Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA.

Deliziosa.

Tutti a sedere, cioè il Conte in mezzo, Madama Lindora alla dritta,
Giacinto presso Rosanna, Foresto vicino a Lauretta, e Fabrizio
ad un lato, arrabbiato per non essere vicino ad alcuna Donna.

Conte. Da’ lacci neghittosi del silenzio

Scatenando la lingua.
Qual monarca di Dive e Semidei,
Do glorioso principio a’ cenni miei.
Fabrizio. Signor principe caro,
Il povero Fabrizio
Gli manda un memorial, con cui lo prega
Comandar a’ pastor, che per servizio
Lascino qualche ninfa anco a Fabrizio.
Conte. Giuste le preci son, ma non è giusto
Delle ninfe arbitrar. Quella sia vostra,
Che inclinata e proclive a voi si mostra.
Fabrizio. Tutte vorranno me.
Rosanna.   Sarei contenta,
Se del signor Fabrizio
Foss’io la ninfa eletta;
Ma non vuò disgustar la mia Lauretta.
Laura. Eh no, no; giacché vedo,
Che a voi piace quel viso, io ve lo cedo.
Fabrizio. E fra due litiganti il terzo goda.
Io sarò di Madama,
Se mi vuol, se mi brama.
Lindora. Vi domando perdono,
Non mi vuò scomodar di dove sono.

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Fabrizio. Dunque dovrò star senza?

Giacinto. Voi dovete soffrire.
Foresto.   E aver pazienza.
Fabrizio. (Maledetti! Mi mangiano le coste,
E penar mi conviene.
Or sì che i miei denar li spendo bene!)
Conte. Dall’Arcadico trono,
A cui per vostro dono io son alzato,
Due comandi vi do tutti in un fiato.
Primo: ciascuna ninfa
Scelga il pastor, di tutti alla presenza,
Ma non vuò che Fabrizio resti senza.
Secondo: quel pastor che sarà eletto,
Con qualche regaletto
Riconosca la ninfa,
E lei, com’è il dovere,
Del regalo disponga a suo piacere.
Fabrizio. Bravo! bravo! vi lodo.
Rosanna. D’un tal comando io godo;
Potrò senza riguardi
Il mio genio svelar.
Giacinto.   (Già mia voi siete). (piano a Rosanna
Rosanna. Deh lasciate che io finga, e non temete.
(piano a Giacinto
Fabrizio. Lasciatela parlar. (a Giacinto
Rosanna.   Se mi concede
Il sospirato onore,
Sarà il signor Fabrizio il mio pastore.
Fabrizio. Evviva, evviva. Ah! che ne dite? Oh cara!
Che gioia! che diletto!
Per la mia pastorella io già vi accetto.
Laura. Piano, piano di grazia, padron mio,
Che ci pretendo anch’io.
Or che non v’è riparo,
La maschera mi levo, e parlo chiaro.

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V’ho scelto nel mio core

Di già per mio pastore,
E se non mi volete,
Impazzir e crepar voi mi vedrete.
Foresto. (So che finge). Ma come! Se Rosanna...
Rosanna. Io Fabrizio pretendo.
Laura. Di cedere Fabrizio io non intendo.
Fabrizio. Signor principe, questo è un brutto imbroglio.
Conte. Dall’Arcadico soglio
Così decido e voglio:
Per consolar delle due ninfe il core,
Abbian due pastorelle un sol pastore.
Fabrizio. Evviva 1 evviva! bravo per mia fè!
Son capace, lo giuro, anco per tre.
Lindora. Dunque, signor Fabrizio,
S’ella dice da vero, e non ischerza,
Io fra le ninfe sue sarò la terza.
Fabrizio. Venga la quarta ancor, mi fa servizio;
Non mi perdo in la folla: io son Fabrizio.
Levatevi di qua; (a Foresto e Giacinto
Loco per voi non c’è.
Una volta per uno: tocca a me.
Conte. Olà, suddito nostro,
Fermatevi per ora.
Non è finito ancora:
Se voi pastor delle tre ninfe siete,
Regalar le tre ninfe ora dovete.
Fabrizio. (Ohimè! son imbrogliato.
Questo favor mi vuol costar salato).
Giacinto. Su via, fatevi onore.
Foresto. Via, portatevi ben, signor pastore.
Fabrizio. A voi, Rosanna bella,
Mia cara pastorella.
Perchè mi brilla in sen il cor contento,
Questo picciol brillante io vi presento.

