Istoria del Concilio tridentino/Libro secondo/Capitolo V
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CAPITOLO V
(giugno-luglio 1546).
[Fallita la conferenza religiosa di Ratisbona, in quella dieta Carlo V tenta invano un accordo coi protestanti, che insistono per un concilio nazionale. — Segreti accordi e preparativi di guerra. — Quinta sessione: decreti sul peccato originale e sull’insegnamento scritturale e la predicazione. — Giungono al concilio gli inviati del re di Francia: discorso del Danès. — Critiche mosse in Germania ai decreti della sessione. — Lega papaie-imperiale contro gli smalcaldici. — Breve di Paolo III agli svizzeri. — I protestanti scoprono il fine religioso della guerra, mascherato dall’imperatore con fini politici.— Il concilio decide di trattare la dottrina della giustificazione e il dovere della residenza episcopale. — Il vescovo di Vaison prospetta la necessitá di ristabilire l’autoritá vescovile abolendo i privilegi monacali. — Articoli luterani sulla giustificazione. — Importanza e difficoltá della materia. — Lunghe e sottili dispute (Soto, Vega, Catarino, francescani, domenicani) sulla fede giustificante, sulle opere precedenti, concorrenti e susseguenti alla grazia, sull’essenza della medesima, sulla «imputazione» della giustizia di Cristo.]
Mentre che queste cose si trattano a Trento, essendo redutta la dieta in Ratisbona, Cesare mostrò gran dispiacere che il colloquio si fosse disciolto senza frutto, e ricercò che ciascun proponesse quello che si potesse fare per quietar la Germania. Li protestanti fecero instanzia che fosse composta la differenzia della religione secondo il recesso di Spira per un concilio nazionale, dicendo che era piú a proposito che l’universale, poiché per la gran differenza nelle opinioni tra la Germania e le altre nazioni era impossibile che in un concilio generale non nascesse contenzione maggiore; e chi volesse constringer la Germania a mutar parere per forza, convenirebbe trucidar infinite migliara d’uomini, che sarebbe con danno di Cesare e allegrezza de’ turchi. Rispondevano li ministri dell’imperatore non esser mancato dalla Maestá sua che non si esequisse il decreto di Spira, ed essere molto ben noto a tutti che per aver la pace tanto necessaria col re di Francia era stata sforzata in condescender al voler del pontefice nelle cose che toccano la religione; che il decreto era accomodato alle necessitá di quel tempo, le quali mutate, era anco necessario mutar parere; che nelli concili nazionali si è alcune volte fatta emendazione de costumi, ma della fede e della religione mai si è trattato; che venendo alli colloqui, si ha da far con teologi che per il piú sono diffícili e ostinati, onde non si può con loro venir a consegli moderati, come farebbe di bisogno; che nessuno amava piú la religione che Cesare, né era per partirsi dal giusto e onesto un ponto per far piacer al pontefice, ma ben sapeva che in un concilio nazionale non si averebbe potuto né accordar le parti, né trovar chi far giudice. Li ambasciatori di Magonza e di Treveri si divisero dagli altri quattro, e uniti con tutti li cattolici approvarono il concilio tridentino, e supplicarono Cesare a proteggerlo e a persuadere li protestanti di andarvi e sottomettersi a quello. A che dicendo essi in contrario in Trento non esser concilio libero, come fu dimandato e promesso nelle diete dell’Imperio, di nuovo fecero instanza che Cesare volesse tenir ferma la pace e ordinare che le cose della religione si stabilissero in un concilio legittimo di Germania, o veramente in una dieta dell’Imperio, o vero in un colloquio di persone dotte dell’una e l’altra parte.
Aveva l’imperator in questo mentre fatto secretissime provvisioni per la guerra, le quali, non potendo piú star occulte, vennero a notizia delli protestanti in dieta congregati; e perché era fatta la pace col re di Francia e tregua per quell’anno col Turco, ognuno facilmente vedeva la causa, massime che si era sparsa fama che anco il pontefice e Ferdinando si armavano; onde ogni cosa si voltò in confusione. E vedendo Cesare esser scoperto, a’ 9 di giugno spedi per le poste il Cardinal di Trento a Roma per dimandar al pontefice gli aiuti promessi; e mandò anco in Italia ed in Fiandra capitani con danari per far gente, e sollecitò li prencipi e capitani germani protestanti, non collegati con li smalcaldici, a seguir le sue insegne, affermando e promettendo di non voler far guerra per causa della religione, ma per reprimere la rebellione d’alcuni, li quali sotto quel pretesto non vogliono conoscer le leggi né la maestá del principe. Con la quale promessa fece anco star quiete molte delle cittá che giá avevano ricevuta la renovazione nelli riti della Chiesa, promettendo ogni benevolenzia alli obedienti e assicurandogli della religione.
Ma in concilio, non restando piú differenza alcuna tra li padri sopra le cose discusse, ed essendo formati li decreti della fede e della reforma, né potendo piú l’ambasciator cesareo resistere alla resoluzione delli legati, venuto il 17 giugno, giorno della sessione, cantò la messa Alessandro Piccolomini, vescovo di Pienza, fece il sermone frate Marco Laureo dominicano. E fatte le solite ceremonie, fu letto il decreto di fede con li cinque anatematismi:
I. contra chi non confessa Adamo per la transgressione aver perso la santitá e giustizia, incorso nell’ira di Dio, morte e pregionia del diavolo, e peggiorato nell’anima e nel corpo;
II. e chi asserisce Adam peccando aver nociuto a sé solo o aver derivato nella posteritá la sola morte del corpo, e non il peccato, morte dell’anima;
III. e chi afferma il peccato, che è uno in origine e proprio a ciascuno, trapassato per generazione, non per imitazione, poter esser scancellato con altro rimedio che per il merito di Cristo; o vero nega che il merito di Cristo sia applicato tanto alli fanciulli quanto alli adulti, per il sacramento del battesmo ministrato nella forma e rito della Chiesa;
IV. e chi nega che debbiano esser battezzati li fanciulli nascenti, se ben figli de cristiani; o dice che sono battezzati per la remissione de’ peccati, ma non perché abbiano contratto alcun peccato originale da Adam;
V) e chi nega che per la grazia del battesmo sia rimesso il reato del peccato originale, e non sia levato tutto quello che ha vera e propria ragione di peccato, ma che sia raso e non imputato, restando però nei battezzati la concupiscenza per esercizio che non può nocere a chi non li consente; la qual chiamata dall’Apostolo peccato, la sinodo dechiara non esser vero e proprio peccato, ma esser cosí detta, perchè è nata da peccato e inclina a quello. Che la sinodo non ha intenzione di comprender nel decreto la beata Vergine, ma doversi osservare le constituzioni di Sisto IV, le quali rinnova.
