Il romanzo della morte/IX
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IX.
In quei giorni cadde una enorme quantità di neve che il freddo intenso fece gelare.
Ciò ispirò a Fausto il pensiero di andare a morire nella campagna, in mezzo alla neve.
Varie altre maniere di morte, lungamente discusse, quasi accettate, erano state messe da parto per diversi motivi. Vi era sempre il pericolo di essere scoperti troppo presto, o di non riuscire completamente.
La campagna gelata offriva un nascondiglio più sicuro e accontentava l’immaginazione.
La mattina del 28 dicembre — un sabato — Fausto mandò alla fanciulla i primi giacinti fioriti nella piccola serra ch’egli coltivava; e coi fiori della morte, questo breve biglietto:
“Vado a cercare il nostro nido: questa sera vi andremo insieme, mentre gli altri saranno in teatro. Mi tarda di averti con me per sempre.„
Egli uscì di città passando per il ponte coperto, celebre costruzione che costituisce una porta di Pavia a cui il Ticino dà il nome.
Il fiume era alto e scendeva lento e maestoso, inseguito dalla nebbia bassa bassa, che il vento portava sulla medesima direzione.
Il giovine camminava del suo passo ordinario, guardando lontano, all’orizzonte, dove la massa argentea dell’acqua sembrava congiungersi col cielo grigio, pesante.
Lunghe file di carri carichi di legna, di ghiaccio, di sassi, passavano vicino a lui, fra le cento colonne di granito che sostengono il tetto del ponte. Ogni tanto, un calessino; degli uomini intabarrati, il capo coperto da cappelli a larghe tese.
Era giorno di mercato a Pavia. Quelli che già avevano conchiuso i loro affari se ne ritornavano alle loro case. Altri, pochi, giungevano appena.
Il freddo intenso arrossava i nasi; i fiati gravi fumavano come i caminetti delle pipe.
Sulla neve gelata, su i carichi dei carri, su tutte le superficie immaginabili, la brina alta alcuni centimetri, scintillava come cristallo sfaccettato.
Sulla Via dei Mille, sozze baracche di rivenditori di commestibili aperte in pieno gelo; ragazzi sudici o intirizziti; la facciata, stupenda di Santa Maria in Betlemme; qualche bella casa; una fila di casuccie; e luridi monticelli di nevo fangosa e nera, attendenti il disgelo, parte per parte, presso agli ingressi delle abitazioni.
Alla fine del Borgo, sulla strada di campagna, una donna che pareva cieca, con due bambini seduti contro le sue ginocchia, cercava di toccare il cuore ai passanti.
— Mi dia volentieri qualche centesimo per questi piccini!
La voce nasale e rauca recitava questa lezione imparata a memoria, come un pezzo di orazione. I bimbi, tremanti di freddo, incretiniti da quella vita, guardavano i passanti con occhi stupidi.
Fausto, tra infastidito e pietoso, gettò una moneta.
Allora la voce fioca si rianimò per benedire il benefico passeggero.
— Dio gli dia bene! Vita lunga e felice! Tutto quello che desidera!
— Vita lunga e felice! — balbettavano i piccini con le labbra paonazze.
Ma altri passanti si avvicinavano; e subito la cieca — falsa od autentica — mutava metro ripigliando il suo ritornello, senza transazione, parola per parola, come un fonografo.
Un pallido sorriso passò sulle labbra di Fausto.
La vita! l’eterna commedia!
Ed ecco a pochi passi di là un altro povero, col braccio al collo; e poi uno sciancato, una vecchia pellagrosa; e, immancabile, il vecchio cieco coi solito cane, unica guida fedele.
Il mercato attirava quei disgraziati, istintivamente filosofi e osservatori; poichè, chi va al mercato per tentare un colpo cede facilmente alla superstizione o dà il suo obolo per timore di un cattivo augurio; e chi ritorna dall’aver fatto un buon affare apre facilmente il cuore alla pietà o ai sentimenti generosi.
Tutti d’accordo quegli affamati gettavano a Fausto l’eterno augurio.
— Vita lunga e felice... Tutto quello che desidera!...
Ma il pensiero del giovine medico, un istante distratto, tornò a concentrarsi.
La strada era ora isolata ed alta, come un ponte, in mezzo ai campi di neve che si avvallavano, orlati da filari interminabili di salici ed alberello. La brina scintillante decorava i rami sottili e sfrondati; e a tutta la campagna, uniforme e bassa; il gelo e la neve davano una bellezza fantastica.
Di tratto in tratto; in mezzo ai diari; o più in là, un olmo solitario sorgeva come un gigante tra una folla di mediocri.