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Rosanna. È molto spiritoso, è molto bello;

Brilla come che a voi brilla il cervello.
Fabrizio. Grazie a lei; a Lauretta,
Graziosa vezzosetta,
Per cui ognora tormentato sono,
Quest’orologio d’or presento in dono.
Laura. Il vostro dono accetto,
E contemplar prometto
In lui la vostra amabile figura,
Perchè voi siete tondo di natura.
Fabrizio. Obbligato. A madama,
Perchè si guardi dalla stranutiglia,
Le do una tabacchiera di Siviglia.
Lindora. Ed io che v’amo tanto, bramerei
Che in questa tabacchiera,
Per poterne goder a tutte l’ore,
Fosse polverizzato il vostro core.
Fabrizio. Che bontà! che finezze!
Conte.   Or di quei doni
Ne disponga ciascuna a suo talento,
E faccia al donator un complimento.
Rosanna. Io pongo quest’anello
Nelle man di Giacinto,
E dico al donatore
Ch’io lo delusi, e questo è il mio pastore.
Fabrizio. Come?
Laura.   Quest’orologio
A Foresto consegno,
E al donator io dico,
Che già di lui non me n’importa un fico.
Fabrizio. Che! che!
Lindora.   La tabacchiera
Al principe presento, e mio pastore,
Perchè quel tabaccaccio mi fa male,
E chi me l’ha donato è un animale.

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Conte.
Giacinto.
Foresto.
a tre Viva il signor Fabrizio.
Ci rallegriam con lei. (tutti s’alzano
Fabrizio. Che siate maledetti tutti sei.

  Corpo del diavolo! parmi un po’ troppo.
  Che! sono un cavolo?
  Son gentiluomo del mio paese,
  Io fo le spese, io son padrone.
  Che impertinenza? che prepotenza?
  Come? che dite?
  Eh padron mio, basta così.
  La vuò finire,
  Me ne voglio ire.
  Signore ninfe,
  Gnori pastori,
  Buon viaggio a loro.
  Che? non gli piace?
  Se n’anderanno,
  Signori sì. (parte

SCENA II.

Tutti, fuorché Fabrizio.

Lindora. Oh quanto mi fa ridere: ah, ah. (ride

Ohimè! non posso più: ah, ah, ah, ah.
Messer Fabrizio: ah, ah, ah.
È in collera: ah, ah.
Ahi che mi manca il fiato,
Non posso repirar. (si getta a sedere
Laura. . Che cosa è stato?
Lindora.   Il rider mi scompone e mi rovina.
Laura. Povera Madamina,
Siete tenera assai, vi compatisco.
(Con questa smorfia anch’io mi divertisco).

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Foresto. Signori, con licenza;

Vuò seguitar Fabrizio. Egli è arrabbiato.
Vuò veder di placarlo. A dirla schietta.
Tutto il torto non ha. Ma questo è il frutto
Di chi vuol far di più del proprio stato:
Spende, soffre, non gode, ed è burlato. (parte
Laura. Io rido quando vedo
Certi pazzi che fan gl’innamorati,
E credon col contante
Render la donna amante.
Quando il genio non v’è, non fanno niente;
Si lascian nell’inganno,
E se si voglion rovinar, suo danno.
Lindora. In quanto a questo poi,
Non l’intendo, Lauretta, come voi.
Non dono e non accetto,
E per non ingannar nulla prometto.
Laura. Parliam d’altro di grazia.
Conte.   Deh, Madama,
Andiam per questi deliziosi colli,
Co’ vostri bei colori
La vil bellezza a svergognar de’ fiori.
Rosanna. (Che parlar caricato!)(a Giacinto
Giacinto. (E pur, così affettato,
Vi dovrebbe piacer).(a Rosanna
Rosanna.   (Per qual ragione?)
Giacinto. (Piace alle donne assai l’adulazione).
Conte. Concedete ch’io possa(a Rosanna
Regger col braccio mio...(a Lindora
Laura. Eh, signor Conte mio,
Lei parte con Madama,
Rosanna se n’andrà col suo Giacinto;
Ed io resterò sola?
Lei di cavalleria non sa la scola.
Conte. Ha ragion, mi perdoni;

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Io son un mentecatto, io son un bue:

Servirò, se il permette, a tutte e due.
Laura. Se Madama l’accorda...
Lindora.   Io nol contendo.
Laura. Io son contenta, e le sue grazie attendo.
Conte. Eccomi. Favorisca, faccia grazia.
Sull’umil braccio mio poggi la mano.
Laura. Camminate più presto.
Lindora.   Andate piano.
Giacinto. Son godibili assai. (a Rosanna
Rosanna. (Più grazioso piacer non ebbi mai). (a Giacinto
Laura. Ma via, non vi movete?
Conte. Eccomi lesto.
Lindora.   Non andate sì presto;
Di già voi mi stroppiate.
Laura. Con questo andar sì pian voi m’ammazzate.
Lindora. (Oh belli!)
Rosanna.   (Oh cari!)
Conte.   (Io sono
Nel terribile impegno). Via, madama, (a Lindora
Un tantinin più presto;
Eh via, cara signora, (a Laura
Un tantinin più piano.
Laura. Più piano di così? Mi vien la morte.
Lindora. Vi dico ch’io non posso andar sì forte.
Conte.   Questa forte, e quella piano,
  L’una tira, e l’altra molla;
  Non so più cosa mi far;
  Favoriscano la mano,
  Anderò come potrò.
  Forti, forti, saldi, saldi.
  Vada pur ciascuna sola,
  Io gli sono servitor.
  Che comanda? eccomi qui.
  Ch’io la servi? eccomi pronto.

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  Camminiam così, così.

  Troppo forte? troppo piano?
  D’incontrar io spero invano
  Di due donne il strano umor. (parte

SCENA III.

Rosanna, Giacinto, Lindora, Lauretta.

Giacinto. Ah, ah, che bella cosa!

Rosanna. (Cosa in vero piacevole e gustosa!)
Laura. Madama, andate pian quanto volete;
Per non venir in vostra compagnia,
Vi faccio riverenza, e vado via.(parte
Lindora. Oibò! correr sì forte
Non conviene per certo ad una dama.
Affettar noi dobbiam, per separarci
Dalla gente ordinaria,
Una delicatezza straordinaria.(parte

SCENA IV.

Rosanna e Giacinto.

Rosanna. Bei caratteri al certo.

Giacinto.   Anzi bellissimi.
Io che stolto non son, scelta ho per ninfa
Donna di senso e di beltà.
Rosanna.   Di grazia,
Non seguite anche voi quel vil costume
Di adular per piacere.
Giacinto.   Ah noi temete;
Io vi stimo assai più che non credete.
Rosanna. Per or godo l’onore,
Che siate mio pastore,

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Ma terminata poi l’Arcadia nostra,

Pastorella non son, non son più vostra.
Giacinto. Chi sa? se non sdegnate
Di chi v’adora il core,
Io per sempre sarò vostro pastore.
Rosanna. Felicissima Arcadia allor direi,
Se tutti i giorni miei
Lieta passar potessi al colle, al prato,
Col mio pastor, col mio Giacinto a lato.
  Se di quest’alma i voti
  Ascolta il dio d’amor,
  Lieto sarà il mio cor,
  Sarò felice.
  Per or di più non dico,
  Ma forse un di verrà,
  Che il labbro dir potrà
  Quel ch’or non lice. (parte

SCENA V.

Giacinto solo.

Purtroppo è ver che s’introduce il foco

D’amor ne’ nostri petti, e a poco a poco,
Queste villeggiature
In cui sì francamente
Tratta e conversa ognun di vario sesso,
Queste cagionan spesso
Nella stagion de’ temperati ardori
Impegni, servitù, dolcezza, amori.
  Per passar dagli occhi al core
  Apre il varco al dio d’Amore
  La moderna libertà.
  Anche Amore andria sommesso
  Se si usasse col bel sesso
  La primiera austerità. (parte

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SCENA VI.

Camera.

Fabrizio e Foresto.

Fabrizio. Non vuò, non vuò sentire.

