Delo

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Callimaco - Inni (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Dionigi Strocchi (1816)
Delo
Diana Pallade


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E quando, ingegno mio, quando la cuna 1
     D’Apollo canterai? Sono di rima
     Degnissime le Cicladi ciascuna,

Imperocchè d’onor seggono in cima
     5Nei campi d’Ocean, ma per costume
     Delo cantar le Muse aman la prima,

Delo che sparse del corrente fiume
     Il re dei carmi, e nelle fasce il chiuse,
     E a lui prima inchinò siccome a nume.

10Chi non canta Pimplea spiace alle Muse,
     E chi Delo non canta a Febo spiace;
     Ed io, perchè mi sien sue grazie schiuse,

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Delo rammenterò. Nel ponto giace
     Combattuta da’ venti isola incolta
     15Di smerghi più, che di corsier ferace;

A lei l’Icario pelago di molta
     Schiuma flagella i lidi, a cui si accoglie
     Gente che va per le marine in volta.

Non è però baldezza il dir, che toglie
     20Quest’una il grido e l’onoranza a quante
     Di Teti e d’Oceano entran le soglie.

Ella cammina a ciascheduna innante, 2
     La Fenicia appo lei Corsica incede,
     Su le cui poste Eubea move le piante; 3

25Quarta è Sardegna, e da sezzo procede
     Quella a cui riparossi il dì, che a terra
     Dalle spume del mar Venere diede.

Queste un cerchio di torri affida e serra,
     Te Febo, o Delo; e quai più salde mura?
     30Lo Strimonio Aquilon le pietre atterra,

Ma non atterra un Dio: tu di sventura,
     Isoletta gentil, non hai sospetto,
     Nell’usbergo di tal vivi sicura;

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E poiché l’are tue drappello eletto
     35Sempre fa risuonar di canti amici, 4
     Quale a scoltar più ti sarà diletto?

Canterò forse come le pendici
     Col temprato tridente dai Telchini 5
     Nettuno sollevò dalle radici?

40E riversando in mar giù nei marini
     Fondi legò le poderose some
     Tutti i terrestri ad obliar confini?

O più dolce ti fia memorar come
     Correvi in libertà l’equoree strade,
     45Quando il nome d’Asteria era il tuo nome?

Che fuggendo del ciel l’alte contrade,
     E del Saturnío dio l’ardente zelo
     In mar cadesti, come un astro cade.

E mentre che li due occhi del cielo
     50Latona a partorire in te non sorse,
     Asteria ti chiamarono, e nò Delo.

Spesso il nocchier, che il mar d’Efira corse 6
     Dando le vele al vento di Trezene,
     Nella marina di Saron ti scorse;

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55Nè veleggiando alle medesme arene
     Te discovri, che volta eri alla sponda,
     A cui romoreggiando Euripo viene;

Laonde, se della Calcidic’onda
     Il fragoroso mareggiar ti nuoce,
     60Corri nell’ocean, che Sunio inonda; 7

Ed ora a Chio ti volgi, ora veloce
     Fai di Partenia all’isola ritorno,
     Che allora non avea di Samo voce, 8

E del vicino Anceo trovi il soggiorno;
     65Ma poichè Febo nel tuo grembo nacque,
     Nome di Chiara ti suonò d’intorno: 9

Che i piè fermando dell’Egèo nell’acque
     Più non errasti oscuramente dove
     A fortuna di mare e ai venti piacque;

70Nè te minaccia di Giunon commove,
     Che sempre pone a sua vendetta segno
     Le genitrici dei figli di Giove;

E più profondamente in cor di sdegno
     Struggesi per colei, che in tal s’incinge,
     75Onde sarà d’amor Marte men degno.

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Dalle porte del cielo il viso pinge,
     E alla dolente ogni terren difende,
     Siccome l’ostinato odio la stringe.

A stanza della dea Marte là scende,
     80Dove l’altre montagne Emo soggioga10
     La terra a discovrir quanto si stende;

In questo mezzo i corridori alloga
     Nella spelonca, onde Aquilon mugghiante
     Per settemplice porta si disfoga;

85D’altra parte la figlia di Taumante
     Tutti dell’ampio sal gli azzurri campi
     Riguardando, sedea sopra Mimante,

E ad ogni arena che Latona stampi
     Significando in minaccevol fronte,
     90Che nulla in se la peregrina accampi.

Fuggì l’Arcade terra e il sacro monte
     D’Auge, fuggì Peloponeso in uno, 11
     E di Fenèo il vecchiarello fonte.

Egìalo ed Argo non fuggì sol uno,
     95E non trasse Latona a quel terreno,
     Che dell’Inaco il corso è sacro a Giuno.

