui ha posto assai profonde radici» .

2. Nel carteggio di Giovan Mario Crescimbeni.

Tra la fine del 1709 e i principi del 1710 Ippolita Cantelmo Stuart, che s’è giá incontrata nell’ Autobiografia (p. 109), manifestò desiderio al suo «compare» V. di diventare pastorella arcade. E il V. a sua volta ne interessò il suo amico e collega in poesia Biagio Maioli d’Avitabile, uno dei soci fondatori e vicecustode della Colonia Sebezia, il quale, il 22 febbraio 1710, fece la relativa proposta al Crescimbeni, soggiungendo: «Ella (la Cantelmo ) quanto è bella altrettanto è generosa: perlocché inviatemi la patente della sua aggregazione, perché intorno ai diritti del segretario ( cioè del Crescimbeni stesso) compirá da sua pari». L’aggregazione ufficiale ebbe luogo il 27 marzo; ma giá una decina di giorni prima il Crescimbeni inviava alla Cantelmo, per mezzo dell’Avitabile, il diploma relativo. «Vi scriverá — cosi l’Avitabile al Crescimbeni il [p. 298 modifica]

22marzo; — e frattanto il signor Giovan Battista di Vico, compare di Sua Eccellenza,... fará che compisca... Perché fra me e detto signor di Vico passa intrinsichezza, gli comunicai il regalo fattovi dal signor principe di Squinzano, e gli soggiunsi di piú». Ma codesto regalo della Cantelmo non venne per allora. * Mi disse il signor Giovan Battista di Vico ier l’altro — scrive l’Avitabile il io maggio — che giá la signora duchessa di Bruzzano aveva dato a lavorare il regalo destinatovi»: il quale signor di Vico, per altro, pochi giorni dopo cadeva, al suo solito, ammalato; ragion per cui l’Avitabile non poteva recarsi dalla Cantelmo, «di cui non essendo servidore tanto dimestico, sono stato sempre solito andarvi col detto signor Vico» (lettera dell’ultimo maggio). Il Crescimbeni, naturalmente, insistè, e, per propiziarsi il Vico e la Cantelmo, li invitò a mandargli qualche sonetto, che col soffietto di rito egli avrebbe pubblicati nei Commentari. Al che l’Avitabile rispondeva (7 giugno):* Giovedí fummo col signor De Vico a riverire la signora duchessa, la quale si dimostrò soddisfattissima della vostra risposta, e colerica per non avervi ancora potuto mandare il regalo ( — Bagattella! — diss’ella) destinatovi, per non esser riuscito d’intiera sua soddisfazione. Soggiunse averlo dato a rifare; ma noi dissono a un suo familiare che, senza tante cerimonie, l’avesse disposta a mandarvi il giá fatto... Vi ringrazia dell’onore volete farle nell’altro volume de’ Commentari ; ma, ritrovandosi giá nel mese del parto, dopo sgravata si riserba mandarvi il sonetto per il suo saggio. Detto signor De Vico anche vi rende vivissime grazie dell’onore; e, perché non ha fatti troppi sonetti e, de’ fatti, non ne conservava copia, vi priega a servirvi per saggio d’un suo sonetto stampato nella Raccolta dell’Acampora», cioè quello che comincia «Donna bella e gentil, pregio ed onore», erroneamente creduto indirizzato alla principessa di Stigliano. In pari tempo l’Avitabile inviava «la richiesta di questa colonia per l’aggregazione del detto De Vico; e vi priego — soggiungeva — di adoperarvi acciocché gli sia conceduta la campagna, dacché tanto gentilmente siete disposto a favorirlo». Del V. si discorre altresí nella lettera del 21 giugno, «il quale — scrive l’Avitabile — sempre piú mi assicura... che l’averete senz’altro (il regalo della Cantelmo ), dispiacendo all’istesso non potere dimostrare indiscretezza con Sua Eccellenza con ricordarglielo tanto spesso, tanto piú per l’avanzata gravidanza che la tiene agitata: onde dice che lasciate fare a lui, che nella congiuntura fará ciò che deve. Detto signor Vico è uomo [p. 299 modifica]

