Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo VI

Libro secondo - Capitolo VI (luglio - agosto 1546)

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CAPITOLO VI

(luglio-agosto 1546).

[Bolla di Paolo III, che indice un giubileo per la guerra contro i protestanti. — Malcontento di Carlo V, che vuole mascherare il fine religioso della guerra col fine politico. — Bando imperiale contro l’elettore di Sassonia e il langravio d’Assia. — Timori di Carlo V per la politica papale e per uno scioglimento del concilio; sua insistenza perché questo si limiti a trattare di riforma. — Discesa delle milizie luterane nel Tirolo. — Turbamento del concilio e dei suoi lavori.— Arrivo delle truppe papali e imperiali dall’Italia. — Primi dissapori fra gli alleati. — Tattica temporeggiatrice dell’imperatore e poco accordo negli smalcaldici. — I lavori del concilio: ampia trattazione della giustificazione. — La certezza della grazia oppugnata dal Seripando, dal Vega, dal Soto, difesa dal Catarino e dal Marinari. — Trattazione del libero arbitrio (Marinari, Catarino, Luigi da Catania, Soto) e della predestinazione. — Il concilio decide di distinguere i decreti della dottrina dagli anatematismi o canoni. — Nella determinazione dei decreti opera io spirito conciliativo del legato cardinale Cervini. — Dispute sulla residenza e sugli impedimenti di essa. — Origine comune dei gradi ecclesiastici e dei benefici; come sorgessero poi gli abusi di residenza.— La reazione luterana.— Accesa disputa se il dovere di residenza sia de iure divino o canonico. — Gli spagnoli propugnano il de iure divino. — Origine e sviluppo dell’autoritá vescovile: danni causati ad essa ed alla residenza dalle esenzioni concesse a monasteri, capitoli, ecc. — I vescovi insistono per l’abolizione totale delle esenzioni, ma vengono solo parzialmente accontentati.]

Ma mentre in Trento si fanno queste dispute, il pontefice in Roma a’ 15 di luglio pubblicò un giubileo, col quale levò la fatica alli principi di Germania d’investigar o persuader ad altri la vera causa della guerra, perché in quella bolla, avendo diffusamente esplicato il suo affetto e sollecitudine pastorale per la salute degli uomini, narrata la perdizione [p. 320 modifica] delle anime che continuamente seguiva per l’accrescimento delle eresie, che per estirparle era il concilio giá incominciato, si doleva sopra modo della pertinacia degli eretici che lo sprezzavano e ricusavano obedirlo e sottoporsi alla difinizione di quello; al che per rimediare, egli aveva concluso lega con Cesare, per ridur con forza di arme gli eretici all’obedienza della Chiesa; e per tanto ognuno ricorresse a Dio con preghiere e digiuni, confessioni e comunioni, acciò la Maestá sua divina concedesse buon esito a quella guerra, presa a gloria sua, esaltazione della Chiesa e per estirpar l’eresie.

Cesare, seguendo la deliberazione di ascondere la causa della religione, pubblicò sotto i 20 dello stesso mese un bando contra il sassone e il langravio, imputando loro d’aver impedito sempre i suoi disegni, non averlo mai ubidito, aver fatto congiure contra lui, mossa la guerra ad altri principi dell’Imperio, aver occupato vescovadi e altre prefetture, privato molti delle loro facoltá, e tutte queste cose coperte con specioso e dolce nome della religione, della pace e della libertá, avendo però ogn’altro fine. Per tanto come perfidi, rebelli, sediziosi, rei di lesa maestá, perturbatori della tranquillitá pubblica, li proscrive; comanda che nessun li dia aiuto e si congionga con loro; assolve la nobiltá e populo delli domini loro dal giuramento della fedeltá, includendo nel medesmo bando tutti quelli che persevereranno nella loro obedienza.

Al pontefice fu molto molesta la causa della guerra che Cesare allegava; e a Cesare molto molesta l’allegata dal pontefice, perché ciascun di loro veniva ad impedir li fini dell’altro. Imperocché, quantonque il papa pretendesse d’aver fatto questo manifesto, acciò fosse dal populo di tutto il cristianesmo implorato l’aiuto divino per favorir le armi dell’imperatore, egli nondimeno e ogni persona di giudicio molto bene conobbero questo esser fatto per notificar a tutto il mondo e alla Germania che quella era guerra di religione; il che fu anco dalli imprudenti conosciuto poco dopo, perché fu pubblicata la lettera da lui scritta alli svizzeri, della quale s’è di sopra parlato, mandando copia delli capitoli medesmi [p. 321 modifica] del contrattato col Mandruccio. Il fine del pontefice in pubblicar il contrario di quello che l’imperatore faceva, era perché ben voleva la depressione de’ protestanti, ma non con aumento delle cose di Cesare; e per implicarli con equilibrio, pensava di necessitar tutti li professori della nova religione ad unirsi contra lui. Certo è che l’azione del papa fu di qualche impedimento alli disegni di Cesare; imperocché, avendo egli ricercato li medesmi svizzeri a continuare la lega che avevano con la casa d’Austria e Borgogna e non aiutare li suoi rebelli, li evangelici risposero voler essere prima certi che la guerra non fosse per causa di religione. Cosí avvenne che non ancora era principiata la guerra, e giá erano gettati in campo semi di discordia tra quei prencipi novamente collegati.

Li potentati d’Italia restarono stupefatti, e desideravano nel papa la solita sua prudenza di tener la guerra lontana d’Italia e li principi oltramontani in equilibrio di forze; il quale in un ponto stesso aveva operato cosa contraria ad ambidue questi fini. Imperocché se l’imperatore avesse soggiogata la Germania, restava l’Italia a sua discrezione, senza che Francia bastasse ad opporsi a tanta potenza; se anco l’imperatore soccombeva, era manifesto l’ardore de’ tedeschi di passarsene in Italia. E forse queste ragioni passando per mente al papa, lo persuasero, conclusa la lega, ad assicurarsi, contrappesando la Germania con l’imperatore.

Ma Cesare, oltre il disgusto ricevuto per il giubileo, entrò anco in sospetto che il papa, ottenuto il fine suo di mover guerra a’ protestanti, non procurasse la dissoluzione del concilio, sotto pretesto di differirlo dopo la guerra finita, e sotto colore di pericoli per le arme che protestanti preparavano in Svevia. Sapeva questa esser mira di tutta la corte, negoziata con lui per venticinque e piú anni; sapeva la volontá dei vescovi congregati in Trento, eziandio delli suoi, esser inclinata all’istesso, per li patimenti e disagi; temeva che se la separazione fosse seguita, li luterani se ne fossero valsi, con dire che fosse stato congregato a fine di trovar pretesto di far [p. 322 modifica] loro la guerra: e li cattolici di Germania pensassero che, deposti li interessi della religione e della reforma, egli mirasse solo a soggiogar la Germania. Dubitò anco che, seguendosi a trattar le materie controverse (come giá s’era fatto del peccato originale, ed era avvisato che si divisava far della giustificazione), li potesse esser impedita qualche composizione che s’avesse potuto fare, dando speranza alle cittá che sarebbono udite le ragioni, per separarle dalli principi della lega. Vedeva chiaro esser necessario che il concilio restasse aperto, ma attendesse alla riforma solamente; ma difficile ottenerlo, se non avendo il papa congionto in questo. Però spedií in diligenza a certificarlo che averebbe posto tutto lo spirito e le forze principalmente a far che Trento fosse sicuro; che non dubitasse, quantonque andasse fama de eserciti protestanti in Svevia; che era ben necessario mantener il concilio per ovviare alle detrazioni e calunnie che contra ambidua sarebbono disseminate, se si dissolvesse; lo pregava efficacemente ad operare sí che restasse aperto, e le cose controverse non fossero trattate, essendo sua ferma intenzione di constringere li suoi aderenti protestanti con l’autoritá e li inimici con le armi ad intervenirvi e sottoporsi. Ma tra tanto non bisognava metter impedimento a questo ottimo disegno, serrando loro la porta con decreti contrari fatti in assenza; che questo non poteva andar longo; sperava vederne il fine quella state; però si contentasse operare che si trattasse della riforma per allora; o se pur si trattasse della religione, si toccassero solo cose leggieri, e che difinite non offendessero li protestanti. Ordinò anco che l’istesso ufficio fosse fatto dall’ambasciator suo in Trento con li legati. E perché era informato che Santa Croce era inclinato alla dissoluzione in qualonque modo, commise all’ambasciatore che con lui facesse passata a dirli che, se egli avesse operato alcuna cosa contra la mente di Sua Maestá in questo, l’averebbe fatto gettar nell’Adice; il che fu anco fatto pubblico a tutti, e scritto dalli istorici di questo tempo.

Il pontefice, se ben averebbe voluto vedersi libero dal concilio, e da tutta la corte fosse desiderato l’istesso, giudicò [p. 323 modifica] necessario compiacer Cesare in tenerlo aperto e non trattar le controversie; ma l’attender alla sola riforma non li potè piacere né a lui, né alli cortegiani. Però scrisse alli legati che non lasciassero dissolvere l’adunanza, che non facessero sessione sinché da lui non fosse ordinato, ma trattenessero li prelati e li teologi con fare congregazioni, e con quelle occupazioni ed esercizi che meglio fosse loro parso. Ma in Trento alli 25 fu solennemente pubblicato il giubileo in presenza delli legati e di tutto il concilio; e acciocché si potesse attender alli digiuni ed altre opere di penitenza secondo il prescritto della bolla, fu differita la sessione sino al tempo che fosse intimata, e le congregazioni intermesse per quindici giorni.

