Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo VII

Libro secondo - Capitolo VII (settembre 1546 - gennaio 1547)

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Libro secondo - Capitolo VII (settembre 1546 - gennaio 1547)
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CAPITOLO VII

(settembre 1546-gennaio 1547).

[Richiamo da Ratisbona del cardinale Farnese. — Vittoriosa campagna sul Danubio contro la lega smalcaldica. — La Germania meridionale si sottomette a Carlo V, che largheggia con essa in concessioni religiose. — Si riaccende il dissidio fra il papa e l’imperatore: rifiuto di rinnovare la lega e ritiro delle truppe papali. — Sesta sessione del concilio: decreto dogmatico sulla giustificazione, e di riforma sulla residenza. — Consensi e critiche suscitati da questi decreti. — Ambiguitá di linguaggio usata in concilio e sue conseguenze; ancora del contrasto fra il Soto e il Catarino sulla certezza della grazia. — Per la sessione seguente si fa oggetto di trattazione dogmatica la dottrina dei sacramenti; per la riforma, gli abusi nel ministero di essi, ancora la residenza e la pluralitá dei benefici. — Il cardinale del Monte s’oppone agli spagnoli, che vorrebbero dichiarato il dovere di residenza de iure divino.]

Mentre in Trento queste cose si trattano, il papa, ricevuto l’avviso dal Cardinal Farnese, e considerato con quanto poca sua riputazione un legato apostolico stava in Ratisbona mentre le sue genti erano in campo, lo richiamò: con lui parti un buon numero di gentiluomini italiani della gente pontificia. Al mezzo d’ottobre li due eserciti si ritrovarono a Sunthen tanto vicini, che solo un picciol fiume era in mezzo tra loro; e cosí stando, Ottavio Farnese, mandato da Cesare con le genti italiane e con altri tedeschi aggiontili, prese Donavert quasi su gli occhi dell’esercito nimico. Il quale, non avendo fatto alcuna impresa mentre si era trattenuto in Svevia, se non tener l’imperatore impedito, al novembre fu costretto abbandonar quel paese, per una gran diversione fatta dalli boemi e altri della fazione imperiale contra la Sassonia e Assia, luochi delli doi capi protestanti, che si ritirarono alla [p. 354 modifica] difesa delle cose proprie, lasciando la Germania superiore a descrezione di Cesare. E fu causa che alcuni principi e molte delle cittá collegate inclinarono ad accomodarsi con lui, avendo onesta cauzione di tener la loro religione. Ma egli non volle che in scritto se ne facesse menzione, a fine che non paresse la guerra fatta per quella causa; ché sarebbe stato un offender quelli delli suoi che lo seguivano, difficoltare la dedizione degli altri e insospettire anco li ecclesiastici di Germania, che speravano veder restituito il rito romano in ogni luoco. Li ministri suoi nondimeno davano parola a tutti che non sarebbono molestati nell’uso della religione, scusando il patrone se per molti rispetti non poteva sodisfarli di farne capitolazione; ed egli operava in maniera che appariva ben chiara la deliberazione sua di contentarli con la connivenza. In queste dedizioni acquistò Cesare numerosa quantitá d’artegliaria, e cavò dalle cittá per ragion di condanna molti denari alla somma di assai centenara di migliara, e, quel che piú di tutto importa, restò assoluto patrone della Germania superiore.

Questa felicitá diede molta gelosia al pontefice e li fece metter pensiero alle cose proprie, prima che tutta Germania fosse posta in obedienza. Le genti sue sotto il nepote Ottavio erano molto diminuite in numero, per li giá partiti col Cardinal Farnese e per altri fuggiti alla sfilata per li disagi: quel rimanente, al mezzo di decembre, ritrovandosi l’esercito imperiale alloggiato vicino alla villa di Sunthen, partí tutto per ordine del pontefice. Dal quale ebbe il nepote Ottavio comandamento di ritornare in Italia e dire al suocero che, essendo finiti li sei mesi, il papa non poteva piú sostener tanta spesa; che era finito il tempo dell’ubbligazione e ridotto ad effetto quello per che la lega fu contratta, cioè redotta la Germania in obedienza; con gran querela dell’imperatore, che fosse abbandonato a ponto nella opportunitá di far bene, e quando piú l’aiuto li bisognava; perché niente era fatto, quando non fossero oppressi li capi, quali non si potevano dir vinti per esser retirati a difesa delli stati propri; da che, quando fossero liberati, era da temere che ritornassero con maggior [p. 355 modifica] forze e ordine che prima. Ma il papa giustificava la ragione sua di non continuare nella lega, e la partita de’ suoi, con dire che non era fatto partecipe delli accordi fatti con le cittá e principi, che non si potevano stabilire senza lui; e massime che anco erano conclusi in molto pregiudicio della fede cattolica, tollerando l’eresia che si poteva esterminare; che egli non aveva, secondo i capitoli della confederazione, participato degli utili della guerra, né delli denari tratti dalle terre accordate; che l’imperatore si doleva di lui, quando egli era l’offeso e vilipeso, con danno anco della religione. Né contento di questo, negò anco all’imperatore che potesse continuar a valersi delli denari delle chiese di Spagna oltre li sei mesi; e quantonque li ministri di Cesare facessero con lui riplicati e potenti uffici, mostrando che la continuazione della causa per che furono concessi ricercasse anco che si continuasse la concessione, e che l’opera resterebbe vana e senza frutto quando non si conducesse a fine la guerra, non potèro moverlo dalla risoluzione presa.