d’onore: perlocché non dubito punto che non eseguirá quanto dice». Il 5 luglio, intanto, giungeva al Vico il diploma della sua aggregazione all’Arcadia (19 giugno), di che — scriveva in pari data l’Avitabile — «ve ne rende vivissime grazie, e questa o l’entrante vi scriverá ringraziandovene a dirittura, e forse egli vi invierá il suo saggio». Ringraziamenti e saggio che, come s’ è visto nel Carteggio, furono inviati il 5 o 12 luglio. Ma non per ciò il Crescimbeni, che non dimenticava il regalo promesso dalla Cantelmo, ormai puerpera, cessava dal premurare l’Avitabile, che gli rispondeva (16 agosto): «Sempre piu incalzo il signor Vico per il consaputo affare, ed egli sempre piú mi disse che la cosa è certa, perché Sua Eccellenza è generosissima, e che, quantunque siasi levata di letto, dee compire con molti che l’han servita per le spese fatte in questo parto. Ho fatto conoscere al signor Vico il suo dovere e l’interesse che voi avete patito per le due aggregazioni (< quella della Cautelino e quella del V.), ed egli m’ ha assicurato che, quando (il che non crede) mancherá la signora duchessa, pagherá lui le due piastre». Ma non ce ne fu bisogno, giacché nelle lettere dell’A citabile, dopo l’annunzio (6 e 13 settembre) dell’invio d’un madrigale latino del V. in morte di Gregorio Messere, chiesto dal Crescimbeni pei Giuochi olivi pici celebrati in Arcadia nell’olimpiade DCXXII (Roma, 1710), appare finalmente la notizia tanto sospirata (20 settembre): «La signora duchessa di Bruzzano è la piú compita dama dell’universo, e, se ha tardato, non ha mancato. Questa matina il signor De Vico, che cordialmente vi riverisce, nt’ha dato l’acchiuso plico e un bellissimo calamaro ed arenario consimile d’argento, che ieri ricevette da detta signora duchessa con ordine di spedirvi l’uno e gli altri». E il 27 settembre: «Il calamaro che vi regala la signora duchessa pesa ongie sette. È diviso in tre pezzi: l’arenario sotto, il calamaro in mezzo e ’l coperchio... sopra. Il detto De Vico, che vi riverisce, me lo consegnò riposto in una veste di pelle». E il 18 ottobre: «Ho goduto che abbiate ricuperato il calamaro..., riuscito di vostra soddisfazione. Ho pregato il signor De Vico... a ringraziar di nuovo a nome vostro la duchessa».—• Poche altre volte il nome del V. ricorre nel carteggio Avitabile-Crescimbeni. Nella medesima lettera del 18 ottobre l’Avitabile sollecita l’aggregazione all’Arcadia di due carissimi amici del V., cioè di Aniello Spaguolo e sopra tutto di Giuseppe Lucina, «non essendo convenevole — soggiunge — che l’abbia io, il detto De Vico ed altri giovani, e non un letterato di [p. 300 modifica]

questa taglia». Il 25 del medesimo mese il Crescimbeni inviava al V. un esemplare dei citati Giuochi olimpici , nei quali, a differenza che nel diploma, ov’era scritto per errore «Enisone Terio», il V. era chiamato col suo vero nome arcade di Láufilo Terio: da che una sua domanda di chiarimenti e la relativa rettifica (29 novembre) nei registri della Colonia Sebezia. E finalmente il 13 decembre il V. recava al Crescimbeni «un fastidio», ossia allegava a una lettera dell’Avitabile di pari data una sua, oggi dispersa, nella quale gli chiedeva non si sa qual favore.

3. Nel carteggio di Apostolo Zeno.

Come si sa, è andato in gran parte distrutto. E proprio nella parte distrutta era una lettera napoletana del primo semestre del 1710, che discorreva del V. «Abbiamo — si dice nel Giornale de’ letterati d’ Italia, tomo secondo, articolo XVII, Novelle letterarie d’ Italia dell’aprile , maggio e giugno 1710, rubrica Di Napoli, p. 495 sgg. — abbiamo per lettere che in breve il signor professore De Vico sia per dare alla luce una dotta opera, in cui, con l’occasione di far vedere dalle parole latine la filosofia piú ascosa de’ romani antichi, stimata da lui in buona parte pitagorica, dará il saggio di un novello sistema da lui pensato. Il titolo dovrá esserne De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus desumpta, ad esempio di Platone, il quale per la stessa via si diede nel Cratilo ad investigare la sapienza degli antichi greci. L’opera sará divisa in tre libri. Il primo abbraccerá la Metafisica, della quale la Logica sará come appendice; il secondo sará la Fisica ; il terzo la Morale. Nella Metafisica, la quale giá a perfezione è ridotta, si tratteranno ne’ loro principi molte cose accennate nella sua dissertazione De studiorum ratione, che veramente è come un prodromo di questi suoi aspettatissimi libri...». Autore di questa dispersa lettera — tanto piú importante in quanto, oltre che contenere notizie fornite dal V. medesimo, è la sola fonte da cui s’apprenda che al Liber metaphysicus egli voleva far seguire un’appendice sulla logica — fu molto probabilmente Matteo Egizio. E invero il V., rivolgendosi, nella Seconda risposta al «Giornale de’ letterati* a tutt’intero l’ufficio di redazione di quella rivista (e quindi, in sostanza, al direttore Zeno), scrive d’aver chiesto consiglio all’ Egizio sulla condotta polemica da seguire, «perché piú di tutti il conosceva ben affetto alla vostra assemblea» . [p. 301 modifica]