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Fuggì l’Aonia, e via con lei fuggiéno
     E Dirce e Strofia come avesser’ali,
     Strette alla man dell’arenoso Ismeno.

100Con elle Asopo, e non con passi uguali, 13
     Ma lento e zoppicando a tergo sprona,
     Siccome tocco da superni strali.

Le danze per timor Melia abbandona, 14
     Che la scorza materna e le native
     105Mira ondeggiar pendici d’Elicona.

Ditemi, o Muse mie dilette dive,
     Produce un parto una medesim’ora
     Driadi e querce per selvagge rive?

Se Giove il crin della foresta infiora
     110Godon le ninfe, e se di foglie è nuda,
     Dolenti ed egre ciascheduna plora.

Ancorchè nel materno alvo si chiuda
     Febo si accende alle magnanim’ire,
     E a Tebe fa questa minaccia cruda:

115Tebe, Tebe infelice, e qual desire
     Hai di sapere il tuo destino tristo,
     Perchè mi sproni mal mio grado a dire?

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Del tripode di Pizia io non acquisto
     Le sedi ancora; le pilose gote
     120Dell’orrid’angue, che strisciò da Plisto, 15

Non sanno ancor con che piaga percote
     La mia faretra, ei tuttavia circonda
     Il Parnaso nival con nove rote.

Pur dirò ver più che di lauro fronda:
     125Fuggi quantunque sai, le mie quadrella
     Io laverò del sangue tuo nell’onda. 16

Colle di Citerone, in te di quella
     Presuntuosa la semenza vive;
     Culla non mi sarà tua piaggia fella,

130S’addice a buoni amar l’anime dive:
     Latona a queste voci andò retrorso
     In cor volgendo le contrade Achive.

Poichè d’Elice quivi invan soccorso 17
     E di Bura aspettò, ver la campagna
     135Della Tessaglia dirizzò suo corso.

Vide lì di Chiron l’alta montagna, 18
     E dell’Anauro il rio fuggir veloci,
     E Larissa e Penèo, che Tempe bagna:

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Nè allora o Giuno i tuoi spirti feroci
     140Manco s’intenerian, quando le inferme
     Braccia levò con queste vane voci:

Ninfe del fiume di Tessaglia germe,
     Al vostro genitor dite, che stia
     Con le preste onde sue tanto pur ferme,

145Che la prole di Giove al mondo io dia,
     E con pregarlo e carezzargli il mento
     Intrattenetelo: O Penéo di Ftia,

Tu non dai udienza al mio lamento,
     Sul dorso già d’un corridor non siedi,
     150Perchè nel tuo fuggir disfidi il vento?

Sempre avestu così leggieri i piedi,
     Sei tu con questo vol sempre disceso,
     O sol fuggi così quando mi vedi?

Dove ti porterò dolce mio peso?
     155Abbandona la lena il corpo stanco;
     O talamo di Filira scosceso,

Soggiorna tu, Peliaco monte, almanco:
     Vengono in tue foreste orse e leene
     A disgrevar del crudo pondo il fianco.

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160Con luci a lei Penéo di doglia piene:
     Necessitade! inesorabil nume!
     Non io niego ti fo delle mie vene,

Nè sono sconoscente a madri fiume;
     Giuno, che avvampa di gelosa rabbia,
     165A questa fuga mi vestì le piume.

Non vedi tu la spaventosa labbia
     Della vigilia, che mi adocchia ognora,
     E far mi può che a lagrimar sempre abbia?

Ma se fermato in cielo è già, ch’io mora,
     170E questa è pur la tua soave brama,
     Vegna vegna la mia novissim’ora.

Benchè sfregiato dell’antica fama
     Mi deggia rimaner rena scoverta,
     Ecco soggiorno: tu Lucina chiama.

175Marte la vetta sollevò d’un’erta 19
     Minacciando Penéo, che incontanente
     Tutta quanta gli avria l’onda deserta.

La rotella toccò con l’asta ardente,
     E quella sì rispose alla percossa
     180Romoreggiando spaventosamente,

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Che le valli Cranonie, i gioghi d’Ossa,
     La montagna di Pindo e la Tessaglia
     Tutta si fu per lo fragor commossa.

Non così Briareo, che si travaglia
     185Sotto la rupe e le caverne estreme
     Crollando, il fumo e le faville scaglia;

Nè la fornace Etnéa sì forte geme
     Quando il martello di Vulcan l’introna,
     O cadendo i treppiè cozzano insieme.

190Tanto quel bronzo orribilmente suona;
     Pur non mosse Penéo le piante mai
     Infin che: vale, gli gridò Latona.

Non vo’ la mia cagion, che a mieter guai
     Abbi da cortesia: mercede degna
     195A tua benigna volontade avrai.