Sulla vasta distesa dei campi la neve intatta era interrotta a distanze regolari da mozziconi neri di gelsi potati; strani cadaveri aspettanti la risurrezione primaverile. E da tutte due le parti l’orizzonte pareva chiuso da una larga zona di fumo nero che in alto si schiariva prendendo dei toni grigi, perlacei, violetti, rossicci... A poco a poco l’occhio scopriva che erano gli scheletri neri di grandi boschi avvolti nella nebbia.
Sulla strada continuava il passaggio dei calessini, dei tabarroni, dei grandi cappelli.
La figura elegante di Fausto, il bel viso espressivo e nobile, destavano una certa curiosità.
I campagnuoli intabarrati lo guardavano di sotto in su; avendo l’aria di chiedersi; dove poteva andare a quell’ora e con quel po’ po’ di freddo; un signorino in paletot corto e attillato.
Certo non potevano supporre qual lugubre meta egli si proponesse. Altre immaginazioni occorrevano; altre intelligenze per leggere in quello sguardo limpido e freddo; in quel viso fresco e delicato; su cui la sventura non aveva ancora avuto il tempo d’imprimere il suo marchio.
Quanto a lui; non guardava nessuno; forse non vedeva che ombre confuse. Gli occhi suoi non si staccavano dal paesaggio; che gli appariva animato e coscente e legato a lui e al suo destino per recondite simpatie.
Si fermava di tratto, in tratto, senza volontà determinata, dinanzi agli stagni gelati, fantastici specchi su cui si riflettevano bizzarri disegni, misteriose immagini.
La lucentezza grigiastra di quegli abissi trasparenti attirava le sue pupille. Ed egli guardava senza pensare, in quello stato di vaga inconsapevolezza piena d’immagini, propria alle nature poetiche nelle ore desolate.
A un dato punto, sul lato destro, trovò una viottola fiancheggiata da alti olmi, e vi entrò.
La viottola affondava sempre più come in un padule, staccandosi dalla strada maestra per tutto lo spessore di un bosco ceduo, dai tronchi fitti, dai rami sottili, splendenti di gemme.
Fausto camminava lentamente e i suoi passi producevano un rumore secco sulla terra gelata.
La strada alta spariva; ma i passanti che sovr’essa camminavano, apparivano, traverso il bosco sfrondato, come campati in aria, ombre fantastiche nella nebbia.
Il mercato doveva essere chiuso, poichè tutti ritornavano, parlando animatamente degli affari buoni o cattivi, propri o degli altri. E la campagna gelata e silenziosa trasmetteva lontano il suono delle parole, le grasse risate.
Fausto pensava:
— Quando il nostro suicidio sarà conosciuto e si scopriranno i nostri cadaveri, la gente che passerà per questa strada parlerà di noi: i nostri nomi risuoneranno per questi campi lungo tempo dopo la putrefazione dei nostri corpi!
Una sensazione opprimente gli mozzò il respiro: sentì stringersi la gola come se soffocasse.
La putrefazione!...
La distruzione completa!...
Un brivido lo scosse. Sentì nelle carni il morso del freddo non peranco avvertito. Il freddo!... il supplizio a cui egli condannava sè e Argìa!
La morte?!...
Strana cosa, non vi aveva pensato prima di quel momento.
La morte!...
Crollò le spalle e sorrise, sentenziando ad alta voce:
— La morte non esiste! è una figura rettorica, come il freddo. Soltanto la vita esiste e la trasformazione della materia. Che v’ha egli di terribile in ciò? Nulla di terribile.
Egli la conosceva bene la trasformazione; l’aveva studiata a fondo, e non se n’era mai impressionato eccessivamente.
Conosceva la morte, poichè “morte„ si diceva. L’aveva vista tante volte: combattuta e vista combattere accanitamente con le armi della scienza nei corpi infermi: l’aveva vista estirpare, estirpata egli stesso, insieme alle carni putride.
Una volta, l’anno addietro, il professore Pisani gli aveva affidato l’esportazione di un tumore cancrenoso, standogli al fianco durante l’operazione, vegliandolo e incoraggiandolo.
Si ricordava perfettamente. Le sue mani avevano tremato un istante quando il paziente urlava. Poi nulla. La volontà aveva dominata la sensibilità.
Del resto, il malato gli era indifferente... La morte?... Non vi pensava affatto.
Non pensava che a farsi onore, a vincere le difficoltà: precisamente come un artista.
Ma quando l’infermo cominciò a rimettersi, quale piacere! Allora l’amava: non era più un miserabile indifferente, era l’opera sua.
Proprio così.
Dopo un mese, allorchè pareva guarito del tutto, quell’imbecille s’immaginò di morire.
Che rabbia! Ma nient’altro che rabbia. Dopo tutto, l’operazione era riuscita benissimo.
Il peggio fu che il povero Pietro Sangiorgi si punse un dito con una scheggia d’osso, sezionando quel cadavere — un vero putridume!