Il decreto della reformazione contiene due parti: una in materia delle lezioni, l’altra delle prediche. Quanto alle lezioni, fu statuito che nelle chiese dove è assegnato stipendio per legger teologia, il vescovo operi che dallo stipendiato medesimo, essendo idoneo, sia letta la divina Scrittura; e non essendo, questo carico sia esercitato da un sustituto deputato dal vescovo stesso; ma per l’avvenire il beneficio non si dia se non a persona sufficiente per quel carico. Che nelle cattedrali di cittá populata e nelle collegiate di castello insigne, dove non è assegnato alcun stipendio per tal effetto, sia applicata la prima prebenda vacante, o qualche semplice beneficio, o una contribuzione di tutti li benificiati per instituir la lezione. Nelle chiese povere sia almeno un maestro che insegni la grammatica e goda i frutti di qualche beneficio semplice, o li sia assegnata mercede della mensa capitulare o episcopale, o dal vescovo sia trovato qualche altro modo, sí che ciò sia effettuato. Nelli monasteri de’ monaci, dove si potrá, vi sia lezione della Scrittura; nel che se li abbati saranno negligenti, siano costretti dal vescovo come delegato pontificio. Nelli conventi degli altri regolari siano deputati maestri degni a questo effetto. Nelli studi pubblici, dove non è instituita lezione della Scrittura, s’instituisca dalla pietá e caritá dei prencipi e repubbliche; e dove è instituita e negletta, si restituisca. Nessun possi esercitar quest’ufficio di lettore o in pubblico o in privato, se non è approvato dal vescovo come idoneo di vita, costumi e scienza, eccetto quelli che leggono ne’ chiostri de monaci. Alli lettori pubblici della Scrittura e alli scolari siano conservati li privilegi concessi dalla legge di goder i frutti delli benefici loro in assenza.
Quanto alle predicazioni, contiene il decreto che li vescovi e prelati siano tenuti, non essendo impediti, predicar l’Evangelio con la bocca propria; e impediti, siano ubbligati sustituir persone idonee. Che li curati inferiori debbino insegnar le cose necessarie alla salute, o di propria bocca o per opera d’altri, almeno le dominiche e feste solenni; al che fare siano costretti dalli vescovi, non ostante qualonque esenzione. E allo stesso siano costretti dalli metropolitani, come delegati dal papa, li curati delle parrocchiali soggette alli monasteri che non sono in diocesi alcuna, se il prelato regolar sará negligente a farlo. Che li regolari non predichino senza l’approbazione della vita, costumi e scienza dalli superiori loro; e nelle chiese del loro ordine, inanzi che principiar la predicazione, debbino dimandar personalmente la benedizione al vescovo; ma nelle altre non predichino senza la licenza episcopale, la qual sia concessa senza pagamento. Se il predicator seminerá errori o scandoli, il vescovo li proibisca il predicare; e se predicherá eresie, proceda contra lui come la legge ordina e secondo la consuetudine; e se il predicator fosse privilegiato, lo faccia come delegato, avendo però cura che li predicatori non siano molestati per false imputazioni e calunnie, e non abbiano giusta occasione di dolersi di loro. Non permettino che, sotto pretesto di privilegi, né regolari che vivono fuori del chiostro, né preti secolari, se non conosciuti e approvati da loro, predichino, sinché non sia di ciò dato conto al pontefice. Li questori non possino né predicare essi né far predicare; e contraffacendo, non ostanti privilegi, siano costretti dal vescovo ad ubidire. In fine fu assegnato il termine della seguente sessione al dí 29 luglio.
Prononciati li decreti dal vescovo celebrante, il secretario del concilio lesse le lettere del re di Francia, in quali deputava ambasciatore al concilio Pietro Danesio; ed egli fece una longa e faconda orazione alli padri, nella quale disse in sostanza: che il regno di Francia da Clodoveo, primo re cristianissimo, ha conservato la religione cristiana sempre sincerissima; che san Gregorio I diede titolo di cattolico a Childeberto in testimonio dell’incorrotta religione; che li re mai hanno permesso in nessuna parte di Francia setta alcuna né altri che cattolici, anzi hanno procurato la conversione degli esteri e idolatri ed eretici, e con pie arme costrettili a professare la vera e sana religione. Narrò come Childeberto con guerra constrinse li visigoti ariani a congiongersi con la chiesa cattolica, e Carlo Magno fece trenta anni di guerra con li sassoni per ridurli alla religion cristiana. Passò poi a dire li favori fatti alla chiesa romana; raccontò le imprese di Pipino e Carlo Magno contro longobardi, e come a questo da Adriano nella sinodo de’ vescovi fu concesso di crear il papa e di approvar li vescovi del dominio suo, e investirli dopo ricevuto da loro il giuramento di fideltá, soggiongendo che se ben Lodovico Pio suo figliuolo cesse a quell’autoritá di crear il papa, riservò nondimeno che li fossero mandati legati per conservar l’amicizia, la qual sempre continuò coltivata con scambievoli uffici. Per la qual confidenza li romani pontefici nelli tempi difficili, o scacciati dalla loro sede, o temendo sedizione, si sono ritirati in quel regno. Non potersi narrar quanti pericoli li francesi hanno corso, e le eccessive profusioni di denari e sangue per dilatar li confini dell’imperio cristiano, o per ricuperar le cose occupate da’ barbari, o per restituir li pontefici, o liberarli dai pericoli. Soggionse che, da questi avendo origine, Francesco re colla medesma pietá nel principio del suo regno, dopo la vittoria di Lombardia, andò a trovar Leon X a Bologna per fermar con lui concordia, la qual ha continuato con Adriano, Clemente e con Paulo; e in questi ventisei anni, essendo le cose della fede ridotte in grand’ambiguitá in diverse regioni, con molta accuratezza ha operato che non s’innovasse cosa alcuna nell’uso comune ecclesiastico, ma tutto fosse riservato alli giudici pubblici della Chiesa. E quantonque sia di natura clemente, piacevole e aborrente da sangue, ha usato severitá e proposti gravi editti; ha operato, con la sua diligenza e vigilanza de’ suoi giudici, che in tanta tempesta, che ha sovvertito molte cittá e nazioni intiere, fosse conservato alla Chiesa quel nobilissimo regno quieto, nel quale restano la dottrina, riti, ceremonie e costumi vecchi. Laonde poteva il concilio ordinare quello che giudicava vero e utile alla repubblica cristiana. Disse di piú aver il re conosciuto quanto sia proficuo alla cristianitá aver per capo il vescovo romano: onde, ancorché tentato e invitato con utilissimi partiti a seguitar l’esempio d’un altro, non ha voluto partirsi dal suo parere, e perciò ha perduto l’amicizia de’ suoi confinanti, con qualche danno. Che subito intesa la convocazione di concilio, inviò alcuni delli suoi vescovi, e dopo che vidde farsi da dovero ed esser stabilita l’autoritá con piú sessioni, ha voluto mandar esso oratore per assisterli, procurando da loro che statuiscano una volta e pubblicamente propongano la dottrina che tutti li cristiani debbino professare in ogni luoco, e che indirizzino la disciplina ecclesiastica alla norma dei sacri canoni, promettendo che il cristianissimo re fará osservar il tutto nel suo imperio, e averá patrocinio e difesa dei decreti del concilio. Aggionse poi che, essendo cosí grandi li meriti dei re di Francia, li siano conservati li privilegi concessi dalli antichi Padri e dalli sommi pontefici, de’ quali fu in possessione Lodovico Pio e tutti gli altri re di Francia seguenti, e che siano confermate alle chiese di Francia, de quali egli è tutore, le sue ragioni, privilegi e immunitá: il che se il concilio fará, tutti li francesi lo ringraziaranno, e li padri non si pentiranno d’averlo fatto.
Fu per nome della sinodo risposto da Ercole Severolo, procurator del concilio, con brevi parole, ringraziando il re, mostrando che la presenza dell’ambasciatore li fosse gratissima, promettendo d’attender con ogni studio allo stabilimento della fede e alla riforma de’ costumi, e offerendo ogni favore al regno e alla chiesa gallicana.
