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atto terzo 63


Messer Giannino. Vien da basso.

Vergilio. Sapete quel ch’io vi ricordo, padrone? Io non fidarei, cosí per la prima volta, a Lorenzino un anello di tanto pregio; che vai quel diamante piú di cento scudi.

Messer Giannino. Importan poco cento scudi ove ne va la vita.

Cornacchia. Eccomi, padrone: che comandate?

Messer Giannino. Se vien nessuno a domandarmi, di’ ch’io sia alla buttiga di Guido orafo, intendi?

Cornacchia. Cosí dirò.

Messer Giannino. Vergilio, andiamo. E tu, Sguazza, sollecita quel e’ hai da fare.

Sguazza. Non metterò tempo in mezzo. Oh! Io sarei la bella bestia s’io facesse prima e’ fatti del compagno e poi i miei! Io voglio andare, inanzi, a casa d’un certo procuratore che suol mangiar tardi e sempre ha qualche cosetta di buono, che tutto ’l di gli è donato qualche presentuzzo. E, benché io abbia il corpo assai carico, pur non è mai si pieno che non ci possin capir quattro bocconcelli. Addio.

SCENA II

Panzana, Messer Ligdonio.

Panzana. Che vuol dir, messer Ligdonio, che noi siamo usciti di casa col boccone in bocca, che non m’avete lassato mezzo mangiare?

Messer Ligdonio. A dicerte lo vero, aggio presentuto che Margarita, corno ave manciato, se ne va al monasterio di Santo Martino per star lá tanto che maestro Guicciardo tome da Roma.

Panzana. Donde diavol l’avete saputo? Voi devete aver qualche intendimento con essa e non me ne volete dir niente.

Messer Ligdonio. Non, per Dio, che lo dirria.

Panzana. Voi ghignate, ch? Voi dovete aver fatto qualche cosa con costei: conosco ben io.