4. In lettere di Nicola Galizia.

Il Galizia, nato a Napoli il 20 novembre 1663, morto nel gennaio 1730, fu uno dei piú cari amici del V., che lo conobbe fin dalla gioventú forse in casa del matematico Antonio di Monforte o nell’altra di Agostino Ariani. Compromesso piuttosto gravemente nel processo dei cosi detti ateisti, fu poi per qualche tempo supplente dell’ Ariani nella cattedra di matematica nell’Universitá di Napoli, indi titolare di quella di diritto canonico. Nel 1711 e nel 1712 fu censore civile della Prima e della Seconda Risposta al * Giornale de’ letterati» del V., il quale, poco prima del 25 decembre 1715 gli die’ incarico d’inviare a Roma, non si sa a chi (a Francesco Bianchini?), un esemplare del De rebus gestis Antoni i Caraphaei. E un’altra lettera del 3 gennaio 1717 allo stesso ignoto destinatario, in cui il Galizia sollecita una risposta a quella precedente (e insieme, implicitamente, una parola di elogio pel V.), si serba in minuta tra le carte medesime del V., testé donate dalla famiglia De Rosa di Villarosa alla Biblioteca Nazionale di Napoli.

5. Nei carteggi diplomatici della corte sabauda.

Nel 1719-20 Vittorio Amedeo II tentò in tutti i modi di avere per la riformata Universitá di Torino letterati e professori napoletani, non riuscendo per altro ad accaparrarsi se non lo scarto, giacché i migliori rifiutarono tutti, spaventati dal freddo, dalla distanza e dallo scarso stipendio. In una delle tante lettere al riguardo dell’ambasciatore sardo a Napoli, conte Solaro de Breille (24 novembre 1719), si discorre anche del V.: «lei il n’y a que trois professeurs d’éloquence connus, qui sont Vico, Capasso e Gittio (Egizio). Le premier est un vrai pédant. Il est marié et a une grosse famille. Se chaire lui rend deux cents écus ou ducats, et il en gagne soixante-dix par les le^ons qu’ il donne» .

6. A proposito de] Diritto universale e della Scienza nuova in forma negativa.

Il 7 luglio 1720, Anton Francesco Marmi scriveva da Firenze al senese Uberto Benvoglienti d’avere avuto notizia da Napoli che il V. aveva quasi finito di stampare il De uno e che ne aveva fatto «un [p. 302 modifica]

ristretto stampato (la «Sittopsi»), che spargerá per l’Italia e fuoriL’opera sento che mostri l’ingegno e l’erudizione dell’autore, ma insieme la sua stravaganza». E, comparsa la Sittopsi, soggiungeva (20 luglio) d’aver sentito ch’era «un lavoro imbrogliato e fantastico bene, come è il cervello * dell’autore, il quale aveva pensato «di cominciare dove gli altri vanno a finire» . Che sono le stesse critiche di molti napoletani ricordate dal V. nell’ Autobiografia (p. sgg). Al che il Bewvogllenti, anch’egli senia a\eT letto una sola riga vichiana, rispondeva rincarando la dose (Siena, 22 luglio): € Gl’ ingegni napolitani sono troppo sottili e daranno sempre in scoglio, ogni volta che le cose di pratica le vorranno riguardare col solo lume dell’ intelletto - , e perciò -non mi meraviglio punto se il Vico non riesca nel suo disegno». — Molto meglio informato, Pietro Metastasio, discorrendo del De con stanti a iurisprudentis in una lettera a Francesco de Aguirre (Napoli, 16 decembre 1721), diceva: «Opera á’nna pura lingua latina, di somma erudizione e cVun acume metafisico», quantunque, «comunemente», il libro, che si proponeva «di ridurre tutte le scienze e le nozioni dottrinali, non meno che i commerci e le leggi, ad un solo principio», fosse «ripreso per oscuretto». --Due anni dopo (30 ottobre 1723), il Marmi annunziava al Muratori che il V. lavorava «sopra un’opera che vuole intitolare Dubbi e desidèri intorno ai principi della teologia dei gentili»: titolo primitivo della dispersa Scienza nuova informa negativa, che sí rivela per tal modo precipuamente una polemica contro il celeberrimo De t /teologia gentili et p/tysiologia christiana del Voss.