E tragge al mare: e a qualche isole vegna,
     Proda non trova a’ suoi desiri molle,
     Non l’ospital Corcira e non Sardegna,

Che di paura sì dall’alto colle
     200Di Mimante accennando Iri le punge,
     Che ciascheduna per fuggir si tolle;

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Quindi agli alberghi di Calciope aggiunge, 20
     All’isola di Coo, laonde il figlio
     Con questo ragionar la tenne lunge:

205Qui non gradisco al dì schiudere il ciglio,
     Nè già questa isoletta che verdeggia
     Tutta d’erbe e di fiori a vile io piglio;

Statuito dai cieli è che qui deggia
     Nascere un altro Iddio, famosa verga
     210Del Macedone stel, che tanta greggia

Correggerà colla possente verga,
     Quanta non vede il mar, quanta il mar serra,
     E quanta Aurora e quanta Espero alberga;

Tutta a sue man si recherà la terra,
     215I paterni costumi avrà con seco,
     E verrà tempo un dì, che ad esso guerra

Rotta sarà comunemente meco,
     E i figli de’ Giganti, il Celto Marte, 21
     E le barbare spade al lido Greco

220Moveran dall’Esperia ultima parte,
     A nevi a stelle in numero sembianti,
     Quando la notte al ciel più ne comparte.

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Quanti di Crissa la campagna, quanti
     La Delfich’erta e la vallea Locrese,
     225E tutta allor darà la terra pianti,

Quando le messi del vicino incese
     Non udran, ma vedranno, e il mio soggiorno
     Assiso, e l’are mie dall’oste offese.

Spade adunate a’ miei tripodi intorno,
     230Svergognati cintigli, aste e pavesi.
     Daranno al pazzo stuol tristo ritorno.

Gli scudi, visti i lor baiuli accesi,
     Del Nilo al vincitor parte si denno,
     Parte saranno a’ miei delubri appesi.

235O Tolomeo, ti loderai del senno,
     Che tuttavia sì chiuso al vero mira;
     Tu madre ascolta ciò, ch’ora ti accenno.

Isola piccioletta in mar si aggira,
     Che non ha propria stanza, e come foglia
     240Va secondo che Noto od Euro spira:

Liete accoglienze di benigna soglia
     Là troveremo; e di fuggir più presto
     A tal sermone ogn’isola s’invoglia.

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Tu, Asteria, dall’Eubea scendevi in questo
     245Le Cicladi a trovare, e i lidi pieni
     Mostravi ancor dell’alga di Geresto; 22

Veduta la dolente il corso affreni,
     E a lei porgendo le pietose braccia,
     Vieni dicesti a me, Latona, vieni.

250Adempia Giuno la crudel minaccia,
     Esser non calmi a sue vendette scopo.
     Qui terminò la faticosa traccia

Latona, e al margo si corcò d’Inopo 23
     Più ricco allor, che più con larga vena
     255Cade il Nilo dal suo capo Etiòpo,

E al pedal d’una palma inchina, e piena 24
     Le membra di sudor discinse i panni,
     E disperata nell’immensa pena:

Perchè, figlio, così la madre affanni?
     260Noi siam venuti all’isoletta bella
     Usata aprir per l’oceano i vanni.

Nasci nasci, diceva. Aspra sorella,
     Di Giove, all’ira tua già non convenne
     Aspettarne lung’ora in ciel novella.

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265Spiegò per l’aria le dipinte penne
     Iride la veloce messaggiera,
     E anelando e temendo a te divenne,

E cominciò: tu prima infra la schiera
     Sei delle dive, ed io la tua suggetta,
     270L’umile terra e la superna spera

Regger come a regina a te si aspetta,
     O sola feminil temuta mano,
     Or dirò la cagion della mia fretta. 25

Latona partorì nell’oceano,
     275Letto Asteria gli fè de’ lidi suoi,
     A tutte l’altre approssimossi invano.

Ahi! maledetta ragna! Or tu che il puoi 26
     Diva, soccorri a chi nel mondo il suono
     Vola portando de’ decreti tuoi.

280Disse, e locossi accanto all’aureo trono,
     Siccome i veltri di Diana fanno,
     Se dal lungo cacciar racqueti sono,

Che vicin della diva a porsi vanno
     Obedienti, e con le orecchie tese
     285All’impero di lei parati stanno.

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Similemente a Giuno Iri si rese,
     Da cui nè manco allora si dispiega,
     Che il sonno sovra i rai l’ali le stese.

Tanto la testa sonnolenta piega
     290Alle colonne dell’aurato soglio,
     Nè i talari giammai nè il cinto slega.