Ma li decreti della sessione, usciti in stampa e andati in Germania, diedero materia di parlare. Dicevasi che superfluamente si era trattato dell’impietá pelagiana, giá piú di mille anni dannata da tanti concili e dal comune consenso della Chiesa; e pur quando l’antica dottrina fosse confermata, potersi tollerare aversi ben, conforme a quella, proposta la vera universale (dicendo il peccato di Adamo esser passato in tutta la posteritá), ma poi quella destrutta con l’eccezione. Né giovare il dire che l’eccezione non sia assertiva ma ambigua; perché, sí come una particolare rende falsa l’universale contradittoria, cosí la particolare ambigua rende incerta l’universale. E chi non vede che, stante quella eccezione, eziandio con ambiguitá, ognuno può concludere: «Adonque non è certo che il peccato sia passato in tutta la posteritá, perché non è certo che sia passato nella Vergine; e massime che la ragione, con quale si persuade quella eccezione, può persuaderne molte altre»? Ben esser stato concluso da san Bernardo che la stessa ragione, che induce a celebrar la Concezione della Vergine, concluderá che sia celebrata quella del padre e madre di quella, e delli avi e proavi e di tutta la genealogia, e cosí andar in infinito, dice Bernardo: ma non vi si anderebbe, perché, gionti ad Abramo, vi sarebbe gran ragione di assentarlo solo dal peccato originale. Egli è quello a cui è fatta la promessa del Redentore; Cristo è detto sempre seme di Abramo; egli è chiamato padre di Cristo e di tutti li credenti, esemplare delli fedeli: tutte dignitá molto maggiori che il portar Cristo nel ventre, secondo la divina risposta, che la Vergine fu piú beata per aver udita la parola di Dio che per aver lattato e partorito. E chi per prerogativa non si lascierá consegnare ad eccettuare Abramo, e aver per soda l’antica ragione che Cristo è senza peccato per esser nato de Spirito Santo senza seme virile, dirá che era meglio seguir il consegiio del Savio, e contenersi tra li termini posti dai Padri. Aggiongevano che grand’obbligo doveva il mondo portare al concilio, che si sia contentato dire che confessa e sente restar nei battezzati la concupiscenza, ché altrimente sarebbono costretti gli uomini a negar di sentire in loro quello che sentono.
Nel decreto della riforma s’aspettava che fosse provveduto alli scolastici e alli canonisti: a questi, che danno le divine proprietá al papa sino a chiamarlo Dio, darli infallibilitá e far l’istesso tribunale di ambidua, con dir anco che sia più clemente di Cristo; alli scolastici, che hanno fatto fondamento della dottrina cristiana la filosofia d’Aristotele, tralasciata la Scrittura, e posto tutto in dubbio, sino al metter questione se ci sia Dio, e disputarlo da ambe le parti. Pareva cosa strana che si fosse stato sino a quel tempo a sapere che l’ufficio dei vescovi era predicare, che non s’avesse trattato di levar l’abuso di predicare vanitá e ogn’altra cosa salvo che Cristo, che non fosse provveduto all’aperta mercanzia de’ predicatori sotto nome di lemosina.
Alla corte dell’imperatore, andata notizia delli decreti fatti, fu ricevuto molto in male che della riforma si fosse trattato cose leggieri, anzi non richieste dalla Germania, e in materia di fede fossero le controversie per il decreto risvegliate; imperocché, essendo giá nelli colloqui quasi concordata la controversia del peccato originale, dal concilio, dove si aspettava composizione, era provenuto decreto contra le cose concordate. E per nome dell’imperatore fu scritto alli suoi in Trento che facessero ogn’opera acciò s’attendesse alla riformazione, e le cose di fede controverse si differissero all’andata dei protestanti, che Cesare era sicuro d’indurvi; o vero almeno sinché fossero gionti li prelati di Germania, che, fatta la dieta, si sarebbono incamminati. Ma di queste cose conciliari poco tempo si parlò, perché altri accidenti avvennero, che voltarono a sé gli occhi e la mente d’ognuno.
Imperocché in Roma il Cardinal di Trento concluse a’ 26 giugno la lega tra il pontefice e Cesare contro li protestanti di Germania, alla quale era stato dato principio dal Cardinal Farnese l’anno innanzi in Vormes, come è stato detto, e dappoi s’era molte volte per mezzo d’altri ministri trattato. Le cause allegate e le condizioni furono, perché la Germania da molto tempo perseverava nell’eresie, per provveder a che si era congregato il concilio di Trento e giá principiato; al quale ricusando li protestanti di sottomettersi, il pontefice e Cesare, per gloria di Dio e salute della Germania, convengono che Cesare si armi contra quelli che lo recusano, e li reduca all’obedienza della santa sede. Che per questo il pontefice metti in deposito in Venezia cento mila scudi, oltre li cento mila giá depositati, che non siano spesi in altro; e oltre ciò mandi a proprie spese alla guerra dodici mila fanti italiani e cinquecento cavalli leggieri per sei mesi; conceda a Cesare per l’anno presente la metá delle rendite delle chiese di Spagna, e che possi alienare delle entrate dei monasteri di quei regni al valore di cinquecento mila scudi; che duranti li sei mesi l’imperatore non potesse accordare con li protestanti senza il pontefice, e di qualonque guadagni e acquisti il papa avesse certa porzione: e finito quel tempo, se la guerra fosse per continuare, si trattassero di novo le convenzioni che paressero ad ambe le parti piú opportune; e che fosse servato luogo ad altri di poter entrare in quella lega, participando alle spese e agli acquisti. Fu anco un capitolo a parte, qual si tenne piú secreto, toccando il re di Francia: che se durante quella guerra alcun prencipe cristiano avesse mosso arme contra l’imperatore, il papa fosse ubbligato perseguitarlo con le arme spirituali e temporali.
Pochi dí dopo scrisse il pontefice alli svizzeri invitandoli ad aiutarlo, avendo prima con ampiezza di parole mostrata la benevolenzia sua verso loro, e il dolore che sentiva perché alcuni di essi si erano alienati dalla sua obedienza. E ringraziato Dio di quelli che persevereranno, e lodati tutti che in questa differenza di religione stassero tra loro in pace, essendo per questa causa altrove vari tumulti, soggionse che per rimediar a quelli aveva ordinato il concilio in Trento, sperando che nessun dovesse ricusar di sottomettersegli: laonde teneva per certo che quelli di loro che sino a quell’ora perseveravano nell’obedienza apostolica, obediranno al concilio, e li altri non lo sprezzeranno. L’invitava anco a venirci, dolendosi che in Germania molti, che si chiamano principi, superbamente sprezzassero e vituperassero il concilio, la cui autoritá è piú divina che umana; il che aveva posto lui in necessitá di pensar alla forza e arme: ed essendo occorso che Cesare ha fatto l’istessa resoluzione, è stato necessitato di congiongersi con lui e aiutarlo, col suo potere e della chiesa romana, a restituir la religione con le arme. Il qual suo conseglio e mente aveva voluto loro significare, acciò congiongessero seco i loro voti, e rendessero alla chiesa romana il pristino onore, e li somministrassero aiuti in una causa tanto pia.
Ma Cesare mostrava di pigliar la guerra non per causa di religione, anzi per rispetti di stato, e perché alcuni li negavano l’obedienza, macchinavano contra di lui con forestieri, e ricusando ubidire alle leggi usurpavano le possessioni d’altri, massime ecclesiastiche, procurando di far ereditari li vescovati e abbazie; ché avendo provato egli diverse vie di piacevolezza per ridurli, s’erano sempre fatti piú insolenti.