In questo tempo medesimo s’accostò l’esercito de’ protestanti al Tirol per occupar li passi alle genti, che d’Italia dovevano passare all’aiuto dell’imperatore, e da Sebastiano Schertellino fu presa la Chiusa; per il che quel contato si pose tutto in arme per impedirli il progresso; e Francesco Castelalto, che era a guardia del concilio, andò esso ancora in Inspruc, e munita quella cittá per prevenir l’occupazione dei passi, si pose con la sua gente sette miglia di sopra; il che fece dubitare che la sede della guerra non dovesse ridursi in quel paese e disturbar intieramente il concilio. Li prelati, che desideravano pretesto per poter di lá ritirarsi, magnificavano li pericoli e li disagi; al che non opponendosi li legati nel principio, diedero sospetto che la mente del pontefice fosse aliena dal proseguir il concilio. Partirono alquanti prelati delli piú timidi, e che non volontieri stavano in Trento; e maggior numero sarebbe partito, se il cardinale di Trento, tornato di fresco da Roma, non avesse attestato che il papa ne averebbe sentito dispiacere, e li timidi non fossero stati confortati da lui e dall’ambasciator cesareo con sicurarli, atteso il numero grande che d’Italia veniva, qual averebbe costretto li protestanti a partirsi; e s’anco la littera scritta dal papa alli legati, sopraggionta in questi moti, non li avesse fatti congiongere l’autoritá loro e del papa agli uffici degli altri. [p. 324 modifica]

Ma se ben riuscivano il tentativo de’ protestanti, e le cose del Tirol restarono in sicuro, che da quel canto non rimase dubbio, nondimeno tutto Trento andò in confusione per il grande numero de soldati che continuamente d’Italia in Germania passava; quale, secondo le convenzioni della lega, era in tutto al numero di dodici mila fanti e cinquecento cavalli, oltre duecento del duca di Toscana e cento del duca di Ferrara. Erano condotti da tutti li famosi capitani d’Italia, sotto Ottavio Farnese, general capitano, e Alessandro Farnese, Cardinal legato, fratelli, ambi al pontefice nepoti di figlio; e seimila spagnuoli, soldati propri di Cesare, tratti di Napoli e Lombardia. E mentre durò il passaggio de soldati, che fu sino a mezzo agosto, se ben non s’intermessero affatto le pubbliche azioni conciliari, si fecero però meno frequenti e meno numerose. Ma acciò che li vescovi e teologi avessero trattenimento, il Cardinal Santa Croce teneva in casa propria riduzione de litterati, dove si parlava delle cose medesme, ma in modo familiare e senza ceremonia.

Pubblicarono in questo tempo li protestanti collegati contra Cesare una scrittura inviata alli loro sudditi, piena di maledicenze contra il pontefice romano, chiamandolo Anticristo, istromento di Satan, imputandolo che per li tempi passati avesse mandato a taccar fuoco in diversi luochi di Sassonia, che ora fosse autore e istigatore della guerra, che avesse mandato in Germania per avvenenar li pozzi e acque stagnanti: avvertendo tutti a star diligenti per prender e punire quelli venéfici; la qual cosa però pochissimi riputavano verisimile, ed era stimata una calunnia.

Arrivata la gente del papa nel campo che si ritrovava in Landisuth, il dí 15 agosto, Cesare diede il collar del Tosone ad Ottavio suo genero, che gli aveva donato nella celebrazione dell’assemblea di quell’ordine che tenne il dí di sant’Andrea, e vidde la mostra delle genti del pontefice, con molta approbazione e contento suo di aver il fiore della milizia italiana; e nondimeno li fini del pontefice e imperatore, diversi, producevano occasioni di disgusti. Voleva il Cardinal Farnese [p. 325 modifica] portare la croce inanzi come legato dell’esercito, e cosí aveva ordine dal pontefice di fare, pubblicando anco indulgenze, nel modo per li tempi passati solito farsi nelle crociate, dechiarando che quella era guerra della chiesa cattolica; nessuna delle qual cose potè ottenere dall’imperatore, il quale aveva per fine mostrar tutto il contrario, per dar trattenimento alli principi luterani che seco erano, e acciò le cittá non si ostinassero contra lui per quella causa. Il cardinale, vedendo non poter star nel campo in altra qualitá con dignitá del papa e sua, fermatosi in Ratisbona, fingendosi ammalato, aspettava risposta dall’avo, quale aveva del tutto avvisato.

Poste da tutte due le parti le genti e le arme in punto, quantonque ambedue avessero grosso esercito e si constringessero l’un l’altro presentandosi anco la battaglia, ciascuno quando vedeva il vantaggio proprio, e occorressero all’uno o l’altro molte buone occasioni di acquistar qualche notabil vittoria, nondimeno dal canto de’ protestanti non furono abbracciate, per esser le genti comandate dall’elettor e dal langravio con pari autoritá e governo negli eserciti, sempre di pessima riuscita; e Cesare ciò conoscendo, per restar superiore senza sangue, e per non dar a’ nemici occasione di regolar meglio le cose loro, aspettava che il tempo li mettesse in mano la certa vittoria, in luoco di quella che poteva sperare con altrettanto dubbio, esponendosi alla fortuna d’una giornata; onde non fu fatto fazione di momento e conseguenza.

Li legati in Trento, liberati dalla soldatesca, regolarono, secondo lo stile di prima, le congregazioni, ritornandole alli giorni ordinari. E pensando tra loro come andar portando il tempo inanzi secondo l’intenzione del papa, non trovarono altro modo se non con mostrare che l’importanza della materia ricercava esatta discussione, e con allongare le dispute delli teologi, dando adito e aggregando nove materie: del che non era da temere mancamento di occasione, attesoché o per la connessione, o per intemperanzia d’ingegno, sempre li dottori passano facilmente d’un all’altro soggetto. Consegnarono anco di fomentar le differenze e varietá di opinioni; [p. 326 modifica] cosa di facil riuscita, cosí per natural inclinazione dell’uomo di vincere nelle dispute, come perché nelle scole, massime de’ frati, la soverchia fermezza nell’opinione della propria setta è molto accostumata. Il Monte, come di natura ingenua, teneva il negozio per difficile, né si prometteva di poter servar constanza in cosí longa dissimulazione, de quale si vedeva bisogno. Ma Santa Croce, di natura melancolica e occulta, si offerí di pigliar in sé il carico di guidar il negozio.

Adonque nella congregazione delli 20 agosto, parendo che sopra li venticinque articoli fosse tanto parlato che bastasse per formar li anatematismi, si propose di deputar padri a comporli; e furono nominati tre vescovi e tre generali, e primo di tutti il Santa Croce. E fatta una modula de’ canoni, e proposta per discutere nelle congregazioni seguenti, ritornarono le medesime dispute per la certezza della grazia, delle opere morali de infedeli e peccatori, del merito de congruo, della imputazione, della distinzione della grazia e caritá; e si parlò con maggior efficacia dalli interessati nelle opinioni, aiutando il cardinale li affetti con mostrare che le materie erano importanti, che era necessario ben discuterle, e che senza la risoluzione di quelle era impossibile far buona deliberazione. La sola controversia della certezza della grazia esercitò molti giorni li disputanti, e ostinò e divise in due parti non solo li teologi, ma anco li prelati. Non però fu resa la questione chiara per le dispute, anzi piú oscurata.

Nel principio, come al suo luogo detto abbiamo, una parte diceva che la certezza d’aver la grazia è prosonzione; l’altra che si può averla meritoriamente. Li fondamenti delli primi erano che san Tomaso, san Bonaventura e il comune de’ scolastici cosí hanno sentito, causa perché la maggior parte de’ dominicani era nell’istessa opinione. Oltre l’autoritá de’ dottori, aggiongevano per ragioni: non aver Dio voluto che fosse l’uomo certo, acciò non si levasse in superbia ed estimazione di se medesmo, acciò non si preferisse agli altri, come farebbe alli manifesti peccatori chi si conoscesse giusto; ancora, si renderebbe il cristiano sonnolente e trascurato e negligente [p. 327 modifica] all’operar bene. Per questi rispetti, dicevano, l’incertezza esser utile, oltreché meritoria, perché è una passione d’animo, che lo affligge: la qual sopportata, cede a merito. Adducevano anco luochi della Scrittura: di Salomone, che l’uomo non sa se sia degno d’odio o amore; della Sapienzia, che comanda non esser senza timore del peccato perdonato; di san Pietro, che s’attendi alla salute con timore e tremore; di san Paulo, che disse di se medesmo: «Quantonque la mia conscienzia non m’accusi, non però mi tengo giustificato». Queste ragioni e testimoni, insieme con molti luochi de’ Padri, erano portati e amplificati, massime dal Seripando, dal Vega e dal Soto.