Successe anco che, essendo nata una congiura pericolosa in Genova, che quasi ebbe effetto, dalla famiglia Fiesca contra la Doria, che seguiva le parti imperiali, ebbe l’imperator per certo che il duca di Piacenza figlio del papa ne fosse stato autore, e credette che dal papa venisse, e non si astenne di aggiongere questa querela alle altre. Il papa teneva per fermo che l’imperator sarebbe occupato in Germania per longo tempo e senza poterlo offender con forze temporali, ma temeva che col far andar li protestanti al concilio potesse eccitarli qualche travaglio. Il rimedio di separare il concilio li pareva troppo violento e scandaloso, massime essendo stato sette mesi in trattazione non pubblicata. Venne in parere di far pubblicar le cose giá digerite, poiché per quella dichiarazione o li protestanti averebbono ricusato andarvi, o andando sarebbono costretti accettarla: nella quale voltandosi il cardine di tutte le controversie, la vittoria sarebbe stata la sua. E quando non vi fosse altra ragione di farlo, questa sola lo consegliava, che, desiderando l’imperatore che si astenesse da decidere le [p. 356 modifica] controversie, questo bastava per concludere esser utile a lui il farlo, dovendo esser contrari li consegli di chi ha contrari fini. Vedeva bene che l’imperatore l’averebbe ricevuto per offesa grave; ma giá alli disgusti poco si poteva aggiongere; ed era il papa solito, quando nelle deliberazioni si trovava serrato tra le ragioni che lo confortavano o dissuadevano, ad usar il motto fiorentino: «Cosa fatta capo ha», e dare mano all’esecuzione della parte necessaria. Però alle feste di Natale scrisse alli legati che facessero la sessione e pubblicassero li decreti giá formati. Il qual comandamento ricevuto, fecero congregazione il di 3 gennaro: nella quale, dopo aver deliberato che s’intimasse la sessione per il 13, con parer e piacer concorde di tutti, essendo ad ognuno venuto a noia lo star tanto tempo senza resolver niente, proposero li legati di pubblicar li decreti formati. Quanto a quelli della fede, li prelati imperiali s’opponevano, con dire che non era ancora opportunitá e bastava pubblicar la riforma; ma li pontifici instavano in contrario, allegando esser giá noto a tutto il mondo che per sette mesi s’aveva assiduamente ventilata la materia della grazia e giustificazione, ed era anco il decreto stabilito; che sarebbe con detrimento della fede, quando il mondo vedesse il concilio temer di pubblicare quella veritá che era decisa. E per esser questi in numero molto maggiore, l’opinione loro, aiutata dall’autoritá delli legati, superò. Le due seguenti congregazioni furono consumate in releggere li decreti cosí di fede come di riforma: li quali, accomodate qualche leggier cosuccie, secondo l’avvertimento di quelli che non erano intervenuti prima, a tutti piacquero.

Con le solite ceremonie andati alla chiesa li legati con li prelati, il giovedí 13 gennaro, giorno destinato per il pubblico consesso, si tenne la sessione: dove cantò la messa Andrea Cornaro, arcivescovo di Spalato, e fece il sermone Tomaso Stella, vescovo di Salpi, e furono letti li decreti della fede e della riforma.

Il primo conteneva sedici capi con loro proemio e trentatré anatematismi. In sostanza, dopo d’aver proibito credere [p. 357 modifica] o predicare o insegnare altramente di quanto era statuito ed esplicato in quel decreto, dechiarava:

I. Che né li gentili per mezzi naturali, né li giudei per la lettera della legge di Moisé hanno potuto liberarsi dal peccato;

II. onde Dio mandò il Figliuolo per riscuoter gli uni e gli altri.

III. Il qual se ben è morto per tutti, nondimeno godono il beneficio quei soli a chi il merito di lui è comunicato.

IV. Che la giustificazione dell’empio non è altro se non una transazione dello stato di figlio di Adamo nello stato di figlio adottivo di Dio per Gesú Cristo, la quale dopo la pubblicazione dell’Evangelio non si fa senza il battesmo o senza il voto di quello.

V. Che il principio della giustificazione negli adulti viene dalla grazia preveniente, che gl’invita a disporsi con acconsentirgli liberamente e cooperargli, il che fa di sua volontá spontanea, potendola anco rifiutare.

VI. Il modo della preparazione è credendo prima volontariamente le revelazioni e promesse divine; e conoscendosi peccatore, dal timor della divina grazia voltandosi alla misericordia con sperare il perdono da Dio, e perciò cominciar ad amarlo e odiar il peccato; e finalmente proponendo di ricever il battesmo, incominciar vita nova, e servar li comandamenti divini.