Li protestanti dall’altro canto procuravano far manifesto al mondo che tutto nasceva dalle instigazioni del pontefice e del concilio tridentino; raccordavano a Cesare li capitoli giurati da lui in Francfort quando fu creato imperatore, e protestavano dell’ingiuria. Ma molti delli medesmi protestanti si tenevano dalla parte di Cesare, non potendo credere che vi fossero altri rispetti che di stato; e l’arcivescovo di Colonia, del quale si è detto di sopra che, se ben sentenziato e privato dal papa, nondimeno continuava nel suo governo e aveva l’ubedienzia de’ populi, seguiva la parte di Cesare, il quale lo riconosceva ancora per elettore e arcivescovo. Li scrisse ricercandolo che nessuno delli suoi sudditi militasse contra di lui; nel che anco l’arcivescovo si adoperò sinceramente. Il che vedendo l’elettor di Sassonia e il langravio, fecero un pubblico manifesto sotto i 15 di luglio, mostrando che quella guerra era presa per causa della religione, e che Cesare copriva la sua mente con pretesto di vendicare la rebellione d’alcuni pochi, per separar li confederati l’uno dall’altro, e opprimerli tutti a poco a poco. Allegavano che Ferdinando e il Granvella e altri ministri di Cesare avevano attribuita questa guerra all’esser sprezzato il concilio; rammemoravano la sentenzia del pontefice contra l’elettor di Colonia; aggiongevano che li prelati di Spagna non contribuirebbono tanti denari delle proprie entrate per altra causa. Mostravano che del rimanente non poteva Cesare pretender alcuna cosa contra di loro.
Ma tra tanto che il pontefice e l’imperatore preparavano contra luterani altro che anatemi, il dí seguente la sessione, 18 giugno, si fece congregazione, dove, dopo la solita orazione e invocazione dello Spirito Santo, lesse il secretario una scrittura per nome delli legati, formata col parere delli teologi principali, in quale si proponeva che, avendo per inspirazione divina dannato le eresie concernenti il peccato originale, l’ordine delle materie ricercava che fosse esaminata la dottrina delli moderni nel capo della grazia divina, la quale è la medicina del peccato, e tanto piú conveniva a seguir quell’ordine, quanto l’istesso è seguito dalla confessione augustana, quale era scopo del concilio condannar tutta. Ed erano pregati li padri e li teologi di ricorrere all’aiuto divino con le orazioni, ed esser nelli studi assidui ed esatti, risolvendosi in quel capo tutti gli errori di Martino. Imperocché egli dal principio, avendo preso ad oppugnar le indulgenze, vidde di non poter ottener l’intento suo senza distruggere le opere di penitenza, in defetto de quali le indulgenze succedono; e li parve buon mezzo per far questo quella sua non mai piú udita giustificazione per la sola fede; dalla quale poi ha cavato non solo che le buone opere non sono necessarie, ma anco una dissoluta libertá dell’osservazione della legge di Dio e della Chiesa; ha negato l’efficienza nelli sacramenti e l’autoritá delli sacerdoti, il purgatorio, il sacrificio della messa e tutti li altri rimedi per la remissione delli peccati. Onde per la via conversa, volendo stabilire il corpo della dottrina cattolica, conveniva distruggere quest’eresia della giustizia per la fede sola, condannar le biasteme di quell’inimico delle buone opere.
Letta la scrittura, li prelati imperiali dissero quanto piú era principale e importante il capo proposto, tanto dover esser con maturitá e opportunamente trattato; che la missione del Cardinal Madruccio al pontefice mostrava che fosse gran negoziazione in piedi, la qual conveniva avvertir di non sturbare, ma in questo mentre trattar alcuna cosa della riforma. I pontifici dall’altra parte inculcavano che non era dignitá interromper l’ordine incominciato di trattar insieme in ogni sessione dogmi e riforma, e non potersi dopo il peccato originale trattar altra materia che la proposta. Li legati, uditi tutti li voti, conclusero che il discutere le materie e prepararle non era difinirle, ma bene senza la previa preparazione non potersi venir a determinazione; che non era se non bene avanzar il tempo e mettersi in ordine, per eseguir poi quello che a Roma fosse tra il pontefice e il cardinale per nome dell’imperatore risoluto; che il digerir quella materia non impediva il trattar la riforma, poiché in quella si occuperebbono li teologi, in questa li padri e li canonisti. Con questa risoluzione fu concluso che fossero scelti dalli libri di Martino, dalli colloqui, dalle apologie e altri scritti de’ luterani e altri, li articoli per propor in discussione e censura: e furono deputati tre padri e altrettanti teologi per metter insieme quello che fosse raccordato, e ordinare gli articoli.
La congregazione seguente fu tenuta per dar ordine alle materie di riforma: dove disse il Cardinal del Monte, esser molti anni che il mondo si duole dell’assenza dei prelati e pastori, dimandando quotidianamente residenza; che di tutti li mali della Chiesa causa era l’assenza delli prelati ed altri curati dalle chiese loro; e potersi comparar la Chiesa ad una nave, la sommersione della quale s’attribuisce al nocchiero assente, il qual la governerebbe quando fosse presente. Considerò che le eresie, l’ignoranza e la dissoluzione nel populo, li mali costumi e vizi nel clero regnano perché, essendo li pastori assenti dal gregge, nessun ha curato d’instituir quelli e corregger questo. Dall’assenza dei prelati esser nato che sono stati assonti ministri ignoranti e indegni, e finalmente da questo anco esser introdotto l’abuso di promover al vescovato persone atte piú ad ogni altro carico, perché non dovendolo amministrar in persona, vanamente si ricerca chi abbia attitudine per quello. Onde concludeva che il stabilir la residenza era un rimedio policresto per tutti li mali della Chiesa, altre volte adoperato anco da concili e pontefici, ma, o perché allora le transgressioni fossero poche, o per altra causa, non applicato con legature cosí ferme e strette, come è necessario far ora che il male è gionto al colmo, con precetto piú severo, con pene piú gravi e piú temute, e con piú facil modi di eseguire.
Questo fu approvato dalli primi voti de’ prelati; ma quando toccò a parlare a Giacomo Cortesi fiorentino, vescovo di Veson, egli, lodato quello che dagli altri era detto, aggionse che siccome credeva la presenza dei prelati e curati per li tempi vecchi esser stata causa di mantener la puritá della fede nel popolo e la disciplina nel clero, cosí poteva mostrar chiaramente che la loro assenza nelli prossimamente passati non era causa della sovversione contraria, ed esser stato introdotto il costume di non reseder, perché il reseder era totalmente inutile. Che nelli prossimi tempi niente potevano far li vescovi per conservar la dottrina sana nel popolo, quando li frati e li questori hanno autoritá di predicar contra il voler loro; sapersi che le innovazioni di Germania erano nate per le prediche di fra’ Giovanni Techel e di fra’ Martino Lutero; in svizzeri il male aver avuto origine per le prediche di fra’ Sansone da Milano; e niente averebbe potuto far un vescovo residente contra armati di privilegi, se non combatter e perdere. Non poter un vescovo procurare vita onesta nel clero, poiché, oltre l’esenzione generale di tutti li regolari, ogni capitolo ha l’esenzione sua, e pochi preti privati sono senza quest’arma. Che siano assonti ministri atti al carico, non lo può il vescovo per le licenze de promovendo, e per le facoltá che hanno li vescovi titolari, dalli quali non li è stato lasciato manco il ministerio delle pontificali. E si può in una parola dire che i vescovi non risedono perché non hanno che fare, anzi di piú per non far nascere maggiori inconvenienti, come nati sarebbono per la concorrenza e contenzione con li privilegiati. Concluse che siccome si giudicava necessaria la restituzione della residenzia, cosí si trattasse di restituir l’autoritá episcopale. Dalli vescovi che seguirono questo prelato nel parlare fu anco seguita l’istessa opinione, che fosse necessario comandar la residenza e levare le esenzioni che la impedivano. E furono costretti li legati consentire che de ambedue fosse deliberato, che ciascun considerasse e dicesse il parere suo, e deputati padri che formassero il decreto per esser esaminato.