Ma il Catarino col Marinaro avevano altri luochi delli medesmi Padri in contrario; il che ben mostrava che in questo particolare avessero parlato per accidente, come le occasioni facevano piú a proposito, or per sollevar li scrupolosi, or per reprimer l’audacia: però si ristringevano all’autoritá della Scrittura. Dicevano che a quanti si legge nell’Evangelio Cristo aver rimessi li peccati, a tutti disse: «Confidati, che li peccati ti sono perdonati»; e sarebbe assorditá che Cristo avesse voluto porger occasione di temeritá e superbia; e se fosse utile o merito, che egli avesse voluto privar tutti di quello. Che la Scrittura ci obbliga a render a Dio grazie della nostra giustificazione, le quali non si possono render se non sappiamo d’averla ottenuta; e sarebbe inettissimo e udito come impertinente chi ringraziasse di quello che non sa se gli sia donato o no. Che san Paulo apertamente asserisce la certezza, quando raccorda alli Corinti di sentire che Cristo è in loro se non sono reprobi; e quando dice che abbiamo ricevuto da Dio uno spirito per saper quello che da sua divina Maestá ci è stato donato; e piú chiaramente, che lo Spirito Santo rende testimonianza allo spirito nostro che siamo figli di Dio: ed è gran cosa accusar di temeritá quelli che credono allo Spirito Santo che parla con loro, dicendo sant’Ambrosio che lo Spirito Santo mai parla a noi che non ci faccia insieme sapere che egli è desso che parla. Appresso questo, aggionse le parole di Cristo in san Gioanni: «che il mondo non può [p. 328 modifica] ricever lo Spirito Santo, perché non lo vede né conosce, ma che li discepoli lo conosceranno, perché abitará in loro e in loro sará». Si fortificava il Catarino alla gagliarda, con dire esser un’azione da sognatore il defender che la grazia sia ricevuta volontariamente, non sapendo d’averla; quasi che a ricever volontariamente una cosa non sia necessario che il ricevitor spontaneo sappia che gli è data, che realmente la riceve, e dopo ricevuta che la possede.

La forza di queste ragioni fece prima ritirar alquanto quelli che la censuravano di temeritá, e condescender a concedere che si potesse aver qualche congettura, se ben non certezza per ordinario; condescendendo anco a dar certezza nelli mártiri, nelli novamente battezzati, e a certi per special revelazione; e da congettura si lasciarono condur anco a chiamarla «fede morale». E il Vega, che nel principio admetteva sola probabilitá, vinto dalle ragioni ed entrato poi a favorir la certezza, per non parer che alla sentenzia luterana si conformasse, diceva esservi tanta certezza che esclude ogni dubbio e non può ingannare; quella però non esser fede cristiana, ma umana ed esperimentale; e sí come chi ha caldo è certo d’averlo, e senza senso sarebbe quando ne dubitasse, cosí chi ha la grazia in sé, la sente, e non può dubitarne per il senso dell’anima, non per revelazione divina. Ma li altri defensori della certezza, costretti dagli avversari a parlar chiaro, si tenevano che l’uomo potesse averla; o pur anco se fosse a ciò tenuto, e se era fede divina o pur umana, si ridussero a dire che, essendo una fede prestata al testimonio dello Spirito Santo, non si poteva dire che fosse in libertá, essendo tenuto ciascuno a credere alle revelazioni divine; né si poteva chiamar fede se non divina.

E angustiati dall’obiezione che, se quella è fede non uguale alla cattolica, non esclude ogni dubbio; se uguale, adonque tanto debbe il giusto credere d’esser giustificato, quanto gli articoli della fede, rispondeva il Catarino che quella era fede divina, di ugual certezza ed escludente ogni dubbio, cosí ben come la cattolica; ma non esser cattolica essa. [p. 329 modifica] Asseriva esser fede divina ed escludere ogni dubitazione quella che ciascuno presta alle divine revelazioni fatte a sé proprio; ma quando quelle sono dalla Chiesa ricevute, allora è fatta fede universale, cioè cattolica; e che sola questa riguarda li articoli della fede; la quale però nella certezza e nella esclusione del dubbio non è superiore alla privata, ma la eccede solo nella universalitá. Cosí tutti li profeti, delle cose da Dio rivelategli, aver prima avuta fede privata; delle quali medesme, dopo ricevute dalla Chiesa, hanno poi avuto fede cattolica. Questa sentenzia alla prima udita parve ardua; e li medesimi aderenti al Catarino, che erano tutti li carmelitani (perché Gioanni Bacon lor dottore fu di quella opinione), e li vescovi di Sinigaglia, Vorcestre e Salpi, al principio mal volentieri passavano tanto inanzi; ma poi, pensata e discussa la ragione, è maraviglia come da parte notabile de prelati fu ricevuta, sgridando il Soto che fosse troppo a favore de’ luterani, e defendendo gli altri che non sarebbe da censurar Lutero, se avesse detto che dopo la giustificazione segue quella fede, ma ben perché dice che quella è la fede che giustifica.

Alle ragioni dell’altra parte rispondevano che non si debbi attender li scolastici, quali hanno parlato fondati sopra la ragione filosofica, che non può dar giudicio del li moti divini; che l’autoritá di Salomone non era in quel proposito, poiché dicendo «nessun poter sapere se è degno di amore o di odio», applicandola qui concluderebbe che il sceleratissimo peccatore con perseveranza non sa d’esser in disgrazia di Dio; che il detto della Sapienza meno si può applicare, e la traduzione rende inganno, perché la voce greca ἰλασμός non significa peccato perdonato, come è stata tradotta, ma espiazione o perdono: e le parole del Savio sono un’admonizione al peccatore di non aggiongere peccato sopra peccato per troppa confidenza del perdono futuro, non del passato; che non bisognava sopra un errore dell’interprete fondar un articolo della fede. (Cosí in quel tempo li medesimi, che avevano fatto autentica l’edizione Vulgata, parlavano di quella; il che potrá anco ognuno osservare dalli libri stampati da quelli che intervennero [p. 330 modifica] al decreto dell’approbazione). Dicevano che l’operar con timore e tremore è frase ebrea che non significa ambiguitá ma riverenza, perché timor e tremor usano li servi verso li patroni, eziandio quando da essi sono commendati e sanno esser in grazia loro; che il luoco di san Paulo faceva a favore, quando avesse parlato della giustificazione; perché dicendo: «non sono conscio di mancamento, né per ciò son giustificato», inferirebbe: «ma son giustificato per altro»; e cosí proverebbe la certezza. Nondimeno il vero senso essere che san Paulo parla del mancamento nell’ufficio del predicare, e dice: «La mia conscienzia non m’accusa d’aver in cosa alcuna mancato; non però ardisco dire d’aver intieramente sodisfatto, ma tutto riservo al divino giudicio».

Chi non avesse veduto le memorie scritte da quei che ebbero parte in queste dispute, e quello che mandarono alla stampa, non crederebbe quanto fosse sopra questo articolo disputato, e con quanto ardore, non solo dalli teologi, ma anco dalli vescovi, parendo a tutti intenderla e aver per sé la veritá; in modo che Santa Croce si vide avere piú bisogno di freno che di sproni, e col frequente procurare di passar ad altro e divertire quella controversia, desiderava metterci fine. Due volte fu proposto in congregazione de’ prelati di tralasciare quella questione, come ambigua, longa e molesta; con tutto ciò vi tornavano, attratti dall’affetto. Pur finalmente il cardinale, col mostrar che si era parlato assai e che conveniva ripensare le cose dette per risolversene piú maturamente, ottenne che si parlasse delle opere preparatorie, e dell’osservanza della legge. Con qual occasione fu introdotta da molti la materia del libero arbitrio; e dal cardinale non fu trascurata, ma propose se pareva bene trattar insieme anco quel particolare, poiché tanto connesso appariva, che non si sapeva come trattarlo separatamente. Adonque furono deputati prelati e teologi a raccogliere li articoli dalle opere de’ luterani per sottoporli alla censura.

Li articoli furono:

I. Dio è total causa delle opere nostre, cosí buone come [p. 331 modifica] cattive, ed è cosí propria opera di Dio la vocazione di Paulo, come l’adulterio di David e la crudeltá di Manlio e il tradimento di Giuda.

II. Nessuno ha potestá di pensar male o bene, ma tutto avviene di necessitá assoluta; e in noi non è libero arbitrio, ma l’asserirlo è una mera finzione.

III. Il libero arbitrio dopo il peccato d’Adamo è perduto, ed è cosa di solo titolo; e mentre fa quello che è in sua potestá, pecca mortalmente, anzi è cosa finta, e titolo senza cosa soggetta.

IV. Il libero arbitrio è solamente nel far il male, ma non ha potestá di far il bene.

V. Il libero arbitrio mosso da Dio non coopera in alcun conto, e segue come un istromento inanimato, o vero un animale irrazionale.