7. Una visita del Bandiera al Vico.

Nel 1726, il letterato e oratoriano senese Giovan Nicola Bandiera (1695-1761) fu a Napoli, ove, attratto dalla fama del V. e con l’illusione, forse, di sentire dalla bocca di lui un caldo elogio del Bayle e della cultura francese, di cui esso Bandiera era entusiasta, si recò a fargli visita. E di questa, e della delusione provata nel sentir parlare il V., rese conto in una lettera (20 giugno 1726) al suo concittadino Uberto Benvoglienti, concepita cosi: «Ier mattina, con l’occasione di vedere la processione del Corpus Domini, stiedi quasi per tre ore da Giovan Battista de Vico. Mi pare che il forte di costui sia l’essere un buon umanista ed un buon filosofo. Parla con tanta affettazzione nella nostra favella che [p. 303 modifica]

degenera in un vero seccatore. Lo stimo incapace di giudicare con equitá delle opere, accagione delle tante prevenzioni che ha contro gli oltramontani, e particolarmente contro i francesi. E non capisco come si vanti di non aver mai voluto apprendere la lingua francese (di che adduce per esempio il famoso Saverio Pansuti, autore delle note tragedie), e poi voglia giudicare si francamente delle opere che ci manda questa nazione. Egli dice, e in qualche parte non si appone male, che questa lingua non è atta a trattare sublimemente un’arte (suppongo che l’avrá letto in qualche autore latino o italiano), che non somministra pensieri troppo elevati, ed altre cose simili. Ma, sia comunque si voglia, il non voler sapere mi pare piú effetto di pazzia che altro. Abbia pure questa lingua tutti i difetti immaginabili, il saperne è sempre virtú, che che sia se il servirsene possa essere altrimenti. Nel mio concetto, il fare le minchionerie è un gran male; ma il sapere come si fanno e il poterle fare, parlando di noialtri uomini, mi pare una cosa che ci adorni anziché ci faccia peggiori. Su questo è molto ridicola una distinzione cheffece de’ letterati francesi, cioè di francesi greci, francesi latini e francesi francesi. Perchè de’ primi intende ragionevolmente, e de’ secondi si può dire che abbia tutta la cognizione, ne mostra qualche stima, benché dice che sono scarsi nel numero: de’ terzi ne parla con un senso il piú curioso del mondo. Di questo poi bisogna compatirlo e porlo nel numero di quei de’ quali si parla in san Giuda: che * quaecumque ignorarti, òlaspfiemant ’ . Da due cosette che mi mostrò, di una delle quali mi fece regalo, ò osservato che non è uomo di gran criterio. La prima fu una risposta ad una lettera del dotto gesuita di Vitri, che lo richiedeva di memorie letterarie di questo Regno e di quel di Sicilia per la Societá di Trévoux; e l’altra fu un’orazione stampata, fatta pel funerale della contessa d’Althann. Nella prima, illustrissimo signore, avreste ravvisato tutti i caratteri propri d’un eloquente discorso: periodi ben rotondi, un parlar sublime, parole e frasi ricercatissime, e, in una parola, uno scritto ordinato per trattare un soggetto d’eminente portata e non per una lettera responsiva. Nella seconda, che vi è per assunto: «Anna Maria d’Aspermont Althann, feconda, saggia e felice madre di chiarissimi eroi» , coll’occasione che la educazione di questa signora die’ de’ personaggi all’ imperio germanico, porta due terzi del suo discorso, a motivo della gran lega contro Filippo V, a trattare di questa gran guerra, paragonandola or con quella di Alessandro e [p. 304 modifica]

Dario, or con quella di Cesare e Pompeo, or con altre, concludendo che niuna di queste, se non la seconda guerra cartaginese, può starvi a confronto; e qui fa un lungo lunghissimo parallelo tra queste due guerre. Che án che fare queste due cose con la contessa d’Althann? Il bello che vi á in questo discorso è che nella prima sola facciata vi sono due periodi, nel primo de’ quali tra ’l nome agente ed il verbo ci corrono undici versi e nel secondo quattordici. Vorrei dire di belle cose su questa orazzione, ma la carta ingomincia a mancare».