Li deputati a raccogliere gli articoli della giustificazione, avendo ricevuto gli estratti delle proposizioni notate da ciascuno per censurare, non erano intieramente concordi. Una parte di loro voleva che si scegliessero quattro o vero sei articoli fondamentali della nova dottrina, e quelli si condannassero, come s’era fatto nella materia del peccato originale, adducendo che conveniva seguir il principiato stile e l’esempio delli antichi concili, che, dichiarato l’articolo principale e condannata l’eresia, non discesero mai alle particolar proposizioni, ma dannando li libri delli eretici, con quell’universale comprendevano tutta la dottrina perniciosa: e cosí ricercar il decoro del concilio. Ma l’altra parte aveva mira a metter sotto censura tutte le proposizioni che potevano ricever sinistro senso, con fine di condannare quelle che per ragione meritavano; dicendo che questo è l’ufficio del pastore, discernere intieramente le erbe salubri dalle nocive e proibir totalmente queste al loro gregge, poiché una minima trascurata e ricevuta per sana, essendo morbosa, può infettare tutto il gregge. E se si vuol seguire l’esempio de’ vecchi concili, doversi imitare l’efesino, che sopra la dottrina di Nestorio fece li tanti e cosí celebrati anatematismi, che comprendono tutto quello che dall’eretico fu detto; e li concili d’Africa contra li pelagiani, che descendono alla condanna di tutte le proposizioni di questa setta.
La prima opinione senza dubbio proponeva modo piú facile, e averebbe piaciuto a chi desiderava presto fine del concilio, e lasciava aperta qualche fissura alla concordia che il tempo futuro potesse portare. La seconda nondimeno fu abbracciata, con dire che era ben esaminar tutte le proposizioni della dottrina luterana, per censurare e dannare quello che dopo matura discussione fosse parso necessario e condecente. E furono formati venticinque articoli.
I. La fede sola, escluse tutte le altre opere, basta alla salute e sola giustifica.
II. La fede che giustifica è la fiducia per quale si crede li peccati esser rimessi per Cristo, e li giustificati sono tenuti a credere certamente che gli siano rimessi li peccati.
III. Per la sola fede possiamo comparer inanzi a Dio, il qual né cura, né ha bisogno di opere. La sola fede fa puri e degni di ricever l’eucaristia, credendo di dover in quella recever la grazia.
IV. Gli uomini che fanno cose oneste senza lo Spirito Santo, peccano, perché le fanno con cor empio, ed è peccato osservar li precetti di Dio senza fede.
V. La ottima penitenzia è la vita nova, né è necessaria la penitenzia della vita passata. E la penitenzia delli peccati attuali non dispone a ricever la grazia.
VI. Nessuna disposizione è necessaria alla giustificazione, né la fede giustifica perché disponga, ma perché è il mezzo o l’istromento con che s’apprende e si riceve la promessa e la grazia divina.
VII. Il timor dell’inferno non giova per acquistar la giustizia, anzi nuoce ed è peccato, e fa li peccatori peggiori.
VIII. La contrizione, che nasce dalla discussione, rammemorazione e detestazione dei peccati, ponderando la gravitá, moltitudine e bruttezza di quelli, o vero la perdita della beatitudine eterna e l’acquisto della perpetua dannazione, fa l’uomo ipocrita e maggiormente peccatore.
IX. Li terrori, con quali sono spaventati li peccatori internamente da Dio, o esternamente dalli predicatori, sono peccati, sin tanto che siano superati dalla fede.
X. La dottrina delle disposizioni distrugge quella della fede, e leva la consolazione alle conscienze.
XI. La sola fede è necessaria, le altre cose non sono né comandate né proibite, né vi è altro peccato se non la incredulitá.
XII. Chi ha la fede, è libero dai precetti della legge, e non ha bisogno di opere per esser salvo, perché la fede dona tutto abbondantemente, e sola adempisce tutti li precetti, e nessun’opera del fedele è tanto cattiva che possi accusarlo o condannarlo.
XIII. Il battezzato non può perdere la sua salute per qualsivoglia peccato, salvo che quando non voglia credere; e nessun peccato separa dalla grazia di Dio, se non l’infedeltá.
XIV. La fede e le opere sono tra loro contrarie, e non si possono insegnar le opere senza iattura della fede.
XV. Le opere esterne della seconda tavola sono ipocrisia.
XVI. Li giustificati sono liberi da ogni colpa e pena, e non è necessaria satisfazione in questa vita né dopo la morte; e però non vi è purgatorio, né satisfazione che sia parte di penitenzia.
XVII. Li giustificati, ancorché abbiano la grazia di Dio, non possono adempir la legge né schivar li peccati, né manco li soli mortali.
XVIII. L’obedienzia alla legge nei giustificati è tenue e immonda per se stessa, non grata a Dio, ma accettata per la fede della persona reconciliata, quale crede che le reliquie delli peccati li sono condonate.
XIX. In ogni opera buona il giusto pecca, e nessun’opera fa che non sia peccato veniale.
XX. Tutte le opere degli uomini, eziandio santissimi, sono peccati. Le opere buone del giusto per misericordia di Dio sono veniali, ma secondo il rigor del divino giudicio sono mortali.
XXL Se ben il giusto debbe dubitare che le opere sue siano peccati, debbe insieme esser certo che non sono imputati.
XXII. La grazia e la giustizia altro non sono che la divina volontá; né li giustificati hanno alcuna giustizia inerente in loro, e li peccati non gli sono scancellati, ma solamente remessi e non imputati.
XXIII. La giustizia nostra non è altro che la imputazione della giustizia di Cristo, e li giusti hanno di bisogno di una continua giustificazione e imputazione della giustizia di Cristo.
XXIV. Tutti li giustificati sono ricevuti ad ugual grazia e gloria, e tutti li cristiani nella giustizia sono ugualmente grandi come la Madre di Dio, e ugualmente santi come lei.
XXV. Le opere del giustificato non sono meriti della beatitudine, né si può porre alcuna fiducia in loro, ma nella sola misericordia di Dio.
Dati fuori gli articoli, non fu cosí facile ordinar il modo di trattare nelle congregazioni, come mentre si disputò del peccato originale, perché in quella materia trovarono gli articoli giá trattati dalli scrittori scolastici; ma l’opinione di Lutero della fede giustificante, che sia fiducia e certa persuasione della promessa divina, con le consequenze che da quella seguono della distinzione tra la Legge e l’Evangelio, e della qualitá delle opere dependenti dall’una e dall’altra, non fu da alcun scrittor scolastico immaginata; per il che nemmeno confutata o disputata; onde li teologi avevano da travagliar assai, prima per intender il senso delle proposizioni luterane e la differenza loro dalle determinate nelle scole, e poi le ragioni con che distinguerle. Certo è che nel principio alcuni di loro, e li padri per la maggior parte, credevano che, negando li protestanti il libero arbitrio, tenessero opinione che l’uomo nelle azioni esterne fosse come una pietra; e quando attribuiscono la giustizia alla fede sola, negando concorrervi le opere, tenessero per giusto l’uomo il qual crede solamente l’istoria dell’Evangelio, del resto operando quanto si voglia perversamente; ed altre tali assurditá, quanto aliene dal senso comune, tanto piú difficili da confutare, come avviene a tutte le opinioni contrarie alla manifesta apparenza e alla persuasione ricevuta dall’universale.