Foresto. Eh via, signor Fabrizio,
Siete un uom di giudizio,
Siete un uomo civile,
Non fate che vi domini la bile.
Fabrizio. Che bile? che m’andate
Bilando e strabilando?
Ve ne dovete andar qualor vi mando.
Foresto. Finalmente fu scherzo.
Fabrizio. Sì, fu scherzo, ma intanto
L’orologio, la scatola e l’anello
Non si vedono più.
Foresto.   Siete in errore:
Eccovi l’orologio,
La scatola e l’anello.
Ciò ch’ha di vostro ognun di noi vi rende,
Nè d’usurpar il vostro alcun pretende.
(gli dà l’orologio, la scatola e l’anello
Fabrizio. Eh non dico, non dico, ma vedermi
Strapazzato e deriso...
Foresto. Lo fan sul vostro viso
Per prendersi piacer, ma dietro poi
Le vostre spalle ognun vi reca lode,
E del vostro buon cuor favella e gode.
Fabrizio. Son buon amico; e faccio quel ch’io posso.
Foresto. A proposito, amico,
Che facciam questa sera?
La carrozza è venduta;
Sono andati i cavalli,
E da cena non v’è.
Fabrizio.   Come? In un giorno

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Tanti bei ducatoni sono andati?

Foresto. I debiti maggior si son pagati.
Fabrizio. Io non so che mi far.
Foresto.   Siete in impegno,
Sottrarvi non potete.
Fabrizio. Consigliatemi voi, se lo sapete.
Foresto. L’orologio e l’anello
Si potrian impegnar.
Fabrizio.   Sì, dite bene.
Foresto. Ma non so se denaro
Si troverà abbastanza.
Fabrizio.   Ecco, prendete
Questa scatola ancora.
Altro più non mi resta,
Foresto caro, a terminar la festa.
Foresto. Siete un grand’uom! Peccato
Non abbiate il tesor maggior del mondo,
(Che presto noi gli vederemmo il fondo).
Vado a trovar denaro,
E tosto a voi ritorno.
Un certo non so che si va ideando.
Qualor torno, saprete il come e il quando. (parte

SCENA VII.

Fabrizio, poi Lindora.

Fabrizio. Tutto va ben. Lo so che mi rovino;

Ma non importa. Almen anch’io godessi
Da codeste mie ninfe traditore
Un qualche segno di pietoso amore.
Lindora. Signor Fabrizio. (di lontano
Fabrizio.   (Questa, a dir il vero,
Mi par troppo flemmatica).
Lindora.   Non sente?
Signor Fabrizio. (come sopra

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Fabrizio.   (E pur, se mi volesse,

Io non ricuserei
Di far un poco il cicisbeo con lei).
Lindora. Si-gnor Fa-bri-zio. (con caricatura
Fabrizio.   Oh Cielo! Mi perdoni.
Non l’aveva sentita.
Lindora. Ho gridato sì forte, che la gola
Mi si è tutta enfiata;
Quasi in petto una vena m’è crepata.
Fabrizio. Cancaro! Se ne guardi;
Favorisca.
Lindora.   M’aiuti.
Fabrizio.   Eccomi lesto.
Lindora. Non mi tocchi.
Fabrizio.   Perchè?
Lindora.   Son tenerina.
Fabrizio. Impastata mi par di ricottina.
Lindora. Ahi 1 son stanca.
Fabrizio.   S’accomodi, Madama.
Lindora. Sederei volentier, ma questa sedia
E dura indiavolata.
Sul morbido seder son avvezzata.
Fabrizio. Ehi... dico pian, non tema. Ehi, reca tosto
Una sedia miglior. (viene il Servo
Lindora. Molt’obbligata.
(il Servo va, e torna con una sedia di damasco
Fabrizio. Sieda qui, starà meglio.
Lindora.   Oibò, è sì dura
Cotesta imbottitura,
Ch’io non posso sperar di starvi bene.
Fabrizio. Rimediarvi conviene.
Porta la mia poltrona.
Lindora. Compatisca, signor.
Fabrizio.   Ella è padrona.
(torna il Servo con la poltrona

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Eccola, se ne servi.

Lindora.   Oh peggio, peggio;
No, no, non me ne curo.
Il guancial di vacchetta è troppo duro.
Fabrizio. Eh corpo d’un giudìo!
Ora la servo io. (parte
Lindora.   Portate via
La sedia ed il guanciale;
Quell’odor di vacchetta, ahi, mi fa male.
(torna Fabrizio con un matarazzo1
Fabrizio. Eccolo un matarazzo;
Di più non posso far.
Lindora.   Quest’è un strapazzo.
Lo conosco, lo so; no, non credevo
Dover soffrir cotanto.
Ahi, che mi vien per il dolore il pianto.
  Voglio andar... non vuo’ più stare,
  Più beffata esser non vuò.
  Signor sì, me n’anderò.
  Sono tanto tenerina,
  Ch’ogni cosa mi scompone;
  E voi siete la cagione,
  Che m’ha fatto lagrimar.
  Se sdegnarmi almen sapessi,
  Vendicarmi or io vorrei.
  Ma senz’altro morirei,
  Se m’avessi ad arrabbiar. (parte

SCENA VIII.