VII. Che a questa preparazione séguita la giustificazione, che non è sola remissione dei peccati, ma santificazione ancora; e ha cinque cause: la finale, la gloria divina e vita eterna; l’efficiente, Dio; la meritoria, Cristo; l’istromentale, il sacramento; e la formale, la giustizia donata da Dio, ricevuta secondo il beneplacito dello Spirito Santo e secondo la disposizione del recipiente, ricevendo insieme con la remissione dei peccati la fede, speranza e caritá.

VIII. Che quando san Paulo dice l’uomo esser giustificato per la fede e gratuitamente, ciò si debbe intendere perché la fede è principio, e le cose precedenti la giustificazione non sono meritorie della grazia. [p. 358 modifica]

IX. Che i peccati non sono perdonati a chi si vanta e si riposa nella sola fiducia e certezza della remissione: né si debbe dire che quella sola fede giustifichi; anzi ognuno, sí come non debbe dubitare della misericordia di Dio, meriti di Cristo ed efficacia dei sacramenti, cosí, risguardando la propria indisposizione, può dubitare, non potendo con certezza di fede infallibile saper d’aver ottenuto la grazia.

X. Che li giusti con l’osservanza delli comandamenti di Dio e della Chiesa sono maggiormente giustificati.

XI. Che non si può dire i precetti divini esser impossibili al giusto, il qual se ben cade nei peccati veniali, non resta però di esser tale; che nessun debbe fermarsi nella sola fede, né dire che il giusto in ogni buon’opera faccia peccato, o vero pecchi se opera per fine di mercede.

XII. Che nessuno deve presumer di esser predestinato con credere che il giustificato non possi piú peccare, o peccando debbia promettersi la resipiscenza.

XIII. Parimente che nessun può promettersi assoluta certezza di perseverar sino al fine; ma metter la speranza nell’aiuto divino, il quale continuerá, non mancando l’uomo.

XIV. Che li caduti in peccato potranno riaver la grazia, procurando coll’eccitamento divino di recuperarla per mezzo della penitenzia, la quale è differente dalla battismale, contenendo non solo la contrizione, ma la sacramental confessione e assoluzione sacerdotale, almeno in voto; e oltra ciò la satisfazione per la pena temporale, la qual non si rimette sempre tutta insieme, come nel battesmo.

XV. Che la grazia divina si perde non solo per l’infedeltá, ma per qualonque altro peccato mortale, quantonque la fede non sia per quello perduta.

XVI. Propone anco alli giustificati l’esercizio delle buone opere, per le quali si acquista la vita eterna, come grazia promessa dalla misericordia di Dio e mercede debita alle buone opere per la divina promessa. E conclude che questa dottrina non stabilisce una giustizia propria nostra, repudiata la giustizia di Dio, ma la medesma si dice nostra per esser in noi; e di Dio, essendo da lui infusa per il merito di Cristo. [p. 359 modifica]

In fine, che per far saper ad ognuno non solo la dottrina da seguire, ma anco quella che debbe fuggire, soggionge li canoni contra chi dice:

I. Che l’uomo può esser giustificato senza la grazia per le forze della natura umana o per la dottrina della legge.

II. Che la grazia sia data per viver bene con maggior facilitá e meritare la vita eterna, potendo l’istesso il libero arbitrio, ma con difficoltá.

III. Che l’uomo possi creder, amare, sperar o pentirsi come conviene, senza la prevenzione e aiuto dello Spirito Santo.

IV. Che il libero arbitrio eccitato da Dio non cooperi per disporsi alla grazia, né possi dissentir volendo.

V. Che dopo il peccato d’Adamo il libero arbitrio sia perduto.

VI. Che non sia in potestá dell’uomo il far male, ma cosí le cattive come le buone opere avvengano non solo per divina permissione, ma per sua operazione propria.

VII. Che tutte le opere fatte innanzi la giustificazione siano peccati, e tanto piú l’uomo pecchi quanto piú si sforza per disponersi alla grazia.

VIII. Che il timor dell’inferno, che ci fa astener dal peccare o ricorrere alla misericordia di Dio, sia peccato.

IX. Che l’impio sia giustificato per fede sola, senza preparazione che venga dal moto della sua volontá.

X. Che l’uomo sia giustificato senza la giustizia meritata da Cristo, o vero sia giusto per quella formalmente.

XI. Che sia giustificato per sola imputazione della giustizia di Cristo, o per sola remissione dei peccati, senza la grazia e caritá inerente, o vero che la grazia della giustificazione sia solo il favor divino.