Che momento terribile quello!
Perfino il professore era impallidito. Certo pensavano tutti la stessa cosa; pensavano che il pericolo li minacciava ad ogni momento. Che maledetto mestiere!
Uno studente molto giovane era svenuto.
E il povero Sangiorgi, tre mesi fra la morte e la vita!
Quello era stato proprio un duello a corpo a corpo tra la scienza e la morte.
E finalmente la scienza aveva creduto di vincere. Sangiorgi era guarito... tutti lo dicevano. Lui stesso. E studiava più indefessamente di prima. Ma in capo a sei mesi lo trovarono morto una mattina, in casa di suo padre, accanto al letto intatto.
Si era suicidato col laudano.
Perchè si era ucciso?
Chi sa perchè!...
All’università qualcuno diceva che era pazzo, che la malattia d’infezione apparentemente guarita gli aveva prodotto la paralisi del cervello.
Altri sostenevano che si era ucciso perchè non poteva più studiare su i cadaveri; tormentato da invincibile terrore. E per lui; senza la scienza; la vita non valeva un soldo.
Chi sa!
Morire per la scienza... uccidersi per un amore...
— Ah! Come siamo sempre stupidi! - mormorò Fausto battendosi la fronte. - Eppure, domani, io non parlerò più, non respirerò più! Non avrò più questa noia del pensare; e la gente che si stima savia parlerà della mia pazzia! Il più stupefatto sarà don Paolo, lui che non vede altro male al mondo fuori della morte e della vecchiaia! Appunto, caro zio, appunto, il meglio è morire giovani.
Rise.
Un momento dopo, inconsapevolmente rabbrividì.
— Oh! Argìa! Argìa!...
Ed ebbe come uno scoppio di pianto interno che represse.
Dinanzi a lui, un cancello aperto lasciava apparire un cortile ed un caseggiato.
Sostò un momento; interrogò i suoi ricordi. Era da quella parte?... Sì... gli pareva...
Entrò francamente e traversò il cortile.
Un contadino che stava rimovendo del letame fumante in una larga buca, guardò il passeggero e lo salutò con naturale rispetto.
Le donne filavano nella stalla. Si sentiva il loro chiacchiericcio. Due curiose aprirono una porticina ed uscirono. Una colonna di fumo denso e grasso si sprigionò subito da quell’apertura. Pareva che nella stalla fosse un incendio.
— Che freddo! — gridarono alcune voci rauche, di dentro la stalla.
Le due curiose rientrarono e l’uscio fu richiuso.
Lamberti era già lontano. Voleva andare verso i boschi laggiù. Camminò un pezzo a caso; e intorno a lui era un silenzio interrotto appena dall’eco di rumori lontani.
Sull’orlo del bosco incontrò una vecchietta e due ragazze coi grembiali pieni di legna. Vedendo quel giovane signore, che poteva essere il figliuolo di un fittavolo o di un proprietario, la vecchia fu sul punto di gettare il suo carico per scappare più presto. L’aria indifferente di Fausto la rassicurò. Intanto le due ragazze passavano alla lontana, mute e rapide come ombre.
Nel bosco, silenzio e solitudine di tomba. La nebbia, sempre più densa, ne celava i confini; pareva una foresta immensa in uno sterminato deserto.
Non un’orma su quella neve. Fausto era il primo che ne sfiorasse il candore; e i suoi passi risuonavano lugubremente come sulle pietre di un tempio deserto, sotto agli archi slanciati e bianchi, che i rami brinati formavano; lungo le ampie navate.
Che superbe colonne, e quale fantastica architettura!
Quello era il degno tempio della morte; un tempio che in pochi mesi si sarebbe trasformato completamente, come si sarebbero trasformati i corpi dei due amanti suicidi... ahi, ma per quale diversa trasformazione!...
Improvvisamente la fantasia gli rappresentò quel medesimo bosco quale egli l’aveva veduto in primavera, tutto verde e fiorito; animato dal canto degli uccelli e dal ronzìo degli insetti.
Mai più egli non avrebbe riveduta la primavera!.. E quel bimbo, ch’egli condannava a morire prima di nascere, non vedrebbe mai il sole!...
Quest’idea gli attraversò il cervello come una nebulosa; ed egli la lasciò passare senza esaminarla.
Beati quelli che muoiono... più beati ancora quelli che non sono nati!..
La testa bassa, gli occhi torbidi, egli camminava ora quasi automaticamente, senza pensiero. Provava una specie di stupore che gli offuscava la mente.
Il bosco aveva mutato aspetto. Un fitto d’alberi altissimi, dai grossi tronchi neri, dai lunghi rami intralciati, spandeva un tenebrore improvviso. Le piante apparivano vecchissime, moribonde; alcuni tronchi spezzati erano imputriditi.