Fabrizio, poi Foresto.

Fabrizio. Si contenga chi può. Corpo del diavolo!

Non ne poteva più.
Foresto.   Signor Fabrizio,

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Il principe d’Arcadia ha comandato,

Che dobbian recitar all’improvviso
Stassera una commedia.
Fabrizio.   Io non ne so.
Foresto. Non temete, ch’io vi contenterò.
Il Conte ha destinato
Di far da innamorato;
Da innamorata dovrà far Madama.
Lauretta fa la serva,
Io fo da genitore,
E voi dovete far da servitore.
Fabrizio. Da servitor?
Foresto.   Cioè la parte buffa.
Fabrizio. Il buffo io dovrò far? Quest’è un mestiere,
Ch’è difficile assai;
Per far ridere i pazzi
Non vi vuol grand’impegno.
Ma far rider i savi è grand’impegno.
Foresto. Già s’avanza la notte:
Andatevi a vestir, ch’io venirò.
Fabrizio. Farò quel che potrò:
Mi dispiace il parlar all’improvviso.
Se fosse una commedia almen studiata,
Si potrebbe salvar il recitante,
Dicendo che il poeta è un ignorante. (parte

SCENA IX.

Foresto solo.

Certo non dice mal; sogliono tutti

Gettar la colpa su la schiena altrui.
Se un’opera va mal, dice il poeta:
La mia composizion è buona, e bella;
Quel ch’ha fallato è il mastro di cappella.

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E questo d’aver fatto

Gran musica si vanta,
E che il difetto vien da chi la canta.
Infine l’impresario
Senza saper qual siane la cagione,
Se ne va dolcemente in perdizione.
  Perchè riesca bene un’opera,
  Quante cose mai vi vogliono!
  Libro buono e buona musica,
  Buone voci e donne giovani.
  Balli, suoni, scene e macchine.
  E poi basta? Signor no.
  Che vi vuol? lo non lo so.
  Ma noi sa nemmen chi critica,
  Benché ognun vuol criticar.
  Parla alcuno per invidia,
  Alcun altro per non spendere,
  Mentre il più di tutti gli uomini
  Col capriccio che li domina
  Suol pensare e giudicar. (parte

SCENA X.

Sala.

Il Conte col nome di Cintio, e Fabrizio da Pulcinella.
Lauretta da Colombina, Lindora col nome di
Diana, e in fine Foresto da Pantalone.

Conte. Seguimi, Pulcinella.

Fabrizio.   Eccome ccà.
Conte. Siccome un’atra nube
S’oppone al sole, e l’ampia terra oscura,
Così da quelle mura
Coperto il mio bel sol cui l’altro cede,
L’occhio mio più non vede. Ond’è che afflitto
I nuovi raggi del mio sole attendo.

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Fabrizio. Tu me parle tidisca, io non t’intendo.

Conte. Fedelissimo servo,
Batti tu a quella porta.
Fabrizio.   A quale porta?
Conte. A quella.
Fabrizio.   Io non la vedo.
Conte. Finger dei che vi sia.
In vece della porta,
In un quadro si batte o in una sedia,
Come i comici fanno alla commedia.
Fabrizio. Aggio caputo, ma famme una grazia;
Perchè da tozzolare aggio alla porta?
Conte. Acciò che la mia bella
Venga meco a parlar.
Fabrizio.   Ccà sulla strada?
Conte. È ver, non istà bene,
Che facciano l’amor sopra la strada
Civili onesti amanti,
Ma ciò sogliono usar i commedianti.
Fabrizio. Sì, sì, tozzolerò; ma se qualcuno,
Quando ho battuto io, battesse a me?
Conte. Lascia far, non importa, io son per te.
Fabrizio. O de casa.
Laura.   Chi batte? (di dentro
Fabrizio.   Sono io.
Laura. Serva sua, signor mio.
Fabrizio. Patron, chessa è per me.
Conte.   Chi siete voi,
Quella giovine bella?
Laura. Io sono Colombina Menarella.
Conte. Di Diana cameriera?
Laura. Per servir vussustrissima.
Fabrizio. Obregato, obregato.
Conte.   Deh vi prego,
Chiamatela di grazia.

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Laura.   Ora la servo.

