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4. In lettere di Nicola Galizia.

Il Galizia, nato a Napoli il 20 novembre 1663, morto nel gennaio 1730, fu uno dei piú cari amici del V., che lo conobbe fin dalla gioventú forse in casa del matematico Antonio di Monforte o nell’altra di Agostino Ariani. Compromesso piuttosto gravemente nel processo dei cosi detti ateisti, fu poi per qualche tempo supplente dell’ Ariani nella cattedra di matematica nell’Universitá di Napoli, indi titolare di quella di diritto canonico. Nel 1711 e nel 1712 fu censore civile della Prima e della Seconda Risposta al * Giornale de’ letterati» del V., il quale, poco prima del 25 decembre 1715 gli die’ incarico d’inviare a Roma, non si sa a chi (a Francesco Bianchini?), un esemplare del De rebus gestis Antoni i Caraphaei. E un’altra lettera del 3 gennaio 1717 allo stesso ignoto destinatario, in cui il Galizia sollecita una risposta a quella precedente (e insieme, implicitamente, una parola di elogio pel V.), si serba in minuta tra le carte medesime del V., testé donate dalla famiglia De Rosa di Villarosa alla Biblioteca Nazionale di Napoli.

5. Nei carteggi diplomatici della corte sabauda.

Nel 1719-20 Vittorio Amedeo II tentò in tutti i modi di avere per la riformata Universitá di Torino letterati e professori napoletani, non riuscendo per altro ad accaparrarsi se non lo scarto, giacché i migliori rifiutarono tutti, spaventati dal freddo, dalla distanza e dallo scarso stipendio. In una delle tante lettere al riguardo dell’ambasciatore sardo a Napoli, conte Solaro de Breille (24 novembre 1719), si discorre anche del V.: «lei il n’y a que trois professeurs d’éloquence connus, qui sont Vico, Capasso e Gittio (Egizio). Le premier est un vrai pédant. Il est marié et a une grosse famille. Se chaire lui rend deux cents écus ou ducats, et il en gagne soixante-dix par les le^ons qu’ il donne» .

6. A proposito de] Diritto universale e della Scienza nuova in forma negativa.

Il 7 luglio 1720, Anton Francesco Marmi scriveva da Firenze al senese Uberto Benvoglienti d’avere avuto notizia da Napoli che il V. aveva quasi finito di stampare il De uno e che ne aveva fatto «un