XII. Che la fede qual giustifica non sia altro che la confidenzia della misericordia, che rimette i peccati per Cristo.

XIII. Che per la remissione dei peccati sia necessario il credere che siano rimessi, senza dubitar della propria indisposizione. [p. 360 modifica]

XIV. Che l’uomo è assoluto e giustificato, perché lo crede fermamente.

XV. Che sia tenuto per fede a credere d’esser certamente nel numero de’ predestinati.

XVI. Chi dirá esser certo d’aver il dono della perseveranzia senza special revelazione.

XVII. Che li soli predestinati ottengono la grazia.

XVIII. Che i precetti di Dio siano impossibili al giustificato.

XIX. Che non vi sia altro precetto evangelico che della fede.

XX. Che il giusto e perfetto non sia obbligato ad osservar li comandamenti di Dio e della Chiesa, o vero che l’Evangelio sia una promessa, senza condizione dell’osservanza dei comandamenti.

XXI. Che Cristo è dato per redentore, non per legislatore.

XXII. Che il giustificato possi perseverar senza special aiuto di Dio, o non possi con quello.

XXIII. Che il giusto non possi peccare, o vero possi evitar tutti li peccati veniali, se non per privilegio speciale, come la Chiesa tiene della Vergine.

XXIV. Che la giustizia non si conservi e accresca per le buone opere, ma siano frutti o segni.

XXV. Che il giusto in ogni opera pecca mortalmente o venialmente.

XXVI. Che il giusto non debbe sperar mercede per le buone opere.

XXVII. Non esservi altro peccato mortale che l’infedeltá.

XXVIII. Che, perduta la grazia, si perda la fede, o vero la fede rimanente non esser vera, né di cristiano.

XXIX. Che, peccando dopo il battesmo, non possi l’uomo rilevarsi con la grazia di Dio, o vero possi ricuperarla con la sola fede, senza il sacramento della penitenza.

XXX. Che ad ogni penitente vien rimessa la colpa e la pena intieramente, non restando pena temporale da pagar in questa vita o in purgatorio. [p. 361 modifica]

XXXI. Che il giusto pecca, se opera bene risguardando la mercede eterna.

XXXII. Che le opere buone del giusto sono doni di Dio solamente, e non insieme meriti del giustificato.

XXXIII. Che per questa dottrina sia derogato alla gloria di Dio e meriti di Cristo, e non piú tosto illustrato la gloria loro.

Dappoi ch’ebbi tessuta questa abbreviata narrazione del decreto, mi cadé in pensiero che fosse cosa superflua, poiché tutti li decreti di questo concilio sono in un volume stampati e nelle mani di tutti, e che potessi anco nella composizione delle azioni seguenti rimettermi a quel libro; e fui per cancellare questo foglio. Poi considerai che ad alcuno forse piú piacerá in un solo libro leggere tutto continuato, e chi averá piú caro vedere l’origine, potrá tralasciare questa mia abbreviazione: ho deliberato non mutare, e anco nelle materie seguenti seguire lo stile istesso. E tanto piú considerando il dispiacere che sento, quando veggo in Senofonte o Tacito tralasciata la narrazione d’alcuna cosa alli loro tempi notissima, che, non avendo modo di risaper al presente, mi resta incognita; e mi persuade a tenir una massima: che mai un libro doverebbe riferirsi ad un altro. Però vengo alla somma del decreto della riforma, il qual in sostanza conteneva:

I. Che volendo la sinodo emendare li depravati costumi del clero e populo, stimava dover incominciare dalli prefetti delle chiese maggiori: però, confidando in Dio e nel suo vicario in terra che quel carico sará dato a persone degne ed esercitate dalla puerizia nella disciplina ecclesiastica, li ammoní a far il loro officio, qual non si può esequire se non soprastando alla custodia di esso. Nondimeno molti, lasciata la mandra e la cura delle agnelle, vagano per le corti ed attendono a negozi secolari. Per tanto la sinodo rinnova tutti li antichi canoni contra li non residenti; e oltra ciò statuisce che qualonque prefetto a chiesa cattedrale, con qualonque titolo si voglia e di qualonque preeminenza egli sia, che senza giusta e ragionevole causa stará fuori della sua diocesi sei [p. 362 modifica] mesi continui, perda la quarta parte delle entrate: e se persevererá stando assente per altri sei mesi, ne perdi un altro quarto: e crescendo la contumacia, il metropolitano, sotto pena di non poter entrar in chiesa, fra tre mesi debbe denonciarlo al pontefice, il qual per la sua suprema autoritá potrá dar maggior castigo e provveder alla chiesa di pastor piú utile. E se il metropolitano incorrerá in simil fallo, il suffraganeo piú vecchio sia tenuto denonciarlo.

II. Ma gli altri inferiori ai vescovi, tenuti a resedere o per legge o per consuetudine, siano a ciò costretti dalli vescovi, annullando ogni privilegio che esenti in perpetuo dalla residenza; restando in vigore le dispense concesse per tempo, con causa ragionevole e vera, provata inanzi l’ordinario; dovendo però il vescovo, come delegato della sede apostolica, aver carico che sia atteso alla cura delle anime da vicario idoneo, con porzione conveniente dell’intrate, non ostante qualunque privilegio o esenzione.

III. In oltre, che nessun chierico secolare per privilegio personale, o regolare abitante fuori del monasterio, per privilegio dell’ordine suo, sia esente, sí che non possi esser punito fallando, e visitato e corretto dall’ordinario.