8. Nelle lettere di Pietro Giannone al fratello Carlo.

Vi si parla del V. due volte: l’una (Vienna, 13 giugno 1729) a proposito della noterella, allora ancora ignota al V., comparsa negli Acta di Lipsia; l’altra (30 luglio 1729) a proposito áe\Y Autobiografia. Nella prima si dice: «Il signor Acampora con ragione si stomaca in vedere che i compilatori degli Atti di Lipsia tanto si travagliano per intendere le fantastiche ed impercettibili idee del Vico, quando, per non torcersi il cervello, non dovrebbero nemmeno fiutare i suoi librettini. Ma bisogna compatirli, perché alle volte manca la materia per fare un giusto volume di quélranno, e vi affastellano quanto li viene alla mano». Nel che è la prova piú convincente che il G. non sapesse nulla della burla giocata al V. dall ’ignotus erro. Nell’altra lettera il G. osserva che il V. «veramente meriterebbe che il signor Capasso li facesse qualche carezza, perché, essendo ritornato qui il signor Apostolo Zeno, fra gli altri libri che ha seco portati, ha portata una Raccolta di varie operette (quella del Calogero), fra le quali vi è la Vita del Vico scritta da lui medesimo, ch’è la cosa piú sciapita e trasonica insieme che si potesse mai leggere: talché costui, non meno che il Riccardi ed il Gravina, è veramente il richiamo della sua penna, obbligandolo per forza a scrivere».

9. Nelle lettere e «consulte» di monsignor Celestino Galiani.

a) Per la nomina del Vico a istoriografo regio.

Dopo che il V., certamente incoraggiato e consigliato da monsignor Celestino Galiani, ebbe presentata la supplica inserita a p. 240 sgg. del presente volume, il marchese di Montealegre, con bi [p. 305 modifica]

glietto del 30 giugno 1734, chiese parere, in nome del re, allo stesso Galiani. La risposta (Napoli, 5 luglio 1734) fu: «È piú che vero quanto il suddetto Vico espone delle sue opere dotte date alla luce. Egli è certamente uno de’ primi letterati d’ Italia e singolarissimo ornamento di questa regia universitá, a cui colle sue dotte fatiche è stato di grand’onore. È pur vero ch’egli sia stato il decoro di tutt’ i lettori della medesima universitá ed insieme poverissimo», dato l’esiguissimo stipendio e la grossa famiglia: ragion per cui il «recargli qualche sollievo in questi ultimi periodi della sua vita sarebbe cosa degnissima della somma regai clemenza della Maestá Sua». Senza dubbio — continuava il Galiani — «qui finora non vi è stato l’impiego d’ istoriografo. Ma ora che ’l Signore Iddio ha fatto a questo Regno il tanto desiderato beneficio di concedergli un proprio re che qui risegga, nella maniera che praticasi negli altri Stati ben regolati, un tal impiego vi vorrebbe; e il detto Vico certamente sarebbe abilissimo ad esercitarlo con tutto il maggior decoro ed applauso che potesse desiderarsi» . Perché, anzi, lo stipendio annesso alla carica non fosse, quale fu poi, esiguissimo, il Galiani suggerí inoltre che, qualora il re avesse voluto «onorare e consolare un vecchio di tanto merito» conferendogli il chiesto impiego, gli si sarebbe potuto «assegnar una pensione ecclesiastica di quella quantitá che alla Maestá Sua piú piacesse sopra qualche vescovato di regia prelazione, allora quando ve ne sará l’apertura». Senonché non solo quest’ultimo suggerimento non fu ascoltato, ma la «pratica» languí per un intero anno. Giacché soltanto il 2 luglio 1735 il Montealegre, senza parlare punto di stipendio, scriveva da Palermo al Galiani che, affinché esso Galiani e l’universitá di Napoli riconoscessero «quan grande es la re al eie mencia de Su Magestad en premiar las virtudes», il re era restato «servido nombrar por su istoriador d don Juan Baptist a Vico, no solo para dispensarle este honor en atencion d los que concurren en su persona, sino tambien para alimarle de las extrecheces en que se balla» . Pertanto il Galiani avrebbe dovuto comunicare ciò a tutti i professori, «d fin que cadauno con estos exemplares se anime d promover las ciencias, para esperar las reni uneraciones correspondientes» e, in pari tempo, suggerire a esso Montealegre «que despachos y ordenes se deberan espedir d favor del espresado don Juan Baptista Vico conio tal istoriador de Su Magestad, para que, formandose desde luego, pueda il mismo empezar d exercer este encargo, esperandose dal gran $elo, inteligencia y