Varco la diva qui dando al cordoglio:
     Sempre così, diceva, o concubine
     Di Giove, in qualche desertato scoglio

295Non altrimenti che foche marine
     Celar nozze e portati vi sia forza,
     Nè dove manco è licito a meschine.

Ira m’infiamma e a far vendetta sforza
     Di chi male a pietà volse il desio,
     300La cara Asteria ogni mio sdegno ammorza,

Perocchè le perdona ogni suo rio
     L’aver preposte le marine spume
     Ai complessi di Giove e al letto mio.

I cigni in questa le purpuree piume
     305Levar dall’acque del natio Pattolo,
     I quai congratulando al novo nume

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Sette volte accerchiar Delo col volo,
     E quantunque fiate in ciel non tacque
     Il dolce metro del canoro stuolo,

310Di tante fila d’oro a Febo piacque
     Armar la cetra sua; non era ancora
     Messo l’ottavo suon, che il nume nacque.

Intuonar l’inno di Lucina allora
     Le ninfe dell’Inopo, a cui per l’etra
     315D’ogn’intorno rispose Eco sonora.

Qui per voler di Giove ira si arretra
     Dal petto di Giunon: qui Delo in auro
     Mutar le antiche fondamenta impetra,

Tinse la chioma sua l’olivo in auro,
     320Spumò d’auro l’Inopo, e quel terreno,
     Che il fanciullo toccò, rifulse in auro;

Donde il togliendo e riponendo in seno
     Dicesti: o terra immensa, che di molti
     Altari il grembo e di cittadi hai pieno,

325Isole circostanti e pingui colti,
     Infeconda qual sono avrommi vanto,
     Che Apollo nominar Delio si ascolti.

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Non fia diletta a nume altra cotanto,
     Non Cillene a Mercurio, a Giove Creta,
     330E non Cencri a Nettuno, a Febo io quanto, 27

E come l’altre in mar mi starò cheta:
     Mentre favelli, il figlio di Latona
     Alle materne poppe si disseta.

Da indi in quà nè Marte nè Bellona
     335S’attentano appressar tue sante rive,
     E la mano di Pluto a te perdona, 28

E viene ad intrecciar danze votive,
     E l’are a te di novellizie adorna,
     Tornando il Sol nelle giornate estive,

340Qual colà dove annotta e dove aggiorna,
     Quale alla piaggia di meriggio aprica,
     E quale alla gelata Arto soggiorna.

Questa la più di ciascun’altra antica
     Boreal nazione ogni anno manda
     345Un manipolo a te di nuova spica,

E ai Dodonei custodi l’accomanda
     De’ sonanti metalli, e di là scorto
     È poi di Meli alla petrosa banda;

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Quindi ritrova navigando il porto
     350D’Eubea, contrade degli Abanti opime.
     Laonde a’ lidi tuoi giungere è corto.

Loxo con Opi ed Ecaerge prime
     Recar dagli Arimaspi alle tue prode
     Queste di messe biondeggianti cime;

355Le conseguia di giovinetti un prode
     Drappel, che il suol natio poi non rivide,
     Fatto immortal per sempiterna lode.

A ricordo di quelli il crin recide
     Ancor ciascuna vergine di Delo,
     360Quando Imen dalla madre la divide;

E a quei garzon dell’Iperboreo cielo
     Ogni donzello consacrar desira
     Delle tenere gote il primo velo.

Te, Asteria, un cerchio d’isolette aggira,
     365Te il fumo ognor degli olocausti ammanta,
     Nè te mai taciturna Espero mira.

Chi del vecchio di Licia i versi canta,
     Olen da Xanto divino poeta, 29
     Chi il suol percote con allegra pianta,

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370E chi di Citerea vela con lieta
     Fronda l’imago, che il figliuol d’Egéo
     Sacrò con quei, che s’allargar da Creta,

Che il muggito e l’error Laberintéo
     Fuggendo, intorno a tua sacrata stanza
     375Guidar carole, e le reggea Teséo.

Per la memoria dell’antica danza
     Un naviglio e un drappel mandare ancora
     I Cecropidi a Febo han per usanza. 30

Qual navigante dell’Egéo la prora,
     380Isoletta gentil, da te ritorse
     Per cure o per chiamar di agevol’ora.

Se prima intorno all’are tue non corse
     Sott’essi i colpi del sacro flagello,
     E avvinto nelle man l’ulivo morse? 31

385Trovò tai ludi a Febo tenerello
     Una ninfa di Delo. O bella riva,
     Che, qual nel centro di ciascuno ostello

A Vesta sacro un focolar si avviva,
     Ti siedi in mezzo alle marittim’acque,
     390Salve, e tu salve o Febo, e quella diva,

Che teco di Latona al mondo nacque.


Note