IV. Similmente, che li capitoli delle cattedrali e altre collegiate, in virtú de esenzioni o consuetudini o giuramenti e patti, non possino liberarsi dalla visita de’ suoi vescovi e altri prelati maggiori, sempre che fará bisogno.

V. In fine ordinava che nessun vescovo, con pretesto di privilegio, possi esercitar atti pontificali nella diocesi d’un altro, se non con licenzia di quello, e sopra li suoi soggetti solamente.

E fu deputato il giorno della session seguente a’ 3 di marzo.

In Roma il decreto della fede non diede materia alcuna di parlare, non riuscendo novo, cosí perché era stato veduto ed esaminato pubblicamente, come s’è detto, e, poiché giá a tutti era noto che s’avevano a dannar tutte le opinioni tedesche, era stato prima veduto e approvato. Ma li vescovi [p. 363 modifica] dimoranti in corte, che erano stati molto tempo sospesi per l’articolo della residenza che si trattava, restarono contenti, tenendo fermo che il decreto del concilio non potesse far maggior effetto di quello che li decretali de’ pontefici facevano prima. Ben li cortigiani minuti furono ripieni di malcontentezza, vedendo rimesso al vescovo il poterli costringere; si dolevano della miseria propria, che per acquistar da vivere li convenisse servir tutta la loro vita, e dopo tanta fatica ricever per premio d’esser confinati in una villa, o vero con un vil canonicato sottoposti ad un’altra servitú delli vescovi, maggiore e piú abietta, quali non solo li teniranno ligati come ad un palo, ma con le visite e col pretesto di correzioni li condurranno o vero ad una soggezione misera, o li teniranno in perpetue vessazioni e spese.

Ma altrove, e per lá Germania massime, quando li decreti furono visti, piú diede da dire quello della fede, qual conveniva leggere e releggere molto attentamente e specularci anco sopra, non potendosi intendere senza una perfetta cognizione delli moti interiori dell’animo, e senza saper in quali egli sia attivo e in quali passivo: cose sottilissime e, per la diversa apparenza che fanno, stimate sempre disputabili, versando tutta la dottrina del concilio sopra questo cardine: «se il primo oggetto della volontá operi in lei, o ella in lui, o pur ambidoi siano attivi e passivi». Fu da alcuni faceti detto che se li astrologi, non sapendo le vere cause de’ moti celesti, per salvar le apparenze hanno dato in eccentrici ed epicicli, non era maraviglia se, volendo salvare le apparenze de’ moti sopracelesti, si dava in eccentricitá de opinioni. Li grammatici non cessavano di ammirar e ridere l’artificio di quella proposizione, che è nel quinto capo: neque homo ipse nihil omnino agat, quale dicevano non esser intelligibile e non aver esempio. Che se voleva la sinodo significare: etiam homo ipse aliquid agat, lo poteva pur dire chiaramente, come conviene in materia di fede, dove la miglior espressione è la piú semplice; e se pure volevano usar un’eleganzia, potevano dire: etiam homo ipse nihil agat. Ma interponendosi la voce omnino, [p. 364 modifica] quell’orazione esser incongrua e senza senso, come sono tutte le orazioni di due negazioni che non si possono risolvere in una affirmativa; perché, volendo risolvere quella, converrebbe dire: etiam homo ipse aliquid omnino agat, che è incongrua, essendo inintelligibile quello che possi significare aliquid omnino in questo proposito, poiché direbbe che l’uomo abbia azione in un certo modo, la quale negli altri modi non sia azione.

Erano difesi li padri con dire che non conveniva esaminare la forma del parlare al rigido, che non è altro che cavillare. A che replicavano che la benigna interpretazione è debita alle forme di parlar usate; ma di chi, tralasciate le chiare e usate, ne inventa d’incongrue e che coprono in sé la contradizione per cavillare e sdrucciolare da ambe le parti, è pubblica utilitá che l’arteficio sia scoperto.

Gl’intendenti di teologia dicevano che la dottrina di poter l’uomo sempre rifiutare le divine inspirazioni era molto contraria alla pubblica e antica orazione della Chiesa: et ad te nostras etiam rebelles compelle propitius voluntates. La qual non convien dire che sia un desiderio vano e frustratorio, ma sia fatta ex fide, come san Giacomo dice, e sia da Dio verso li suoi eletti esaudita. Aggiongevano che non si poteva piú dire con san Paulo che non venga dall’uomo quello che separa li vasi dell’ira da quei della misericordia divina, essendo il separante quell’umano non nihil omnino. Molte sorti di persone considerarono quel luoco del settimo capo, dove si dice la giustizia esser donata a misura, secondo il beneplacito divino e la disposizione del recipiente, non potendo ambidue queste cose verificarsi: perché se piacesse a Dio darne piú al manco disposto, non sarebbe a misura della disposizione, e se si dá a misura di quella, vi è sempre il motivo pel quale Dio opera, e non usa mai il beneplacito. Si maravegliavano come avessero dannato chi dicesse non esser possibile servare li precetti divini, poiché il medesimo concilio, nel decreto della seconda sessione, esortò li fedeli congregati in Trento che pentiti, confessati e comunicati [p. 365 modifica] osservassero li precetti divini, quantum quisque poterit. La qual modificazione sarebbe empia, se il giustificato potesse servarli assolutamente, e notavano esservi la medesima voce præcepta per levar ogni forza alli cavilli.