VI. Che Dio converte quei soli che gli piace, ancor che essi non voglino e recalcitrino.

Sopra li due articoli primi si parlò piú in forma tragica che teologica: che la dottrina luterana era una sapienzia frenetica; che la volontá umana, come è formata da loro, sarebbe una mostruositá; che quelle parole, «cosa di solo titolo», o «titolo senza soggetto», sono portentose; che l’opinione è empia e blasfema contro Dio; che la Chiesa l’ha condannata contra li manichei, priscillianisti, e ultimamente contra Abailardo e Vigleffo; che era una pazzia contro il senso comune, esperimentando ogni uomo la propria libertá; che non merita confutazione, ma, come Aristotele dice, o castigo o prova esperimentale; che li medesimi discepoli di Lutero s’erano accorti della pazzia e, moderando l’assorditá, dissero poi esservi libertá nell’uomo in quello che tocca le azioni esterne politiche ed economiche, e quanto ad ogni giustizia civile; le quali è sciocco chi non conosce venir dal conseglio ed elezione, restringendosi a negar la libertá quanto alla sola giustizia divina.

Il Marinaro disse che, sí come il dire nessuna azione umana esser in nostra potestá è cosa sciocca, cosí non è minor pazzia [p. 332 modifica] il dire che ognuna vi sia, esperimentando ognuno di non aver tutti li affetti in propria potestá. E l’istesso esser il senso delle scole che dissero: «nelli primi moti non siamo liberi»: la qual libertá avendo li beati, perché essi hanno dominio anco sopra li primi moti, esser cosa certa che qualche libertá è in loro che non in noi. Il Catarino, seguendo l’opinione sua, che senza special aiuto di Dio non poteva l’uomo operar bene morale, diceva che in questo si poteva dire non essere libertá, e però il quarto articolo non era da dannar cosí facilmente. Il Vega, dopo aver parlato con tanta ambiguitá che esso stesso non s’intendeva, concluse che tra la sentenzia de’ teologi e de’ protestanti non vi era più differenza veruna, perché, concludendo al presente questi una libertá alla giustizia filosofica e non alla soprannaturale, e alle opere esterne della legge, non alle interne e spirituali, tanto precisamente è come dir con la Chiesa che non si può esequire le opere spirituali spettanti alla religione senza l’aiuto di Dio. Se ben egli diceva che si debbe metter ogni studio per la concordia, non però era gratamente sentito, parendo in certo modo pregiudicio che alcuna delle differenze si potesse riconciliare; e costumavano di dire che quell’era cosa da colloqui: voce abominata, come che per quella fosse usurpata da laici l’autoritá che è propria delli concili.

Nacque tra loro una gran disputa: se il credere e non credere sia in potestá umana. Li franciscani lo negavano, seguendo Scoto, qual vuole che sí come dalle demostrazioni per necessitá nasce la scienzia, cosí dalle persuasioni nasca per necessitá la fede; e che essa è nell’intelletto, il qual è agente naturale e mosso naturalmente dall’oggetto. Allegavano l’isperienza che nessun può credere quello che vuole, ma quello che li par vero: soggiongevano che nessun mai sentirebbe il dispiacere, se potesse credere di non averlo. Li dominicani dicevano che niente è piú in potestá della volontá che il credere; e per la sola determinazione e risoluzione della volontá l’uomo può credere che il numero delle stelle sia pari, se cosí vorrá. [p. 333 modifica]

Sopra il terzo articolo, se per il peccato il libero arbitrio si perdette, essendo addotte molte e molte autoritá di sant’Agostino che espressamente lo dicono, né potendosi in altra maniera sfuggire, il Soto inventò il modo, con dire che la vera libertá è equivoca, potendo derivare o vero dal nome «libero» o vero dal verbo «liberare»; che nel primo senso si oppone alla necessitá, e nel secondo si oppone alla servitú; e che quando disse sant’Agostino che il libero arbitrio è perduto, non altro volse inferire se non che è fatto servo del peccato e del diavolo: differenza che non fu penetrata, perché anzi perciò il servo non è libero, perché non può fare la volontá sua, ma è costretto seguir quella del patrone; e secondo quel suo parere non si poteva biasmar Lutero d’aver intitolato un libro: De servo arbitrio.

Il quarto articolo a molti parve sciocco, quali dicevano che libertá s’intende una potestá ad ambidua li contrari, però non si poteva dire che vi sia libertá al male, se non è anco al bene. Ma questi furono fatti riconoscere, con avvertirli che li santi in cielo e li angeli beati sono liberi alla parte solo del bene; però non era inconveniente che altri potessero esser liberi alla sola parte del far male.

NeH’esaminar il quinto e sesto articoli del consenso che il libero arbitrio presta all’inspirazione divina, o vero grazia preveniente, non solo li francescani e dominicani furono di opinione diversa, contendendo quelli che, potendo la volontá da se medesma prepararsi, tanto piú è in sua libertá accettar o rifiutar la divina prevenzione, quando Dio li porge aiuto inanzi che usi le forze della natura; e negando li dominicani che le opere precedenti la vocazione siano veramente preparatorie, e dando perciò sempre il primo luoco a Dio.

Fu nondimeno tra essi dominicani contrasto, defendendo il Soto che, se ben l’uomo non può acquistar la grazia senza l’aiuto speciale di Dio preveniente, nondimeno in certo modo la volontá sempre può contrastarvi e ricusarlo; e quando lo riceve, è perché presta il suo assenso e cosí vuole; se non ci volesse il nostro assenso, non vi sarebbe causa perché tutti [p. 334 modifica] non fossero convertiti: poiché, secondo l’Apocalipsi, Dio sta sempre alla porta e batte; ed è detto de’ Padri, fatto anco volgare, che Dio dá la grazia ad ognuno che la vuole: e perché la Scrittura divina sempre ricerca da noi questo consenso. Che il dir altrementi è levar la libertá della volontá e dire che Dio usi violenza. In contrario dicendo fra’ Aloisio di Catanea che due sorti di grazia preveniente, secondo la dottrina di san Tomaso, Dio operava nell’animo: una sufficiente, l’altra efficace; alla prima può la volontá e consentire e repugnare, ma alla seconda non giá, ché la contradizione non comporta che alla efficacia sia repugnato (allegava per prova luochi di san Giovanni e di san Paulo, ed esposizioni di sant’Agostino molto chiare); rispondeva che appunto di qua nasce che tutti non sono convertiti, perché tutti non sono efficacemente prevenuti; che il timor di offender il libero arbitrio è stato da san Tomaso levato, il qual disse che sono le cose mosse violentemente, quando da causa contraria; ma da causa sua nessuna è mossa per violenza; ed essendo Dio causa della volontá, tanto è che sia mossa da Dio, quanto da se stessa. E condannava, anzi rideva del modo di parlar de’ luterani, che la volontá segue come un inanimato o irrazionale; perché essendo razionale di natura, mossa dalla sua causa che è Dio, è mossa come razionale, e come razionale segue. E similmente che Dio converte, se ben non vogliono o recalcitrano; perché è contradizione che un effetto recalcitri alla sua causa; poter avvenir bene che Dio efficacemente converta uno che altre volte prima alla prevenzione sufficente abbia recalcitrato, ma non che recalcitri allora, essendo consequente alla efficacia della mozione divina una suavitá nella volontá mossa.

Diceva Soto, ogni divina inspirazione per sé sola non esser piú che sufficiente; e quella, a cui il libero arbitrio ha consentito, da quel consenso acquistar l’efficacia; non prestando consenso, restar inefficace, non per difetto suo, ma per difetto dell’uomo. La qual opinione egli difese con gran timiditá, perché l’altro gli opponeva che la distinzione dalli eletti alli reprobi venirebbe dal canto dell’uomo, contra il perpetuo [p. 335 modifica] senso cattolico; che per la grazia sono distinti li vasi della misericordia da quelli dell’ira; che l’elezione divina sarebbe per le opere prevedute e non per il divino beneplacito; che la dottrina dei Padri e delli concili africani e francesi contra pelagiani sempre ha predicato che Dio ci fa volere, il che tanto vuol dire quanto Dio ci fa consentire: per il che, mettendo in noi consenso, convien attribuirlo all’efficacia divina; che non sarebbe piú obbligato a Dio quello che si salva, che quello che resta dannato, se da Dio fossero stati ugualmente trattati. Ma con tutte queste ragioni la contraria opinione ebbe però l’applauso universale, se ben molti confessavano che le ragioni del Cataneo non gli parevano risolute; e dispiaceva loro che il Soto non parlasse liberamente, né dicesse che la volontá consenta in certo modo, e che può in certo modo repugnar: quasi che tra l’affirmazione e negazione vi sia un certo modo intermedio. Li turbava anco il parlar franco del Cataneo e d’altri dominicani, che non sapevano distinguer quella opinione, che attribuisce quella giustificazione al consenso, dalla pelagiana; e che s’avvertisse di non saltar oltra il segno per troppa volontá di condannar Lutero; sopra tutto essendo stimato quell’argomento: che la divina elezione o predestinazione sarebbe per opere prevedute, che nessun teologo admetteva. La qual anco tirò a parlar della predestinazione.

Laonde fu deliberato per la connessione cavar anco li articoli della dottrina de’ protestanti in questa materia. Nelle opere di Lutero, nella confessione augustana e nelle apologie e colloqui non fu trovata cosa da censurare, ma ben molte nelli scritti de’ zuingliani, da’ quali furono tratti li seguenti articoli:

I. Della predestinazione e reprobazione non vi è alcuna causa dal canto dell’uomo, ma la sola divina volontá.

IL Li predestinati non possono dannarsi, né li reprobati salvarsi.