Fra li teologi, che sin allora erano cresciuti al numero di quarantacinque, la maggior parte era molto tenace nelle opinioni ricevute generalmente dalle scole; e dove li scolastici erano concordi, impazienti di sentir a parlar in contrario; dove le sette scolastiche non convengono, si formalizzavano assai in defesa della propria; e piú degli altri li dominicani, soliti a gloriarsi che per trecento anni la Chiesa per loro opera aveva superate le eresie. Non mancavano con tutto ciò alcuni d’ingegno destro, atti a suspender il giudicio sinché le ragioni fossero pesate. In questo numero era fra’ Ambrosio Catarino senese, dominicano, che poi fu creato vescovo di Minori; un franciscano spagnolo, Andrea de Vega; un carmelitano, Antonio Marinari. Li eremitani, per esser di quell’ordine donde Martino Lutero uscí, affettavano di mostrarsi piú contrari a lui di tutti gli altri, e principalmente il generale Gerolamo Seripando.
Nell’esaminar gli articoli, li primi de’ teologi, per facilitar l’intelligenza delli tre primi, si diedero a ricercar qual è quella fede che giustifica, e quali opere escluda, distinguendole in tre sorti: precedenti la divina grazia, de quali parlano li sette seguenti sino al dieci; concorrenti nel momento stesso con l’infusione di quella; e susseguenti dopo la grazia ricevuta, de quali sono gli altri undici. Che la fede giustifichi convenne presupporlo per indubitato, come da san Paulo detto e replicato. Per risolvere qual fosse quella fede, e in che modo rendesse l’uomo giusto, furono le openioni nel bel principio differenti: imperocché attribuendo la Scrittura molte virtú alla fede, che alcuni non sapevano applicare ad una sola, ebbero la voce per equivoca e la distinsero in molte significazioni, dicendo che ora è presa per la obbligazione a mantener le promesse, nel qual senso san Paulo dice che l’incredulitá degli ebrei non rese vana la fede di Dio; alle volte per la virtú di far miracoli, come quando disse: «Se averò tanta fede che possi transportar li monti». Ancora è presa per la conscienzia, nel qual senso disse: «L’opera che alla fede non si conforma, è peccato»; altre volte per una fiducia e confidenza in Dio che la Maestá sua mantenirá le promesse. Cosí san Giacomo volle che l’orazione sia fatta in fede senza dubitare. Finalmente per una persuasione e assenso fermo, non però evidente, alle cose da Dio rivelate. Alcuni aggiongevano altre significazioni: chi al numero di nove, chi fino quindici.
Ma fra’ Dominico Soto, opponendosi a tutti, diceva che ciò è un lacerar la fede e dar vittoria a luterani, e che non vi erano se non due significazioni: l’una la veritá e realtá di chi asserisce o promette, l’altra l’assenso in chi l’ascolta; e la prima esser in Dio, la seconda esser sola la nostra; e di questa intendersi tutti li luochi della Scrittura che della fede nostra parlano. E il pigliar la voce «fede» per una fiducia e confidenza esser modo non solo improprio ma abusivo, né mai ricevuto da san Paulo: esser la fiducia niente o poco differente dalla speranza; e però doversi aver per indubitato errore anzi eresia quella di Lutero, la fede giustificante esser una fiducia e certezza nella mente del cristiano che gli siano rimessi li peccati per Cristo. Aggiongeva il Soto, ed era seguito dalla maggior parte, che quella tal fiducia non poteva giustificare, per esser una temeritá e peccato, non potendo l’uomo senza prosonzione tener per fermo d’esser in grazia, ma dovendone sempre dubitare. Per l’altra parte teneva il Catarino, con assai buon séguito, che la giustificazione da quella fiducia non proveniva; che il giusto nondimeno poteva, anzi doveva tener per fede di esser in grazia. Una terza opinione portò in campo Andrea Vega: che non fosse temeritá né meno fede certa, ma si poteva aver una persuasione congetturale senza peccato. E questa controversia non si poteva tralasciare, perché sopra ciò versava il punto di censurare l’articolo secondo: per il che prima leggiermente discussa, poi rescaldatesi le parti, divise e tenne in disputa tutto il concilio longamente, per le ragioni e cause che si narreranno. Ma essendo tutti concordi che la fede giustificante è l’assenso a tutte le cose da Dio revelate o dalla Chiesa determinate per essere credute, la qual ora essendo insieme con la caritá, ora rimanendo senza lei, la distinsero in due sorti: una, che si ritrova nelli peccatori, la qual chiamano le scole fede informe, solitaria, oziosa o vero morta; l’altra, che è nelli soli buoni, operante per caritá, e perciò chiamata formata, efficace e viva. E qui un’altra controversia fu, volendo alcuni che la fede, a cui ascrivono le Scritture la salute, la giustizia e la santificazione, fosse la sola viva (come anco fu tenuto dalli cattolici di Germania nelli colloqui), e includesse in sé la cognizione delle cose rivelate, le preparazioni della volontá, la caritá nella qual s’include tutto l’adempimento della legge; e in questo senso non potersi dire che la sola fede giustifica, perché non è sola, poiché è informata dalla caritá. Tra questi il Marinaro non lodava il dire: «la fede è informata dalla caritá», perché da san Paulo non è usato tal modo di dire; ma solo «la fede opera per la caritá».
Altri intendevano che la fede giustificante fosse la fede in genere, senza descender a viva o morta, perché l’una e l’altra giustifica in diversi modi: o compitamente, e questa è la viva; o vero come principio e fondamento, e questa è la fede istorica; e di questa parlare sempre san Paulo, quando gli attribuisce la giustizia, non altrimenti che come si dice che nell’alfabeto è tutta la filosofia, cioè come in una base; che è quasi niente, restando il molto, cioè riporvi sopra la statua. Era sostenuta questa seconda opinione dalli dominicani e franciscani insieme; l’altra era difesa dal Marinaro con altri aderenti. Non però fu toccato il ponto dove versa il cardine della difficoltá, cioè se l’uomo prima è giusto e poi opera le cose giuste, o vero operandole diviene giusto. In un parere erano tutti concordi, cioè il dire: «la fede sola giustifica», essere proposizione di molti sensi tutti assurdi; imperocché Dio anco giustifica, e li sacramenti giustificano, nel genere di causa a sé conveniente; onde la proposizione patisce quella e altre eccezioni. Cosí la preparazione dell’anima a ricever la grazia è essa ancora causa nel suo genere, onde la fede non può escludere quella sorte di opere. Però quanto s’aspetta agli articoli che parlano delle opere precedenti la grazia, che Lutero dannò tutte di peccato, li teologi piú in forma d’invettiva che in altra maniera li censurarono per eretici tutti, dannando parimente di eresia la sentenzia presa in generale, che tutte le opere umane senza la fede sono peccati; avendo per cosa chiara esservi molte azioni umane indifferenti, né buone né cattive, ed essendo anco altre che, quantonque non siano grate a Dio, sono però moralmente buone: e queste sono le opere oneste degl’infedeli e cristiani peccatori, le quali è repugnanza grandissima chiamar insieme oneste e peccati, massime che in questo numero sono incluse le opere eroiche tanto lodate dall’antichitá.