Li intendenti dell’ecclesiastica istoria dicevano che in tutti li concili tenuti nella Chiesa dal tempo degli apostoli fino a quell’ora, posti tutti insieme, mai erano stati decisi tanti articoli quanti in quella sola sessione; in che aveva una gran parte Aristotele coll’aver distinto esattamente tutti li generi de cause; a che se egli non si fosse adoperato, noi mancavamo di molti articoli di fede.

Li politici ancora, se ben non debbono esaminare le cose della religione, ma seguirle semplicemente, trovarono che dire in questo decreto: vedendo nel capo decimo posta l’obbligazione d’ubidir alli precetti di Dio e della Chiesa, e l’istesso replicato nel canone vigesimo, restavano con scandolo perché non fossero anco poste l’obbligazioni alli precetti de’ principi e magistrati. Esser piú chiara assai nella Scrittura divina l’obedienzia debita a questi; la legge vecchia esserne piena; nel Testamento novo esser dottrina chiara di Cristo proprio e di san Pietro e di san Paolo espressa e trattata a longo. Che quanto alla Chiesa, si trova obbligo espresso di udirla, ma di ubidirla non è cosí chiaro; si ubidisce chi comanda di suo, si ode chi promulga l’alieno. Né si sodisfacevano questa sorte d’uomini d’una scusa che era allegata, cioè li precetti dei prencipi esser inclusi in quelli di Dio; che perciò a loro si debbe obedienzia, per aver Dio comandato che siano ubiditi; perché replicavano per tal ragione maggiormente doversi tralasciar la Chiesa: ma che questa era espressa, e quelli trapassati con silenzio, per l’antico scopo degli ecclesiastici d’introdur nel popolo quella perniciosa opinione che a loro si sia tenuto obidire per conscienzia, ma alli principi e magistrati solo per evitar le pene temporali, e del rimanente potersi senza altro rispetto trasgredire li loro comandamenti; e per questa via metter in odio, rappresentare per tirannico e sovvertir ogni governo; e dipingendo la soggezione alli preti [p. 366 modifica] per via unica e principale d’acquistar il cielo, tirar in sé prima tutta la giurisdizione, e finalmente in consequenza tutto l’imperio.

Del decreto della riforma si diceva esser una pura e mera illusione; perché il confidar in Dio e nel papa che sarebbe provvisto di persone degne al governo delle chiese è opera piú tosto di chi facesse orazione che di riformazione. L’innovare li antichi canoni con una parola sola e cosí generale era confermarli nell’introdotta dissuetudine maggiormente, che volendo restituirli da dovero, bisognava levar le cause che gli hanno posti in oblivione e darli vigore con pene e deputazione d’esecutori, e altre maniere che introducono e conservano le leggi. In fine non aversi altro operato, se non stabilito che, col perdere la metá delle entrate, si possi star assente tutto l’anno; anzi insegnato a starvi per undici mesi e piú senza pena alcuna (interponendo quei trenta o meno giorni nel mezzo dell’altro tempo dell’anno), e destrutto anco a fatto il decreto con l’eccezione delle giuste e ragionevoli cause: quali chi sará cosí semplice che non sappia fare nascere, dovendo avere per giudici persone a chi mette conto che la residenza non si ponga in uso?

Questo luoco ricerca che si faccia menzione d’un particolare successo, il quale incominciato in questo tempo, se ben non ebbe fine se non dopo quattro mesi, appartiene tutto alla presente sessione; e a penetrare che cosa fosse allora il concilio di Trento, e che opinione avessero di lui quelle medesime persone che vi intervenivano. Per intelligenza del quale non resterò di replicare che fra’ Dominico Soto, tante volte di sopra nominato, quale ebbe gran parte, come s’è detto, nella formazione del li decreti del peccato originale e della giustificazione, e che avendo notato tutti li pareri e le ragioni che furono usate in quelle discussioni, pensò di comunicarle al mondo e tirare le parole del decreto al suo proprio senso, mandò in stampa un’opera continente il tutto intieramente, intitolandola De natura et gratia; e quella dedicò con una epistola alla sinodo, per esser (cosí egli nella dedicatoria [p. 367 modifica] scrisse) un comentario delli doi decreti suddetti. In questa, venendo all’articolo della certezza della grazia, disse in longo discorso, la sinodo aver dechiarato che l’uomo non può saper d’avere la grazia con tanta certezza, quanta è quella della fede, ita che ogni dubitazione sia esclusa. Il Catarino, fatto novamente vescovo de Minori, che aveva difeso il contrario e tuttavia perseverava nell’opinione sua, stampò un libretto con dedicatoria alla medesima sinodo, lo scopo del quale era dire e defendere che il concilio non intese di condannare l’opinione di chi asseriva il giusto poter credere d’aver la grazia tanto certamente quanto ha per certi gli articoli della fede; anzi la sinodo aver deciso che è tenuto a crederlo, quando nel canone vigesimo sesto ha dannato chi dice che il giusto non debbe sperar e aspettare la mercede, essendo ben necessario che chi debbe sperare, come giusto, sappia d’esser tale.