G. B. Vico, Opere - v.

20 [p. 306 modifica]

saviduria de V. S. illustrissima se irá instruiendo, ensehando y dirixiendole en la forma que le pareciera mas propria para su cubai desempeno». Ma il Galiani, senza nemmeno accennare a quest’ultimo punto, poco riguardoso pel V., rispose (17 luglio 1731) che la notizia, comunicata «si al detto Vico come a tutti gli altri professori», aveva riempito «gli animi di tutti di una non ordinaria tenera amorevolissima venerazione inverso del nostro regai sovrano, facendosi da ciaschedun di essi a gara applauso al suo reai nome e benedicendosi il Signor Iddio che, qual nuovo benefico sole», s’era «degnato mandarlo in queste nostre terre per riempirci tutti di ogni piú vera e soda felicitá» ; — che siffatto esempio «della reai clemenza inverso de’ letterati» avrebbe «di breve fatto fiorire le scienze in questa regia universitá quanto in ogni altra piú illustre di Europa, attesoché, per la sperienza di tutti i secoli e di tutti i luoghi, si sappia non esservi piú potente stimolo per indurre gli uomini a coltivar con fervore le buone arti quanto il vederle favorite e protette dal proprio sovrano»; — che la guisa piú onorevole per far conoscere ufficialmente al Vico la grazia largitagli dal re sarebbe stata quella di comunicargliela «con dispaccio allo stesso Vico diretto», nel quale gli si dicesse che, «in riguardo della sua dottrina e delle fatiche da lui sofferte in istruire la gioventú per lunga serie di anni», il re lo aveva trascelto come suo storiografo, «con certa fiducia che dalla conosciuta sua abilitá* il nuovo impiego sarebbe stato esercitato «con lode corrispondente all’altre erudite opere da lui giá date alla luce» (delle quali il Galiani accludeva il catalogo pubblicato a p. 92); — e che (in cauda venenum ) nel medesimo dispaccio sarebbe stato bene «dirglisi che soldo la reai clemenza di Sua Maestá pensava assegnargli per un tal impiego». In conformitá ai quali suggerimenti, il Montealegre indirizzò al Vico il dispaccio del 21 luglio 1735 pubblicato a p. 84 del presente volume.

b) A proposito del conferimento della cattedra di rettorica a Gennaro Vico.

Anche questa volta sulla supplica relativa del V. (in questo voi., p. 273) fu domandato il parere di monsignor Celestino Galiani, ch’era allora a Roma e che da Roma rispose tra l’altro (6 gennaio 1741): «Non vi è dubbio, Sacra Maestá, che il supplicante... è benemerito della regia universitá degli studi, alla quale egli colle sue dotte fatiche ha fatto molto onore, e perciò richiede [p. 307 modifica]

la pubblica gratitudine che gli si abbia qualche riguardo. Il suddetto suo figliuolo Gennaro è giovane d’abilitá e nell’esercizio della detta cattedra incontra certamente tutto l’applauso. Solo mi dá fastidio ch’egli nell’istesso tempo pensi applicarsi al fòro, perché il dover frequentare la Vicaria, che richiede certamente tutto l’uomo, e fare ’l professore in una cattedra d’eloquenza, che richiede profondo studio degli autori greci e latini de’ migliori tempi, sono due mestieri che insieme non possono star bene, e per necessitá conviene trapazzare o l’uno o l’altro o pure amendue. Quindi sarei di parere... che potesse il supplicante rendersi consolato, ogni qual volta però si fusse certo che il suo figliuolo, lasciate da parte le occupazioni forensi, fusse per voltar tutto l’animo suo agli studi di eloquenza e a quei che sono necessari per riuscir eccellente in tal non facile e stimatissima professione». Conseguenza del qual parere furono il decreto regio del 12 gennaio 1741, col quale a Gennaro venne conferita la cattedra, e due dispacci, di pari data, di Gaetano Maria Brancone, segretario dell’Ecclesiastico, coi quali si davano al segretario dell’Azienda Giovanni Brancaccio e a Nicola De Rosa, vescovo di Pozzuoli e cappellano maggiore interino, le disposizioni del caso.

c) Varia.