Ma il Catarino sostenne che senza aiuto speciale di Dio l’uomo non può far alcun’opera, quale si possi chiamar veramente buona, eziandio moralmente; ma solo peccato. Per il che tutte le opere degl’infedeli, che da Dio non sono eccitati a venir alla fede, e tutte quelle de’ fedeli, peccatori inanzi che Dio gli ecciti alla conversione, se ben paressero agli uomini oneste, anzi eroiche, sono veri peccati; che chi le loda, le considera in genere e nella esterna apparenza; ma chi esaminerá le circostanze di ciascuna, vi troverá la perversitá. E quanto a questo non era da condannar Lutero, ma sí ben dovevano esser censurati li articoli, in quanto parlano delle opere seguenti la grazia preveniente, che sono preparazione alla giustificazione, quali sono l’abominazione del peccato, il timor dell’inferno e li altri terrori della conscienzia. Per confirmar la sentenzia sua portava la dottrina di san Tomaso, che per far un’opera buona è necessario il concorso di tutte le circonstanze, e per farla cattiva basta il mancamento di una sola; onde, se ben considerate le opere in genere, alcune sono indifferenti: in individuo però non vi è mezzo tra l’aver tutte le circonstanze o mancar di alcuna: per il che ciascuna particolar azione o vero è buona o vero è cattiva, né la indifferente si ritrova. E perché tra le circonstanze uno è il fine, tutte le opere riferite a fine cattivo restano infette; ma li infedeli riferiscono tutto quello che fanno nel fine della loro setta, che è cattivo: per il che, se ben paiono eroiche a chi non vede l’intenzione, sono nondimeno peccati; né esservi differenza che la relazione al fine cattivo sia attuale o abituale, poiché anco il giusto merita, se ben non riferisce l’opera sua attualmente a Dio, ma solo abitualmente. Diceva di piú, portando l’autoritá di sant’Agostino, che è peccato non solamente riferir al mal fine, ma anco il solo non riferir al buono dove si doverebbe; e perché defendeva che senza special aiuto di Dio preveniente l’uomo non può riferir in Dio cosa alcuna, concludeva che non vi potesse esser opera buona morale inanzi. Allegava perciò molti luochi di sant’Agostino, mostrando che fu di questa opinione; allegava ancora luochi di sant’Ambrosio, di san Prospero, di sant’Anselmo e d’altri Padri; adduceva Gregorio d’Arimini e il Cardinal roffense, che nel libro suo contra Lutero senti apertamente l’istesso. Diceva esser meglio seguir li Padri che li scolastici contrari l’un all’altro, e che conveniva camminar col fondamento delle Scritture, dalle quali s’ha la vera teologia, e non per le arguzie della filosofia, per quali le scole hanno camminato; che esso ancora era stato di quella opinione, ma studiate le Scritture e li Padri, aveva trovato la veritá. Si valeva del passo dell’Evangelio: «L’arbore cattivo non può far frutti buoni», con l’amplificazione che soggionse nostro Signore, dicendo: «O vero fate l’arbore buono e li frutti buoni, o l’arbore cattivo e li frutti cattivi». Si valeva sopra li argomenti con grande efficacia del luoco di san Paulo: «Che agl’infedeli nessuna cosa può esser monda, perché è macchiata la mente e conscienza loro».
Ouesta opinione era impugnata dal Soto con molta acrimonia, passando anche allo sgridarla per eretica, perché inferiva che l’uomo non fosse in libertá di far bene e che non potesse conseguir il suo fine naturale: che era negar il libero arbitrio con li luterani. Sosteneva egli poter l’uomo con le forze della natura osservare ogni precetto della legge quanto alla sustanza dell’opera, se ben non quanto al fine; e questo tanto esser abbastanza per evitar il peccato. Diceva esser tre sorti d’opere umane: una, la transgressione della legge, che è peccato; l’altra, l’osservazione di essa per fine di caritá, e questa esser meritoria e a Dio grata; la terza intermedia, quando la legge è ubidita quanto alla sustanza del precetto, e questa è opera buona, morale e nel suo genere perfetta, e che accomplisce la legge e fa ogni opera moralmente buona, cosí schivando ogni peccato. Moderava però quella tanta perfezione della nostra natura con aggiongere che altro fosse guardarsi da qualonque peccato, che da tutti i peccati insieme; dicendo che può l’uomo da qualonque guardarsi, ma non da tutti, con l’esempio di chi avesse un vaso con tre forami che, avendo due mani sole, non può otturarli tutti, ma ben qualonque di essi vorrá, restandone per necessitá uno aperto.
Questa dottrina ad alcuni delli padri non sodisfaceva; perché, quantonque demostrasse chiaro che tutte le opere non sono peccati, non salva però intieramente il libero arbitrio, seguendo per consequenza necessaria che non sará libero al schifar tutti li peccati. Ma dando titolo di buone a queste opere, il Soto si vedeva angustiato a determinare se erano preparatorie alla giustificazione: li pareva il sí, considerando la bontá di esse; li pareva di no, attendendo la dottrina di Agostino approvata da san Tomaso e dalli buoni teologi, che il primo principio della salute è dalla vocazione divina. Da queste angustie sfuggí con una distinzione: che erano preparatorie di lontanissimo, non di vicino; quasi che, dando una preparazione di lontano alle forze della natura, non si levi il primo principio alla grazia di Dio.
Li franciscani non solo tal sorte di opere volevano che fossero buone e che preparassero alla giustificazione veramente e propriamente, ma ancora che fossero in un modo proprio meritorie appresso la Maestá divina; perché Scoto, autore della loro dottrina, inventò una sorte di merito, che attribuí alle opere fatte per forza della sola natura, dicendo che de congruo meritano la grazia per certa legge e infallibilmente, e che per sola virtú naturale l’uomo può aver un dolor del peccato, che sia disposizione e merito de congruo per scancellarlo; approbando un vulgato detto delli tempi suoi, che Dio non manca mai a chi fa quello dove le sue forze si estendono. Ed alcuni di quell’ordine, passando questi termini, aggiongevano che se Dio non dasse la grazia a chi fa quello che può secondo le sue forze, sarebbe ingiusto, iniquo, parziale e accettator di persone. Con molto stomaco e indignazione esclamavano che sarebbe grand’assurditá se Dio non facesse differenza da uno che vive naturalmente con onestá ad uno immerso in ogni vizio; e non ci sarebbe ragione perché dasse la grazia piú ad uno che all’altro. Adducevano che san Tomaso anco fosse stato di questa opinione, e che altrimenti dicendo, si metteva l’uomo in desperazione e si faceva negligente a ben operare, e si dava alli perversi modo di scusar le loro male opere e attribuirle al mancamento dell’aiuto divino.
Ma li dominicani confessavano che san Tomaso giovane ebbe quell’opinione, e vecchio la retrattò; la reprendevano, perché nel concilio di Oranges, detto arausicano, è determinato che nessuna sorte di merito preceda la grazia, e che a Dio si debbe dare il principio; che per quel merito congruo li luterani hanno fatto tante esclamazioni contra la Chiesa, ed era necessario abolirlo totalmente, sí come non era mai stato udito nelli antichi tempi della Chiesa in tante controversie con pelagiani; che la Scrittura divina attribuisce la nostra conversione a Dio, dalla forma del parlar della quale non conveniva dipartirsi.