In questa contrarietá d’opinioni, non solo ambidoi affermativamente scrivendo al concilio dissero ciascuno che la sua sentenzia era quella della sinodo, ma dopo scrissero anco e stamparono apologie e antiapologie, querelando l’uno l’altro alla sinodo che gl’imponesse quello che ella non aveva detto, e inducendo diversi delli padri testimoni per comprobare la propria opinione, quali anco testificavano chi per uno, chi per l’altro. Si che li padri erano divisi in due parti, eccetto alcuni buoni prelati, che come neutrali dicevano non avere ben intesa la differenza, ma prestato il consenso al decreto nella forma promulgata, perché ambe le parti erano convenute. Il legato Santa Croce testificava per il Catarino: il Monte diceva esser stato del terzo partito.

Questo evenimento pare che levi ad ognuno la speranza di saper la mente del concilio, poiché in quel tempo gli stessi intervenienti, e li principali, non concordavano. Fa anco nascere difficoltá chi era quella sinodo che deliberò l’articolo, alla quale scrissero e provocarono il Soto e il Catarino, stimandola ambidua aderente a sé; onde nel conoscerla era necessario che o uno di loro o ambidua s’ingannassero. E che sará degli altri, poiché a questi cosí avvenne? Si potrebbe [p. 368 modifica] dire che fosse l’aggregato di tutti insieme, al quale lo Spirito Santo assistendo facesse determinar la veritá, eziandio non intesa da chi la determinava, come Caifas profetò per esser pontefice senza intender la profezia, come il vescovo di Bitonto disse nel suo sermone; quando questa risposta non avesse due opposizioni: l’una, che alli reprobi e infedeli Dio fa profetare senza intelligenza, ma alli fedeli con l’illuminar l’intelletto; l’altra, che li teologi concordemente dicono li concili non deliberar della fede per inspirazione divina, ma per investigazione e disquisizione umana, alla quale lo Spirito assiste per guardarli dagli errori, tanto che non possono determinare senza intender la materia. Darebbe forse nel vero chi dicesse che, dibattendosi le opinioni contrarie nel formar il decreto, ciascuna parte rifiutasse le parole di senso contrario alla sua, onde tutti si fermassero in quelle che ciascuno pensava potersi accomodare al senso suo, onde l’espressione riuscisse capace di contrarie esposizioni. Se ben questo non servirebbe a risolvere la dubitazione proposta e a trovar quale fosse il concilio, poiché sarebbe darli unitá di parole e contrarietá di animi. Ma quello che è narrato in questo particolare, e avvenne forse in molte materie, non occorreva nel dannar le opinioni luterane, dove tutti convenivano con unanimitá esquisita.

Non è da tralasciare in questo proposito un’avvertenza dell’istesso Catarino, scritta alla sinodo nel medesimo libro, meritando l’autore di non esser defraudato dell’invenzione sua. Egli considerò esser repugnante il dire che l’uomo riceve volontariamente la grazia, e che non è certo d’averla; perché nessuno può volontariamente ricevere cosa che non sa essergli data, e senza esser certo di riceverla.

Ma tornando alle cose conciliari, il dí seguente la sessione, si ridusse la congregazione generale per deliberare e ordinare la materia da digerire per la sessione futura. E quanto alla parte spettante alla fede, essendo giá deliberato di seguir l’ordine della confessione augustana, si faceva inanzi il capo del ministerio ecclesiastico, il quale li luterani dicono esser autoritá di annonciare l’Evangelio e ministrar li sacramenti; [p. 369 modifica] e attendendo alcuni la prima parte, proponevano che si trattasse della potestá ecclesiastica, dechiarando tutte quelle fonzioni spirituali e temporali che Dio li ha concesso sopra li fedeli, le quali dalli luterani erano negate. E questo piaceva all’universale delli prelati, perché era materia di facile intelligenza, senza spinositá scolastica, e dove averebbono potuto aver la parte loro. Alli teologi non era grato, non essendo quelle materie trattate da scolastici, onde non averebbono avuto che disputare, e sarebbe convenuto rimettersene per il piú a’ canonisti. Dicevano che li augustani non trattano di tutta l’autoritá ecclesiastica, ma di sola quella di predicare, della quale nella precedente sessione si era decretato quanto bastava: ma nella seconda parte era ben materia connessa e conseguente la giustificazione, cioè li sacramenti, che sono li mezzi per esser giustificati, e che questi era più conveniente far soggetto della seguente sessione. A questa aderivano li legati e li dependenti loro; in apparenza per le medesime ragioni, ma in loro segreto per un’altra piú potente, perché in quell’altra considerazione s’averebbe trattato dell’autoritá delli concili e del pontefice, e proposte molte materie scabrose e da non muovere.