III. Li soli eletti e predestinati veramente si giustificano.

IV. Li giustificati sono tenuti per fede a credere di esser nel numero de’ predestinati. [p. 336 modifica]

V. Li giustificati non possono perder la grazia.

VI. Quelli che sono chiamati e non sono del numero de’ predestinati, mai ricevono la grazia.

VII. Il giustificato è tenuto a credere per fede di dover perseverar sino in fine nella giustizia.

VIII. Il giustificato è tenuto a creder per fermo che, cadendo dalla grazia, ritornerá a riceverla.

Nell’esamine degli articoli, nel primo appunto furono diverse le opinioni. Li piú stimati tra i teologi tennero l’articolo esser cattolico, anzi il contrario eretico, perché li buoni scrittori scolastici, san Tomaso, Scoto e la comune cosí sentono, cioè che Dio inanzi la fabbrica del mondo da tutta la massa del genere umano, per sola e mera sua misericordia, ha eletto soli alcuni alla gloria, a’ quali ha preparato efficacemente li mezzi per ottenerla, che si chiama «predestinare»; che il numero di questi è certo e determinato, né si può aggiungervi alcuno; gli altri che non ha predestinato non possono dolersi, poiché a quelli ancora Dio ha preparato un aiuto sufficiente per questo, se ben in fatti altri che li eletti non vedranno all’effetto della salute. Per principalissima ragione allegavano che san Paulo Alli romani, avendo fatto esemplare Iacob dei predestinati, Esau dei reprobati, produce di ciò il decreto divino prononciato inanzi che nascessero, non per le opere, ma per puro beneplacito. A questo soggiongevano l’esempio del medesimo apostolo, che sí come il vasellaio di una stessa massa di luto fa un vaso ad uso onorevole e l’altro ad infame, cosí Dio della medesma massa degli uomini elegge chi li piace, tralasciati gli altri; e che san Paulo per prova di questo portò il luoco dove Dio disse a Mosé: «Userò misericordia a chi averò fatto misericordia, e userò pietá a chi averò avuto pietá»; e concluse esso l’apostolo che per ciò non è di chi vuole, né di chi corre, ma di chi Dio ha compassione, soggiongendo dopo che Dio ha misericordia di chi vuole, e indura chi vuole. Dicevano in oltre che per questo rispetto il conseglio della divina predestinazione e reprobazione è chiamato dal medesimo apostolo altezza e profonditá [p. 337 modifica] di sapienza impenetrabile e incomprensibile. Aggiongevano luochi delle altre Pistole, dove dice che niente abbiamo se non ricevuto da Dio, che non siamo da noi sufficienti manco a pensar il bene; e dove, rendendo la causa perché alcuni si rivoltano dalla fede, restando altri fermi, quella disse essere perché sta fermo il fondamento di Dio, quale ha questo sigillo, cioè: «il Signore conosce li suoi». Aggiongevano diversi passi dell’Evangelio di san Gioanni, e autoritá di sant’Agostino innumerabili, perché quel santo in sua vecchiezza non scrisse altro che a favor di questa dottrina.

Ma alcuni altri, se ben meno stimati, a questa opinione si opponevano, intitolandola dura, crudele, inumana, orribile ed empia, come quella che mostrasse parzialitá in Dio, se senza alcuna causa motiva eleggesse l’uno ripudiando l’altro; e ingiusta, se destinasse alla dannazione gli uomini per propria volontá, non per loro colpe, e avesse creato una tanta moltitudine per dannarla. Dicevano che distrugge il libero arbitrio, poiché li eletti non potrebbono finalmente far male, né li reprobi bene; che mette gli uomini nell’abisso della desperazione, col dubbio che possino esser reprobati; che dá ansa alli perversi di operar sempre male, non curando di penitenzia, col pensare che se sono degli eletti, non periranno, se dei reprobi, è vano far bene, ché non li gioverá. Confessavano che non solo le opere non sono causa della divina elezione, perché quella, come eterna, è inanzi loro; ma che né anco le opere prevedute possono mover Dio a predestinare; ma che per sua infinita misericordia vuole che tutti si salvino, e a tutti prepara aiuti sufficienti a questo fine, li quali ciascun uomo, essendo di libero arbitrio, o riceve o rifiuta secondo che piú li piace; e Dio nella sua eternitá prevede quei che riceveranno li aiuti e se ne valeranno in bene, e quei che li ricuseranno; e questi reproba, quelli elegge e predestina. Aggiongevano che altrimenti non si può veder la causa perché Dio si doglia nella Scrittura delli peccatori, né perché esorti tutti alla penitenzia e conversione, se non li dá delli efficaci mezzi per acquistarle; che quell’aiuto sufficiente, dagli altri [p. 338 modifica] inventato, è insufficiente, poiché non ha mai avuto, secondo loro, né è per aver effetto alcuno.

La prima opinione sí come ha del misterioso e arcano, tenendo la mente umile e rassignata in Dio, senza alcuna confidenza in se stessa, conoscente la deformitá del peccato e l’eccellenza della grazia divina, cosí questa seconda era plausibile, popolare, a fomento della prosonzione umana e accomodata alla apparenza; aggradiva alli frati professori dell’arte di predicare, piuttosto che di scienzia di teologia, e alli cortegiani appariva probabile, come consenziente alle ragioni politiche: era sostentata dal vescovo di Bitonto, e quello di Salpi se ne fece molto parziale. Li defensori di questa usando le ragioni umane prevalevano gli altri, ma venendo alli testimoni della Scrittura soccombevano manifestamente.

Il Catarino, tenendo il parer medesmo, per risolvere li luochi della Scrittura che mettevano tutti in travaglio, inventò una media opinione: che Dio per sua bontá ha eletto alcuni pochissimi fuor degli altri, quali vuole onninamente salvare e a’ quali ha preparato mezzi potentissimi, efficacissimi e infallibili; gli altri tutti quanto a sé vuole che siano salvi, e a questo effetto ha apparecchiato a tutti mezzi sufficenti, restando in loro libertá l’accettarli e salvarsi, o vero, rifiutandogli, dannarsi; e di questi esser alcuni che li ricevono e si salvano, se ben non sono degli eletti, e di questi il numero è assai grande; gli altri che ricusano cooperare a Dio, quale li vuole salvi, restano dannati. La causa della predestinazione delti primi esser la sola divina volontá; degli altri l’accettazione e buon uso e cooperazione al divino aiuto prevedute da Dio; e della reprobazione degli ultimi causa esser la previsione della loro perversa volontá in rifiutarlo o abusarlo. Che san Gioanni e san Paulo, e tutti li luochi della Scrittura allegati per l’altra parte, dove tutto è dato a Dio e mostrano infallibilitá, s’intendono solamente delli primi e singolarmente privilegiati; e quanto agli altri, a chi è apparecchiata la via comune, si verificano le ammonizioni ed esortazioni e generali aiuti; quali chiunque vuole udire e seguire si salva; e chi non vuole, per [p. 339 modifica] propria colpa perisce. Di quei pochi, oltre il comune privilegiati, esser il numero determinato e certo appresso Dio; di quelli altri, che per via comune si salvano, come dependente dalla libertá umana, non esser da Dio determinato, se non attesa la previsione delle opere di ciascuno. Diceva il Catarino maravigliarsi molto della stupiditá di quelli che dicono esser certo e determinato il numero, e nondimeno aggiongono che gli altri possino salvarsi; che tanto è dire esser un numero determinato, il qual però può crescere; e parimente di quelli che dicono li reprobati aver un aiuto sufficiente per la salute, essendo però necessario a chi si salva averne un maggiore, che è dire un sufficiente insufficiente.

Aggiongeva che l’opinione di sant’Agostino sia inaudita inanzi a lui; che esso medesmo confessa non si troverá nelle opere d’alcuno che abbia scritto inanzi li tempi suoi; che egli stesso non sempre l’ebbe per vera, anzi ascrisse la causa della divina volontá alli meriti, dicendo: «Dio compassiona chi gli piace e indura chi egli vuole»; ma quella volontá di Dio non può esser ingiusta, imperocché viene da occultissimi meriti; e che nelli peccatori vi è diversitá, e ve ne sono di quelli che, quantonque non giustificati, sono degni della giustificazione: se ben dopo, il calor del disputar contr’a’ pelagiani lo trasportò a parlare e sentir il contrario; ma però in quei tempi stessi, quando fu udita la sua sentenzia, tutti li cattolici restarono scandalezzati, come san Prospero li scrisse. E Gennadio massiliense cinquant’anni dopo, nel giudicio che fa delli scrittori illustri, dice esserli avvenuto secondo il detto di Salomone, che nel troppo parlare non si può fuggir il peccato, e che per il fallo suo esagerato dagl’inimici non era ancora nata quistione che partorisse eresia; quasi accennando quel buon padre il suo timore di quello che ora si vede, cioè che per quella opinione sorga qualche setta e divisione.