1. L’anno stesso che fu nominato cappellano maggiore del Regno (1732), il Galiani dispose non solo che si riprendesse l’antico costume di inaugurare l’anno accademico con una solenne prolusione dell’insegnante di rettorica, ma anche che i singoli corsi fossero iniziati con un’ «orazione di apertura». In conformitá a queste disposizioni, il V. inaugurò l’anno accademico (18 ottobre 1732) col De niente heroica , e Francesco Serao e Giuseppe Pasquale Cirillo, tra altri, dettero inizio ai loro corsi con altre orazioni, poste anch’esse a stampa. Tutte tre, a principio dell’anno successivo, furono dal Galiani inviate a Roma a parecchi suoi antichi amici, tra cui monsignor Antonio Leprotti da Rimini (?1746), giá medico del Cardinal Davia e ora di Clemente XII. Del qual dono il Leprotti ringraziò nei termini che seguono (Roma, 14febbraio 1733): «Vi ringrazio della bella orazione del signor Seraus (Serao). Sono pure assai buone le altre due del Cirillo e del Vico. Si comincia a conoscere il buon seme, che viene spargendo il nuovo direttore» . [p. 308 modifica]

2. S’è giá accennato genericamente (p. 118) a ciò che scriveva Bartolomeo Intieri al Galiani (Napoli, 14 aprile 1739) a proposito del concorso universitario del 1723. Ma giova riferire qui il passo per intero. «Ier l’altro il lettore Domenico Gentile si buttò da una finestra cosi alta che restò ammazzato dalla caduta, e ieri li fu data sepoltura. Egli è morto come ha vissuto, cioè da pazzo. Mi ricordo della bella profezia che fece un personaggio di gran talento sopra la riuscita di questo pazzo furioso, quando li fu conferita la catedra per la violenza usata fune temporis dal Cardinal d’Althann, che non era meno pazzo. Disse allora il mentovato personaggio che il Gentile era piú tosto ardito, sfacciato e pazzo che dotto». Che quel «personaggio di gran talento» fosse il V.? Certo, quantunque non ne restino tracce scritte, egli era amico dell’ Intieri, dal quale, agente nel Regno dei ricchissimi Corsini, gli venne probabilmente l’infelice consiglio di chiedere per la Scienza nuova la protezione del futuro Clemente XII.

3. Subito dopo la morte del padre, Gennaro Vico, in concorrenza col ricordato Francesco Serao e col professore di storia ecclesiastica Giovanni Ruggiero, aspirò alla carica d’istoriografo regio. Ma il Galiani, interrogato in proposito dal re Carlo di Borbone, rispose (Napoli, 24 febbraio 1744) di non ritenere Gennaro ancora maturo da potersi applicare a comporre storie, anche perché «il povero giovane non aveva salute per resistere ad una seria e lunga applicazione, oltre a quella della cattedra d’eloquenza»; e colse quell’occasione per informare che, alla morte del V., s’erano trovati fra le sue carte soltanto «pochissimi fogli», che oggi non ci sono piú, «d’introduzione alla storia, che il dotto vecchio aveva intrapreso di scrivere, della conquista di questo Regno fatta dalla Maestá Vostra: fatica, che non potè poi da lui tirarsi innanzi per mancanza delle necessarie notizie». Donde l’ovvia conseguenza che proprio di codesta introduzione facesse parte la pagina riprodotta in facsimile dal Ferrari nel primo volume della sua prima edizione delle Opere del V.: quella pagina, cioè, in cui sono raccolti appunti su Carlo Magno e Ugo Capeto, «Valesiorum Borboniumque caput».