Intorno le preparazioni, nella sostanza della dottrina, non vi fu differenza: tutti tenevano che dopo l’eccitamento divino sorge il timore e le altre considerazioni della malignitá che è nel peccato. Censurarono per eretica l’opinione che fosse cosa cattiva perché Dio esorta il peccatore, anzi lo move a queste considerazioni; e non si debbe dire che Dio mova a peccato. E di piú l’ufficio del predicatore non è altro se non con questi mezzi atterrir l’animo del peccatore; e perché tutti passano per questi mezzi dallo stato del peccato a quello della grazia, pareva gran maraviglia che non si potesse passar dal peccato alla giustizia se non per il mezzo d’un altro peccato. Con tutto ciò non potevano liberarsi dalla difficoltá in contrario, perché tutte le opere buone possono star con la grazia; quel timore e le altre preparazioni non possono restar con quella, adonque sono cattive. Fra’ Antonio Marinaro era di parere che la differenza fosse verbale, e diceva che, si come passando da un gran freddo al caldo, si passa per un grado di freddo minore, il qual non è né caldo né freddo novo, ma l’istesso diminuito, cosí dal peccato alla giustizia si passa per li terrori e attrizioni, che non sono né opere buone né novi peccati, ma li peccati vecchi estenuati. Ma in questo, avendo tutti gli altri contrari, fu costretto ritrattarsi.
Delle opere fatte in grazia non fu tra loro difficoltá, tutti affermando che sono perfette e meritorie della vita eterna, e che l’opinione di Lutero, che siano tutte peccati, è empia e sacrilega: avendo per biastema che la beata Vergine abbia commesso un minimo peccato veniale, come poi potrebbono l’orecchie sostenere d’udir che in ogni azione peccasse? Che doverebbe la terra e l’inferno aprirsi a tante biasteme.
Nel capo dell’essenzia della divina grazia per censura delli articoli XXII e XXIII, fu comune considerazione che la voce «grazia» in prima significazione s’intenda una benevolenza o buona volontá, la quale, quando è in chi abbia potere, partorisce di necessitá anco un buon effetto, che è il dono o beneficio, quale esso ancora è chiamato grazia. Li protestanti aver pensato che la maestá divina, come che non potendo di piú, ci faccia solo parte della sua benevolenza; ma la onnipotenza divina ricercava che ci aggiongesse il beneficio in effetto. E perché alcuno averebbe potuto dire che la sola buona volontá divina, che è Dio medesimo, non può aver cosa maggiore, e che anco l’averci donato il Figliuolo era un sommo beneficio, e che san Gioanni, volendo mostrar il grand’amore di Dio verso il mondo, non allegò altro che aver dato il Figlio unigenito, soggiongevano che questi sono benefici comuni a tutti, e che conveniva che ci facesse un presente proprio a ciascuno. E però li teologi hanno aggiorno una grazia abituale, donata a ciascun giusto la sua, la quale è una qualitá spirituale creata da Dio e infusa nell’anima, per la quale vien fatta grata e accetta alla divina Maestá; della quale se ben non si trova espressa parola nelli Padri e meno nella Scrittura, nondimeno si deduce chiaramente dal verbo «giustificare», il quale essendo effettivo per necessitá, significa «far giusto» con impressione di real giustizia; la qual realtá non potendo esser sostanza, non può esser altro che qualitá e abito.
Ed in questa occasione fu trattato longamente contra li luterani, che non vogliono il verbo «giustificare» esser effettivo, ma giudiciale e declarativo, fondandosi sopra la voce ebrea tzadak e sopra la greca δικαιοῠν che significano «prononciar giusto», e per molti luochi della Scrittura del novo e vecchio Testamento; che anco nella traduzione latina è usata in tal significazione, e se ne allegava sino quindici. Ma il Soto escludeva tutti quelli di san Paulo che parlano della nostra giustificazione, ed in quelli diceva non potersi intender se non in significazione effettiva. Di che nacque gran disputa tra lui e il Marinaro, al quale non piaceva che si fondasse in cosa cosí leggiera; ma diceva l’articolo della grazia abituale non poter ricever dubbio, come deciso nel concilio di Vienna e sentenzia comune di tutti i teologi; e questo essere un far sodi fondamenti che non possono esser destrutti; e non voler dir che san Paulo Ai romani, quando dice che Dio giustifica, non intenda in senso declarativo, contra il testo manifesto che mette un processo giudiciale, dicendo che nessun potrá accusare né condannar li eletti da Dio, essendo Dio che li giustifica; dove li verbi giudiciali «accusar» e «condannar» mostrano che il «giustificar» sia voce di fòro parimente.
Ma li franciscani provavano la grazia abituale, perché la caritá essa è un abito. E qui fu disputato acremente tra loro e li dominicani, se l’abito della grazia era l’istesso con quello della caritá, come Scoto vuole, o pur distinto, come piacque a san Tomaso. E non cedendo alcuna delle parti, si passò a cercare se, oltra questa grazia o giustizia inerente, viene anco al giustificato imputata la giustizia di Cristo come se fosse propria sua; e questo per l’opinione di Alberto Pighio, il qual, confessando la inerente, aggionse che in quella non conviene confidarsi, ma nella giustizia di Cristo imputata, come se nostra fosse. Nessun metteva dubbio se Cristo avesse meritato per noi, ma alcuni biasmavano il vocabolo «imputare», e volevano che fosse abolito, non trovandosi usato dai Padri, quali si sono contentati delli nomi «comunicazione, participazione, diffusione, derivazione, applicazione, copulazione, congiunzione». Altri dissero che, constando della cosa, non era da far forza sopra una voce, che ognuno vede significare precisamente l’istesso che le altre; la quale, se ben non da tutti e con frequenza, fu però alle volte usata: si portava l’Epistola centonove di san Bernardo per questo. E il Vega defendeva che veramente, quantonque il vocabolo non si trovi nella Scrittura, nondimeno è proprissimo e latinissimo il dire che la giustizia di Cristo è «imputata» al genere umano in satisfazione e merito, e che continuatamente è anco imputata a tutti quelli che sono giustificati e satisfanno per li propri peccati; ma non voleva che si potesse dire che è imputata come se fosse nostra. Al che essendo opposto che san Tomaso usa di dire che al battezzato è comunicata la passione di Cristo in remissione, come se esso l’avesse sostenuta e fosse morto, sopra le parole di san Tomaso vi fu longa e gran contenzione. Il general eremitano tenne opinione che nel sacramento del battesmo la giustizia di Cristo sia imputata per esser in tutto e per tutto comunicata; ma non nella penitenzia, dove ci bisognano anco le nostre sodisfazioni. Ma il Soto disse che la parola «imputazione» era popularissima e aveva molto del plausibile; perché in primo aspetto altro non significa, se non che tutto si debbe riconoscer da Cristo; ma che egli l’aveva sempre avuta per sospetta, attese le cattive consequenze che da quella li luterani cavano, cioè che questa sola sia sufficiente, e non facci bisogno de inerente, che li sacramenti non donano grazia, che insieme con la colpa si scancella ogni pena, che non resta luoco alla sodisfazione, che tutti sono uguali in grazia, giustizia e gloria: di onde deducono anco quella abominevole biastema che ogni giusto è uguale alla beata Vergine. Questo avvertimento mise tanto sospetto nelli audienti che si vidde manifesta una inclinazione a dannar quella voce come eretica, quantunque fossero replicate efficacemente le ragioni in contrario.
Le contenzioni tra teologi nascevano per certo dall’affetto immoderato verso la propria setta, ma vi si aggiongeva anco fomento da diversi per vari fini. Dall’imperiali, per costringere ad abbandonar la giustificazione; dalli cortegiani romani, per trovar modo di separar il concilio e fuggir la riforma imminente; e da altri, per liberarsi dalli disagi, che temevano maggiori per la carestia o per la guerra imminente, gionta la poca speranza di far frutto.