La censura del secondo articolo fu varia e consequente alle tre opinioni narrate. Il Catarino aveva la prima parte per vera, attesa l’efficacia della divina volontá verso li singolarmente favoriti; ma la seconda falsa, attesa la sufficienza [p. 340 modifica] dell’aiuto divino a tutti, e la libertá umana in cooperarvi. Gli altri, che ascrivevano la causa della predestinazione in tutti al consenso umano, condannavano l’articolo tutto intiero e quanto ad ambedue le parti: ma gli aderenti alla sentenzia di sant’Agostino e comune de’ teologi, lo distinguevano che in senso composito fosse vero e in senso diviso dannabile: sottilitá che confondeva la mente alli prelati. E da chi la diceva se ben esemplificata con dire: «Chi si muove non può star fermo, in senso composito è vero, perché s’intende mentre che si muove; ma in senso diviso è falso, cioè in un altro tempo», non era ben intesa; perché, applicando al proposito, non si può dire: il predestinato si può dannare in un tempo che non sia predestinato, poiché è sempre tale: e generalmente il senso diviso non ha luoco, dove l’accidente è inseparabile dal soggetto. Per tanto credevano altri dichiarare meglio, dicendo che Dio regge e move ciascuna cosa secondo natura propria, la qual nelle cose contingenti è libera, e tale che insieme con l’atto sta la potestá all’opposito; onde insieme con l’atto di predestinazione sta la potestá alla reprobazione e dannazione. Ma questo era meno inteso che il primo.

Li altri articoli furono censurati con mirabile concordia. Per il terzo e sesto, asserendo esser stata perpetua opinione nella Chiesa che molti ricevono e conservano la grazia divina per qualche tempo, li quali poi la perdono e in fine si dannano, era allegato l’esempio di Saul, di Salomone e di Giuda, uno delli dodici; caso piú di tutti evidente per le parole di Cristo al Padre: «Ho custodito in tuo nome quelli che mi hai dato, de’ quali non è perito se non il figlio del perdimento». Aggiongevano a questi Nicolò, uno delli sette diaconi, e altri nella Scrittura prima commendati e poi biasmati; e per complemento d’ogni ragione il caso di Lucifero. Contra il sesto particolarmente consideravano che quella vocazione sarebbe una derisione empia, quando chiamati, e niente mancando dal canto loro, non fossero admessi; che li sacramenti per loro non sarebbono efficaci: cose tutte piene di assurditá. Ma per censura del quinto si portava l’autoritá del Profeta [p. 341 modifica] appunto contraria in termini, dicendo Dio: «Se il giusto abbandonerá la giustizia e commetterá iniquitá, non mi raccorderò li suoi benefatti». S’aggiongeva l’esempio di David, che commise l’omicidio e adulterio, di Maddalena, e di san Pietro che negò Cristo; si ridevano della inezia de’ zuingliani, che dicessero insieme il giustificato non poter perder la grazia e in ogni opera peccare. Li due ultimi furono dannati di temeritá concordemente, con eccezione di quelli a chi Dio ha fatto special revelazione, come a Moisé e alli discepoli, a’ quali fu revelato come erano scritti nel libro del cielo.

Finito l’esamine de’ teologi sopra il libero arbitrio e predestinazione, e formati anco li anatematismi in quelle materie, furono aggregati a quei della giustificazione alli luochi opportuni; a’ quali era opposto da chi in una parte, da chi in un’altra, dove pareva che vi fosse qualche parola che pregiudicasse all’opinione propria. Ma Giacomo Coco, arcivescovo di Corfú, considerò che dalli teologi erano censurati gli articoli con molte limitazioni e ampliazioni, le quali conveniva inferire negli anatematismi, acciò non si dannasse assolutamente proposizione la quale potesse ricever buon senso, massime stante il debito dell’umanitá di ricever sempre l’interpretazione piú benigna, e quello della caritá di non pensar male. Fu da diversi contradetto, prima per l’uso d’antichi concili, quali hanno dannato le proposizioni eretiche senza limitazione e nude, come sono dagli eretici asserite, e massime che in materia di fede, per condannar un articolo, basta abbia un senso falso che possi indur in errore l’incauti. Parevano ambedue le opinioni ragionevoli: la prima, perché era giusto che si sapesse che senso era dannato; la seconda, perché non era dignitá del concilio limitar le proposizioni degli eretici. S’aggiongeva a questo che tutti li canoni erano composti recitando l’opinione dannabile e soggiongendo per causa della condanna li luochi della Scrittura o dottrina della Chiesa alla quale s’oppone, pigliata la forma dal concilio di Oranges, e a similitudine di quei del peccato originale nella sessione precedente. Ma riuscendo nella maggior parte la lezione longa [p. 342 modifica] e tediosa, e la mistura di veritá con falsitá insieme, e delle cose reprobate con le approbate, non facilmente intelligibile, raccordò opportunamente il Sinigaglia rimedio ad ambidue li inconvenienti, che era molto meglio separar la dottrina cattolica dalla contraria e far due decreti: in uno, tutto continuatamente dechiarar e confermar il senso della Chiesa, nell’altro dannar e anatemizzare il contrario. Piacque a tutti il raccordo, e cosí fu deliberato; e prima formati li anatematismi separatamente, e poi data opera a formar l’altro decreto, chiamarono questo il decreto della dottrina, e quello li canoni: il qual stilo fu poi seguito anco nella seconda e terza riduzione del concilio.

S’affaticò sopra ogni credenza il Santa Croce per formar quei decreti, con evitare quanto fu possibile d’inserirvi alcuna delle cose controverse tra scolastici; e quelle che non potè tralasciare, toccandole in tal maniera che ognuno restasse contento. In ogni congregazione che si faceva, avvertiva tutto quello che da alcuno non era approvato, e lo levava, o vero racconciava secondo l’avviso, e non solo nelle congregazioni, ma con ciascuno in particolare parlava, intendeva li dubbi di tutti, e li pareri ricercava: variò con diversi ordini la materia, mutò ora una parte, ora un’altra, intanto che li ridusse nella forma nella quale sono, che a tutti piacque e da tutti fu approvata. Certo è che sopra queste materie furono tenute congregazioni parte de teologi, parte de prelati al numero di cento, e che dal principio di settembre sino alla fine di novembre non passò giorno che il cardinale non mettesse mano in quello che prima era scritto, e non facesse qualche mutazione. Ebbe avvertenza anco a cose minime. Resta la memoria delle mutazioni; de quali ne raccontarò qui due, come per saggio delle molte che sarebbe noioso rammemorare.

Nel primo capo della dottrina, con assenso comune fu prima scritto che né li gentili per virtú della natura, né li giudei per la legge di Moisé potevano liberarsi dal peccato; e perché tenevano molti che la circoncisione rimettesse li [p. 343 modifica] peccati, presero sospetto che quelle parole potessero pregiudicare l’opinione loro, quantonque in piú di un luoco san Paulo in termini formali abbia detto l’istesso. Per sodisfarli, il Cardinal, in luoco che diceva: Per ipsam etiam legem Moysi, mutò e disse: Per ipsam etiam litteram legis Moysi; ed ogni mediocre intendente della teologia può da sé giudicare quanto bene quella voce (litteram) convenga in quel luoco. E nel principio dell’ottavo capo non si contentarono quei della certezza della grazia che si dicesse li peccati non esser rimessi all’uomo per la certezza della remissione e perché si confidi in quella. E il cardinale li sodisfece, escludendo la certezza reale e constituendo in luoco di quella la iattanza e la confidenza in quella sola. E in fine del capo può ognuno chiaramente vedere che la causa doveva esser resa con dire: «perché nessun può saper certamente d’aver acquistata la grazia di Dio»; ma per sodisfazione d’una parte convenne aggiongere, «con certezza di fede»; né bastando questo alli dominicani, instarono che s’aggiongesse «cattolica». Ma li aderenti al Catarino non contentandosi, in luoco di quelle parole «fede cattolica» si disse: «fede, la quale non può sottoiacer a falsitá». Il qual modo contentò ambe le parti; perché li uni inferivano: adonque quella certezza di fede che si può aver in ciò, può esser falsa e pertanto incerta; gli altri inferivano che tal certezza non può aver dubbio di falsitá per quel tempo che si tiene; ma per la mutazione che può avvenire, passando da stato di grazia a quello di peccato, può diventar falsa, sí come tutte le veritá di presente contingenti, ancorché certissime e indubitatissime, con la mutazione delle cose soggette diventano false: ma la fede cattolica è non solo certa, ma anco immutabile, per aver soggette cose necessarie o passate che non ricevono mutazione.