Risoluto di trattar la materia de’ sacramenti, si considerò che era molta e ampia, e non potersi comprendere in una sessione, né manco potersi facilmente determinare in quante parti dividerla. Dalli augustani esser fatta breve coll’aver levati quattro sacramenti, de’ quali tanto piú esattamente si doveva trattare per restabilirli; pertanto esser bene che si dasse principio a discutere prima delli sacramenti in universale. E fu dato carico di ordinare li articoli tratti dalla dottrina luterana, descendendo anco alli sacramenti in particolare, de quanti fosse parso potersi far discussione; e acciocché la riforma seguisse la difinizione della fede e dogmi, consequentemente si mettessero insieme gli abusi occorrenti nel ministerio delli sacramenti, ordinando una congregazione de prelati e altri canonisti che discorressero li rimedi e sopra formassero decreti; con ordine che, occorrendo nel medesimo giorno [p. 370 modifica] ambidue, alli teologi presedesse il Cardinal Santa Croce, alli canonisti quello del Monte, e ambidua insieme nelle congregazioni generali. Ma oltre di questo, attesa la promessa di continuare anco la materia della residenza, non si tralasciasse di trattarne qualche articolo delli piú principali. In questo non fu cosí facile convenire, avendo li legati, con li loro aderenti, fini contrari agli altri vescovi.

Questi erano entrati in speranza e miravano quasi tutti, ma li spagnuoli sopra gli altri, a racquistar l’autoritá episcopale che anticamente si esercitava da ciascuno nella diocesi propria, quando erano incognite le reservazioni de’ benefici, dei casi o d’assoluzioni, le dispense e altre tal cose; le quali solevano dire in ragionamenti privati e fra poche persone che l’appetito di dominare e l’avarizia l’avevano fatto proprie alla corte romana sotto finto colore di maneggiarle meglio, e piú con pubblico servizio di Dio e della Chiesa per tutta la cristianitá, che li vescovi nelle cittá proprie, attesa qualche imperfezione e ignoranza loro: cosa però non vera, poiché non entrò nell’ordine episcopale dissoluzione né ignoranzia, se non dopo che furono costretti andar per servitori a Roma. Ma quando bene s’avesse visto un mal governo allora nelli vescovi, che avesse costretto levarli l’autoritá propria, ora che si vede pessimo nella corte romana, l’istessa ragione maggiormente costringere di levarli quel maneggio che non è proprio suo, e da lei è sommamente abusato.

Ottima medicina era stimata da questi prelati, per rimedio al mal passato e preservativo all’avvenire, il decreto che la residenza sia de iure divino. Perché se Dio ha comandato ai vescovi di reseder perpetuamente alla cura del gregge, per necessaria consequenza li ha prescritto anco il carico, e dato loro la potestá per ben esercitarlo; adonque il papa non potrá né chiamarli né occuparli in altro, né dispensarli, né restringer l’autoritá data da Dio. Però facevano instanza che si venisse alla determinazione, dicendo esser necessario risolver quell’articolo, dopo che era discusso abbastanza. Il Cardinal del Monte, premeditato giá, lasciò prima parlare alli piú [p. 371 modifica] ferventi, acciò esalassero parte del calore, poi con destro modo si oppose, dicendo che era ben necessario farlo, poiché il mondo tutto era in quell’espettativa, ma anco conveniva farlo in tempo opportuno; che la difficoltá era stata trattata con troppo calore, e in molti aveva eccitato piú gli affetti che la ragione; onde era necessario lasciar sbollire quel fervore e interponer un poco di tempo, tanto che, scordati delle contenzioni, vivificata la caritá, si dia luoco allo Spirito Santo, senza il qual non si può decider la veritá. Che la Santitá del sommo pontefice, la qual con dispiacere ha inteso le contenzioni passate, ricerca l’istesso per poter egli ancora far discuter la materia in Roma e aiutar la sinodo di conseglio. Concluse in fine, con parole piú resolute di quello che si doveva inferire da cosí modesto principio, che non se ne parlasse piú inanzi la sessione, che cosí era risoluta volontá del papa, ma ben si attendesse alla riforma degl’inconvenienti che sono stati causa d’introdur l’abuso di non risedere. Questa mistura di remostranze e imperio fu causa che da alcuni delli padri, che dopo mandarono trattati in stampa in questa materia, fosse detto e posto in stampa che dalli legati era stato proibito il parlar di tal questione, e da altri fosse negato con invettiva contra li primi, dicendo che derogassero alla libertá del concilio. Fu, per fine della congregazione, risoluto di ripigliar le cose tralasciate nella precedente sessione, e trattare di levar gli impedimenti che costringono a non risedere; fra’ quali occorrendo, come principalissimo, la pluralitá delli benefici, essendo impossibile riseder in piú luoghi, si deliberò trattar di quella.