4. Ai Vico beneficati da monsignor Galiani è da aggiungere l’ultimogenito del filosofo, Filippo. Il quale nel 1736, a sedici anni, entrava, quale chierico, nella cappella reale, a capo di cui era il Galiani, che, premurato evidentemente dal vecchio Giambattista, voleva fare del ragazzo un cappellano regio. Ma, per ottenere lo [p. 309 modifica]

scopo, occorreva che Filippo prendesse gli ordini maggiori e quindi possedesse un patrimonio sacro: cosa impossibile, perché, come scriveva il Galiani in una consulta del 24 febbraio 1745, «il padre, benché uomo di molti meriti, ha lasciata la famiglia molto povera». Tentò bensí monsignor Celestino di far concedere, in cambio, al giovane un beneficio ecclesiastico di regia collazione; ma, poiché tutte le sue premure furono vane, Filippo, lasciata intorno al 1746 la cappella regia, fini, come s’è visto (p. 129), col prendere moglie.

io. Giudizi di Bernardo Tanucci sul Vico.

Veramente, del V., il Tanucci (1698-1783) discorse, prima che in lettere ufficiali o confidenziali, anche e sopra tutto in libri a stampa, e cioè in quelli contro il padre Guido Grandi, suo collega nell’universitá di Pisa, durante la famosa polemica a proposito delle Pandette. Giá nell’ si d nobiles socios Cortonenses, qui accademici Etrusci dicuntur, epistola, in qua nonnulla refutantur ex epistola Guidonis Grandi , ecc. (Lucca, 1728), viene ricordato che il «doctissimus iurisconsultorum, qui a foro abstinent», cioè il V., aveva negato, nel Diritto universale , la venuta di Ermodoro in Italia e la derivazione delle XII Tavole dalla legislazione solonica. Nella Difesa seconda dell’uso antico delle Pandette e del ritrovamento del famoso manoscritto di esse in Amalfi (Firenze, 1729), confutando il Grandi, che nelle Vindiciae prò sua epistola de Pandectis (Pisa, 1728), aveva messo in rilievo che nel De studiorum ratione e nel De antiquissima era stato affermato dal V. precisamente il contrario di ciò che diceva il Tanucci, quest’ultimo osservava che il V. si sarebbe assai maravigliato che il Grandi ignorasse ancora come, nella Scienza nuova prima, della quale l’autore «fece regalo alla nostra Universitá, scrivendo una lettera piena di stima al signor Giuseppe Averani» (quella, dispersa, ricordata a p. 55 del presente volume), si sostenesse invece con * fortissime ragioni, tratte da un giudizio finissimo e risultanti molto bene da’ piú stimati principi di critica, di storia, di metafisica, di politica e di morale» , il carattere favoloso della derivazione delle XII Tavole da fonti greche. Le quali opinioni del V., ancora piú a lungo esaminate e discusse dal Tanucci nella Epistola de Pandectis pisanis, ecc. (Firenze, 1731), furono, naturalmente, dal Grandi, alla cui tesi polemica nuocevano parecchio, definite «visioni amenissime, se altre mai» , e poco [p. 310 modifica]

mancò che contro di esse il bollente frate camaldolese non pubblicasse un apposito libro, che fu scritto invece a Napoli da Damiano Romano, che lo dedicò, in tutte due le sue redazioni (1736 e 1744), al Tanucci, ignorando, come confessa egli medesimo nella seconda, che il Tanucci fosse precisamente dell’opinione del V. — Molta stima ebbe poi il Tanucci del V. dopo che, venuto a Napoli nel 1734quale ministro di giustizia, lo conobbe di persona. Per es., allorché, in occasione della riforma dell’Universitá si propose, come avvenne, di elevare lo stipendio del V. da cento a dugento ducati, proprio il Tanucci scrisse al Montealegre (17 ottobre 1735): «Estimarla assimismo que por el merito, por la necesidad y honrra de istorico regio que tiene Juan Baptista de Vico, destinado por profesor de la eloquencia latina, fueseit pocos los doscientos ducatos, y que d lo menos se le delie sen asignar otros dento». — E finalmente, rispondendo, molti anni piú tardi, all’abate Galiani (17 gennaio 1767) che da Parigi gli aveva discorso dei plagi del Boulanger a danno del V., diceva: «Ho osservato Boulanger un sol di marzo: muove, ma non risolve, non adempie. Credo che sia vivace, ma non dotto: vede e travede, e crea. 11 benedetto Vico era qualche cosa di questo anch’esso: aveva bisogno di qualche Vossio, Lipsio, Turnebo, Vettori, Manuzio, Averani, Petavio per assessore, onde empiere colli fatti delle nazioni e degli uomini e colli pensieri dei sapienti quelle lacune di prove che rimangono sotto gli archi dei suoi salti. Al piú può Vico, senza questo ripieno, essere un’edera di Bacone o un passeggierò notturno che vada dietro quella lanterna».