E veramente, considerando questi particolari, convien non defraudar il cardinale della lode meritata, che sapesse dar sodisfazione anco alli pertinaci in contrarie opinioni; e quei che vorranno rendersi di ciò maggiormente certificati doveranno saper che immediate dopo la sessione fra’ Dominico Soto, principale tra li dominicani, si diede a scrivere tre libri, che [p. 344 modifica] intitolò De natura et gratia, per comentari di questa dottrina; e con le sue esposizioni vi trovo dentro tutte le opinioni sue. E uscita questa opera, fra’ Andrea Vega, piú stimato tra li francescani, diede in luce esso ancora quindici gran libri per commentari sopra li sedici capi di quel decreto, e lo interpretò tutto secondo l’opinione propria; le qual due opinioni non solo hanno tra loro gran diversitá quasi in tutti gli articoli, ma in molti espressa ed evidente contrarietá. E ambidua queste opere si viddero stampate l’anno 1548; e chi le leggerá, osservando che molto spesso danno alle parole del concilio sensi alternativi e dubbiosi, si maraviglierá come questi doi soggetti, li primi di dottrina e stima, che piú degli altri ebbero parte in quello, non fossero consci dell’unico senso e vero scopo della sinodo: del quale avendo anco parlato diversamente quei pochi degli interessati che dopo hanno scritto, non ho mai potuto penetrare se quell’adunanza convenisse in un senso, o pur vi fosse una sola unitá di parole. Ma tornando al cardinale, come il decreto fu approbato da tutti in Trento, lo mandò al pontefice, che lo diede a consultare alli frati e altri letterati di Roma; e da tutti fu approvato, per la medesima ragione che ognuno lo potè intendere secondo il proprio senso.

Ho narrato tutto insieme quello che fu maneggiato in materia di fede, per non dividere le cose congionte: ma tra tanto qualche giorni fu anco trattato della riforma, e in quelle congregazioni fu proposto di statuir le qualitá requisite nella promozione de’ prelati maggiori e altri ministri della Chiesa. E furono dette gravissime sentenze con grande apparato; ma il modo d’introdurne l’osservanza non si trovò, perché dove li re hanno la presentazione, non si vedeva con che legami astringerli; dove l’elezione ha ancora luoco, li capitoli sono di persone grandi e potenti: quanto al rimanente, tutte le prelature sono di collazione del papa, e gli altri benefici per piú di due terzi riservati alla sede apostolica, alla quale non è conveniente dare legge; onde dopo molti e longhi discorsi si concluse meglio esser il tralasciar questa considerazione. [p. 345 modifica]

Non furono manco in numero né piú brevi li ragionamenti in materia della residenza, li quali, se ben non terminarono in quella risoluzione che era necessaria e desiderata da molti, nondimeno ebbero in questo tempo qualche confusione e prepararono materia ad altri. Per intelligenza delle qual cose è necessario ripigliar questa materia dal suo principio.

Li gradi ecclesiastici non furono nell’origine loro instituiti come dignitá, preeminenze, premi o vero onori, siccome oggidí e da molte centinara d’anni li vediamo, ma come ministeri, carichi, detti con un altro nome da san Paulo «opere», e da Cristo nostro Signore nell’Evangelio «operarii»: però non poteva allora entrar in pensiero ad alcuno di esentarsi dall’esequirli in persona propria; e se pur uno (il che rare volte occorreva) dall’opera si retirava, non vi era ragione che titolo o emolumento alcuno li restasse. E quantonque fossero li ministeri di due sorti: alcuni che anticamente chiamavano «del verbo», e al presente si dice «di cura d’anime»; e altri delle cose temporali per il vitto e servizio de poveri e infermi, come erano le diaconie e altre subalterne opere, ugualmente tutti si tenevano ubbligati a quel servizio in propria persona, né mai alcuno averebbe pensato di servir per sostituto, salvo che in brevissimo tempo per urgenti impedimenti; né meno averebbe preso un altro carico che fosse d’impedimento a quello. Aumentata la Chiesa, dove il populo cristiano era numeroso e libero dalle persecuzioni, altra sorte di ministri fu instituita per servir nelle adunanze ecclesiastiche, cosí nel leggere le divine Scritture, come in altre funzioni, a fine di eccitar la devozione. Furono anco instituiti collegi de ministri, che in comune attendessero ad alcun carico, e altri, come seminari, di onde cavare ministri giá instrutti. Questi delli collegi, non avendo carico personale, poiché la congregazione tanto amministrava con un piú come con un meno, alle volte o per causa di studio, o di maggior instruzione, o per altra, restavano assenti dalla chiesa, chi per breve, chi per longo tempo, non però tenendo titolo né carico alcuno, né meno [p. 346 modifica] ricevendo alcun emolumento. Cosí san Gerolemo, prete antiocheno, ma senza cura particolare, e Ruffino d’Aquileia al modo stesso, e san Paulino ordinato prete di [Barcellona], poco risedettero. Cresciuto poi il numero di questi, degenerò in abuso, e li fu dato nome di clerici vagabondi, perché erano fatti, con quel modo di vivere, odiosi; de’ quali spesso si parla nelle Leggi e Novelle di Giustiniano; non però mai fu pensato di tener il titolo d’un ufficio e goderne gli emolumenti non servendo, se non dopo il Settecento nella chiesa occidentale, quando li ministeri ecclesiastici hanno mutato stato, e sono fatti gradi di dignitá e onori, e anco premi per servizi prestati. E sí come giá nelle promozioni ecclesiastiche, considerato il bisogno della Chiesa, si provvedeva di persona atta a quel ministerio, cosí dopo, considerate le qualitá della persona, si provvede di grado, dignitá o emolumento che gli convenga: dal che è nato l’esercitar l’opera e il ministerio per sostituto. Questo abuso introdotto, ha tirato per conseguenza un altro seco, cioè riputarsi disubbligato non solo di ministrare, ma anco di star presente e assistere a quello che opera in suo luoco. E veramente, dove non è eletta la industria della persona per l’opera, ma è provvisto di luoco e grado alla persona, non è ragione che sia astretta ad operare per se stessa, né assistere all’operante.

Il disordine era tanto innanzi passato, che averebbe destrutto l’ordine clericale, se li pontefici romani non avessero in parte ovviato, comandando che li prelati e altri curati, quantonque per sostituti esercitassero il carico, fossero nondimeno tenuti all’assistenza del luoco, che chiamarono «residenza». Al che anco volsero ubbligare li canonici, non constringendo a questo gli altri chierici beneficiati, né di loro parlando, ma lasciandogli alla consuetudine, anzi abuso introdotto; dal qual silenzio nacque che si riputarono disubbligati: né alli pontefici dispiacque quel volontario inganno, ben vedendo che terminerebbe in grandezza della loro corte. E di qui venne la perniciosa e non mai abbastanza detestanda distinzione di benefici di residenza e di non residenza, la quale è seguita cosí nella dottrina come [p. 347 modifica] l’opera, senza nessun rossore dell’assurditá che seco apertamente porta, cioè che sia dato titolo e salario senza obbligazione. E per palliarla, anzi piuttosto farla apparire piú vergognosa, avendo li canonisti una massima che convince l’assurditá, cioè «ogni beneficio è dato per ufficio», l’hanno esposta intendendo per ufficio le preci orarie del breviario, sí che sia data un’entrata di mille, di dieci mille e piú scudi per questo solo, acciò si pigli in mano un breviario e legga con quanta velocitá può la lingua in sommessa voce, senza attender anco ad altro che alla prononcia delle parole. Ma la distinzione delli dottori e la provvisione delli pontefici romani aumentarono in poco tempo l’abuso, imperocché senza di quelle alcuno pur delli beneficiati semplici si sarebbe fatto conscienza, che con quelle ognuno ha giustificato l’abuso per cosa lecita. E quanto alli curati, introdusse la dispensa pontificia, non mai negata a chi la ricerca in quel modo che fa impetrar ogni cosa a Roma; onde li soli poveri, e quelli che ne ricevevano comodo, risedevano; e l’abuso, prima in minima parte per leggi pontificie rimediato, per le dispense non solo salí al colmo, ma si sparse anco fuori, infettando la terra.

Dopo li moti della Germania nella religione, che diedero occasione di parlare e desiderar riforma, ascrivendo ognuno il male alla negligenza e poca cura dei prelati, e desiderando vederli al governo delle chiese, detestando le dispense, cause dell’assenza, furono introdotti discorsi dell’ubbligazione loro; e alcuni uomini pii, tra’ quali fra’ Tomaso Gaetano cardinale, affermarono l’obbligo della residenza esser di legge divina: e avvenne, come in tutte le cose occorre, che la passione precedente persuadé l’opinione piú rigida e l’obbligazione piú stretta e la disubbligazione piú difficile; quest’era dandogli vigor di legge divina. Li prelati, vedendo il male, ma desiderando che fosse iscusabile e di colpa leggiera, si diedero all’opinione che non da Dio, ma dal pontefice erano ubbligati, imperocché cosí la dispensa o la taciturnitá del papa li salvava. Con queste previe disposizioni di dottrina fu nel concilio proposta la materia, come si è detto; la quale perché [p. 348 modifica] partorí controversia nel principio non molto grave, ma in progresso maggiore, e nel fine (che fu negli anni 1562 e 1563) grandissima, non è stato fuori di proposito questa recapitolazione, né sará il raccontare qualche particolari occorsi.