Fabrizio. Sienteme, peccerella,
Vienence ancora tuie,
Che ance devertarimmo fra de nuie.
Laura. Sì, sì, questa è l’usanza;
Se i padroni fra lor fanno l’amore,
Fa l’amor con la serva il servitore.
  Il padron con la padrona
  Fa l’amor con nobiltà:
  Noi andiamo più alla bona
  Senza tanta civiltà.
  Dicon quelli: idolo mio,
  Peno, moro, smanio, oh Dio!
  Noi diciam senz’altre pene:
  Mi vuoi ben? ti voglio bene;
  E facciamo presto presto
  Tutto quel che s’ha da far.
  Dicon lor, ch’è un gran tormento
  Quell’amor che accende il core;
  Diciam noi, ch’è un gran contento
  Quel che al cor ci reca amore.
  Ma il divario da che viene?
  Perchè han quei mille riguardi:
  Penan molto, e parlan tardi.
  Noi diciam quel che conviene
  Senza tanto sospirar.
(si ritira fingendo chiamar Diana
Conte. Ti piace, Pulcinella?
Fabrizio. A chi non piaceressi, o Menarella?
Conte. Ecco viene quel bel che m’innamora.
Fabrizio. Con essa viene Menerella ancora.
(vengono Lindora e Lauretta
Conte. Venite, idolo mio.
Venite per pietà.
Lindora. Vengo, vengo, mio bene, eccomi qua.

[p. 342 modifica]
Conte. Voi siete il mio tesoro.

Lindora. Per voi languisco e moro.
Fabrizio. Ah, tu sì la mia bella. (a Lauretta
Laura. E voi siete il mio caro Pulcinella.
Conte. A voi donato ho il core. (a Lindora
Lindora. Ardo per voi d’amore.
Fabrizio. Per te mi sento lo Vesuvio in pietto. (a Lauretta
Laura. Cotto è il mio core al foco dell’affetto.
Conte.   Vezzosetta, mia diletta. (a Lindora
Fabrizio.   Menarella, mia caretta.
Lindora.   Cintio caro, Cintio mio..
Laura.   Pulcinella bello mio.
Lindora.   Che contento, che diletto!
Laura.   Vien, mio bene, a questo petto.
(a quattro   Io ti voglio un po’ abbracciar.
(viene Foresto, da Pantalone
Foresto.   Olà, olà, cossa feu?
  Abrazzai?
  Cagadonai2!
  Via, cavève3, via de qua.
Lindora. Io m’inchino al genitore.
Laura. Serva sua, signor padrone.
Conte. Riverisco, mio signore.
Fabrizio. Te so schiavo, Pantalone.
Foresto. El ziradonarve4 attorno;
Tutti andève a far squartar5.
Conte. Vuol ch’io vada?
Foresto.   Mi ve mando.
Fabrizio. Vado anch’io?
Foresto.   Mi v’ho mandao.
Conte. Anderò con la mia bella.
Fabrizio. Anderò con Menarella.

[p. 343 modifica]
Lindora. Io contenta venirò.

Fabrizio. Via, tiolè sto canelao6.
Foresto. Co le putte? oh questo no.
Lindora. Signor padre, per pietà.(s’inginocchia
Laura. Gnor padron, per carità.(s’inginocchia
Conte. Deh vi supplico ancor io.(fa lo stesso
Fabrizio. Pantalon, padrone mio.(fa lo stesso
Foresto. Duro star no posso più.
Via, mattazzi, levè7 su.
(a quattro Io vi prego.
Foresto.   Zitto là.
(a quattro   Vi scongiuro.
Foresto.   Vegnì qua.
  Cari fioi, deve la man.
  Alla fin son Venezian,
  M’avè mosso a compassion.
(a quattro   Viva, viva Pantalon.
(a cinque   Viva, viva il dolce affetto;
  Viva, viva quel diletto
  Che produce un vero amor,
  Che consola il nostro cor.


Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Zatta: materazzo.
  2. Disgraziati, birboni: voce volgare. V. vol. II, 179, 200, 227 e Boerio.
  3. Andatecene: Boerio.
  4. Forse il testo è scorretto, il senso non riesce chiaro. Vol. XVII, p. 293 e vol. XVIII, p. 340.
  5. Vol. XX, p. 79.
  6. Atto volgare di sprezzo: vedasi specialmente vol. XX, p. 86.
  7. Zatta: leveve.