Adonque, se ben li articoli primieramente proposti non furono se non di stringere maggiormente li precetti, aggiongerci pene e levar li impedimenti e facilitar l’esecuzione (e tutti concordavano, allegando persuasioni cavate dalla Scrittura del novo e vecchio Testamento, e da canoni de’ concili e dottrina de’ Padri, e anco dalli inconvenienti che dal non resedere erano nati), nondimeno la maggior parte delli teologi, e li dominicani massime, passarono a determinare che l’obbligazione fosse per legge divina. Frate Bartolomeo Carranza e fra’ Dominico Soto spagnoli erano autori principali. Le ragioni piú fondate che adducevano furono perché il vescovato era instituito da Cristo come ministerio e opera, adonque ricerca azione personale, che non può far l’assente; che Cristo descrivendo le qualitá del buon pastore, dice che mette la vita per il gregge, conosce le pecorelle per nome e cammina innanzi loro. Dall’altra li canonisti e li prelati italiani disputavano che l’obbligo fosse per legge ecclesiastica, allegando che mai si troverá degli antichi alcuno non residente represo come transgressore della divina legge, ma solo delli canoni. Che Timoteo, se ben vescovo efesino, piú tempo fu in viaggio per ordine di san Paulo; che a san Pietro è detto che pasca le agnelle, il che s’intende di tutte, e pur non può esser per tutto presente: cosí può il vescovo adempir il precetto di pascere senza risedere. Rispondevano anco alle ragioni contrarie, dicendo che le condizioni del pastore da Cristo proposte non convengono ad altro che a lui proprio.

Fra’ Ambrosio Catarino, se ben dominicano, era contrario agli altri: diceva che il vescovato qual’è instituzione di Cristo è un solo, quello che ha il papa; degli altri l’instituzione è del pontefice, il quale sí come gli parte la qualitá e numero delle pecorelle da pascere, cosí gli prescrive anco il modo e la qualitá. Per il che al papa sta ordinare a ciascun vescovo [p. 349 modifica] che per se stesso o per sostituto attenda al gregge, sí come glielo può assegnare e molto e poco, e privarlo anco della potestá del pascere. Tomaso Campegio, vescovo di Feltre, respondeva in un altro modo: che il vescovo, come san Geronimo testifica, è instituzione di Cristo, ma la divisione de’ vescovati fu instituita dopo dalla Chiesa; che Cristo a tutti gli apostoli diede cura di pascere, ma non li legò ad un luoco, come anco le azioni apostoliche e delli discepoli loro mostrano; l’aver assegnato questa porzione del gregge ad uno e quella all’altro fu instituzione ecclesiastica per meglio governare.

Queste cose furono trattate con assai passione tra li vescovi. Li spagnuoli non solo aderivano, ma anco fomentavano e incitavano li teologi de iure divino, avendo un arcano che tra loro soli comunicavano, di aggrandir l’autoritá episcopale; imperocché se una volta fosse deciso che da Cristo avessero la cura di reggere la loro Chiesa, resterebbe anco deciso che da lui hanno l’autoritá per ciò necessaria, né il papa potrebbe restringerla. Questi disegni erano subodorati dalli aderenti alla corte: però, attesa l’importanza della cosa, essi ancora facevano animo alli difensori della contraria. Li legati giudicavano meglio ovviare al pericolo, mostrando di non accorgersi: e a questo fine mirando, per allora dissero che la materia era difficile e aveva bisogno di maggior esame; per il che, dove le cose sono controverse tra li stessi cattolici, non è da venire a decisione che danni una parte, per non far scisma, e a fine di non seminar contenzioni, per poter unitamente attendere a condannar li luterani: però ad un’altra sessione era meglio differire la dichiarazione quo iure sia debita. Ad alcuni pareva che bastasse renovar li canoni e decretali vecchi in questa materia, dicendo che sono assai severi, avendo la pena di privazione, e anco ragionevoli, ammettendo le legittime scuse; restava trovar via che non fossero concesse dispense; e tanto era bastante. Altri sentivano che era necessario eccitarlo con nove pene e attendere a levare li impedimenti che piú importava; poiché, quelli levati, sarebbe la [p. 350 modifica] residenza seguita; e poco rilevava di onde l’obbligo venisse, purché fosse esequito; che, fatto questo, s’averebbe potuto discuter meglio la materia. Alla maggior parte piacque che si facesse l’uno e l’altro; a che consentirono li legati con questo, che delle dispense non si parlasse; ma per far sí che non fossero richieste, si levassero li impedimenti che provengono per le esenzioni: nel che non vi fu meno che dire e che contendere tra quelli che tenevano ogni esenzione per abuso e quelli che l’avevano per necessaria nella Chiesa, reprobando solamente gli eccessi.

Testifica san Geronimo che nelli primi principi del cristianesimo le chiese erano come in aristocrazia, rette per il comune conseglio del presbiterio; e a fine di ovviare alle divisioni che s’introducevano, fu instituito il governo monarchico, dando tutta la sopraintendenza al vescovo, al quale tutti gli ordini della Chiesa ubidivano, senza che venisse ad alcuno piú pensiero di sottrarsi da quel governo. I vescovi vicini, le chiese de’ quali, per esser sotto l’istessa provincia, avevano insieme commercio, essi ancora per sinodi si reggevano in comune; e per facilitar piú il governo, attribuendo molto a quello della cittá principale, li deferivano come a capo di quel corpo; e per la comunione piú ampia, che tutte le provincie d’una prefettura tenevano insieme, il vescovo della cittá dove il prefetto risedeva acquistò certa superioritá per consuetudine; queste prefetture essendo la cittá imperiale di Roma con le cittá suburbicarie, e la prefettura di Alessandria che reggeva l’Egitto, Libia e Pentapoli, d’Antiochia per la Soria e altre provincie di Oriente. E in altre minori prefetture, in greco chiamate eparchie, l’istesso era servato. Questo governo, introdotto e approvato dalla sola consuetudine, che lo trovò utile, fu stabilito dal primo concilio niceno sotto Constantino, e per canone ordinato che si continuasse; e tanto era lontano ciascuno dall’esimersi fuori dell’ordine, che avendo il vescovo di Gerusalem molte onorevoli preeminenze, forse per esser luoco dove Cristo nostro Signore conversò in carne mortale e fu origine della religione, il concilio niceno ordinò che [p. 351 modifica] quelle onorevolezze avessero luoco, ma in maniera che non fosse niente detratto della superioritá del metropolitano, che era il vescovo di Cesarea. Questo governo, che nelle chiese orientali sempre è stato osservato, nella latina prese alterazione, con occasione che, essendo fabbricati numerosi e gran monasteri retti da abbati di gran fama e valore, che per le virtú loro conspicue facevano ombra alli vescovi, nacque qualche gara tra questi e quelli; e li abbati, per liberarsi da quelli incomodi o reali o finti, per coprir l’ambizione di sottrarsi dalla soggezione debita, impetrarono dalli pontefici romani d’essere ricevuti sotto la protezione di san Pietro, e immediate sotto la soggezione pontificia. Il che tornando molto a conto alla corte romana (poiché chi ottiene privilegi, per conservarseli è ubbligato di sostentare l’autoritá del concedente), presto presto tutti li monasteri furono esentati. Li capitoli ancora delle cattedrali, essendo per la maggior parte regolari, con li medesmi pretesti impetrarono esenzione. Finalmente le congregazioni cluniacense e cistercense tutte intiere si esentarono, con grande aumento dell’autoritá pontificia, la qual veniva ad aver sudditi propri in ciascun luoco, difesi e protetti dal papato, e scambievolmente defensori e protettori. Da san Bernardo, che fu in quel tempo e in congregazione cistercense, non fu lodata l’invenzione, anzi ammoni di ciò Eugenio III pontefice a considerare che tutti erano abusi, né si doveva aver per bene se un abbate ricusava soggiacer al vescovo, e il vescovo al metropolitano; che la Chiesa militante debbe pigliar esempio dalla trionfante, dove mai nessun angelo disse: «Non voglio esser sotto l’Arcangelo». Ma piú averebbe detto, quando fosse vissuto in tempi posteriori; imperocché dopo li ordini de’ mendicanti passarono piú oltre, avendo non solo ottenuto esenzione onnimoda dall’autoritá episcopale generalmente dovunque fossero, ma anco facoltá di fabbricar chiese in qualonque luoco, e in quelle anco ministrar li sacramenti. Ma in questi ultimi secoli s’era tanto inanzi proceduto, che ogni prete privato con poca spesa si impetrava una esenzione dalla superioritá del suo vescovo, non solo nelle cause di [p. 352 modifica] correzione, ma anco per poter esser ordinato da chi li piaceva, e in somma di non riconoscere il vescovo in alcuno conto.

Questo essendo lo stato delle cose, e richiedendo li vescovi rimedio, di loro alcuni piú veementi ritornavano alle cose dette nelle congregazioni precedenti l’altra sessione contra le esenzioni de’ frati; ma li piú prudenti, avendo ciò per tentativo impossibile da ottenere, stante il numero e grandezza degli ordini regolari e il favore della corte, si contentarono di levar quelle delli capitoli e persone particolari, e dimandarono che fossero revocate tutte. Ma li legati, con uffici particolari considerandogli che non tutta la riforma si poteva per quella sessione ordinare, che conveniva dare principio e lasciar anco la parte sua alli tempi seguenti, li fecero star contenti di levar esenzione solo nelle cause criminali alli preti particolari e frati abitanti fuori del chiostro e alli capitoli, come quelle di onde vengono inconvenienti maggiori; e le facoltá di dar li ordini clericali a chi non risiede nella propria diocesi; con promissione che si seguirebbe a provveder gli altri abusi nell’altra sessione.