Un’acqua scorreva al di là di quegli alberi, gorgogliando sotto a un ponticello.
Un ramo del Gravellone!
Fausto affrettò il passo e si fermò sulla sponda gelata, preso da un grande amore improvviso per quell’acqua corrente, che era come una dolce immagine della vita in mezzo al silenzio e al gelo della morte.
Gli pareva che quell’acqua lo invitasse con un mormorio misterioso, penetrante.
— Vieni, vieni - diceva la voce sommessa - non tornare in città... lascia vivere Argìa col suo bimbo... quell’altro forse tornerà, l’amerà, saranno felici. Muori tu solo che non puoi essere felice, che non puoi amare, nè credere.
Egli ebbe un sussulto.
La gelosia che dormiva in fondo al suo cuore come un mostro in un antro, si scatenò improvvisamente.
Lasciare vivere Argìa?... Lasciarla libera?
— Ah! no! no!
Non voleva morire solo.
Non voleva lasciarla vivere quella perfida, capace di dimenticarlo e di essere felice con un altro.
La odiava. L’amore e l’odio che da tanto tempo tenzonavano nell’anima sua, venivano nuovamente a formidabile conflitto.
Come sempre, vincevano tutti e due.
Ma in mezzo al tumulto di quel conflitto, la voce sommessa della coscienza riprendeva ancora la difesa di Argìa.
Argìa era innocente... Argìa doveva vivere, perchè il suo spirito era portato in alto dal soffio dei tempi nuovi: perchè vedeva la luce e intendeva la verità.
Ella doveva vivere per sè e per il suo bambino.
Ah! se egli avesse avuta la forza di vivere con lei e di amare quel povero bimbo! Se avesse saputo assurgere nella vita al grande ideale della generosità e dell’amore, invece di rifugiarsi nella morte!
Gli mancava la forza. Era un uomo vecchio. Vecchio a ventitrè anni. Un uomo del passato, a cui l’intelligenza e gli studi rivelavano l’avvenire senza alcun profitto, per tormentarlo di più, perchè egli sentisse più intimamente il peso della propria miseria.
Incalzato da questi pensieri, camminava a caso, risalendo i giri tortuosi dell’acqua.
Cresceva il freddo e ricominciava a nevicare. Il cielo si oscurava.
Fausto pareva indifferente, insensibile alle cose esteriori. Cercava sempre e non riusciva a trovare.
Ma che cosa cercava? Una soluzione, o il posto remoto dove morire con Argìa? Neppure lui sapeva. A poco a poco il fascino della morte lo riallacciava. Come sulla campagna, le tenebre si addensavano nell’anima sua.
Non valeva la pena di vivere, di fare uno sforzo così grande, per stare alcuni anni a logorarsi tra le miserie e le volgarità della vita.
La morte era molto più bella!
La morte nell’amore, nell’ebbrezza divina!
Benvenuta la nuova neve che li avrebbe ricoperti come un lenzuolo!
Lungamente egli andò così vagando come trasognato, internandosi nel bosco; smarrendo la strada; perdendo il filo dei suoi ragionamenti; affranto, sfinito. Cercando sempre.
La morte lo derideva! Era una nuova ironia delle cose!
E non sapeva staccarsi dal desiderio ostinato di ritrovare quel posto... proprio quello!
A un tratto si fermò.
Era là, forse?
Non sapeva decidere, ma il luogo gli piaceva.
Era ritornato a quel fitto di piante altissime e vecchie, dai tronchi neri, deformi; ma ora si trovava dalla parte opposta. Qui il luogo era meno selvaggio, egualmente triste. Rami secchi, vecchi tronchi spezzati erano sparsi sulla neve, coperti di neve alla loro volta.
Presso al fiume un albero intero giaceva abbattuto, come un gigante morto.
Fausto andava in su e in giù lentamente; sognando; inseguendo la sua visione; e di tratto in tratto si scuoteva di dosso la neve con un gesto automatico.
Quello era l’asilo... sì, là sotto a quei rami... Nessuno li avrebbe cercati, nè visti per caso... fino a primavera. Qualche superstizione doveva pesare su quel luogo remoto, poichè nessuno si curava di quella legna morta.
In primavera, prima degli uomini, sarebbe arrivata la piena... e l’acqua del Gravellone li avrebbe portati con sè, chi sa fin dove lontano.. Dovevano legarsi ben stretti con una sciarpa... per non essere separati.
Un brivido di freddo insopportabile lo fece trasalire.
Sorrise.
Era quello il primo saluto della morte: ella si annunziava così.
Oh! Argìa bella!...
Come l’avrebbe stretta al suo cuore negli ultimi istanti!...
S’inteneriva, vinto da una inesprimibile angoscia.
Ad un tratto s’accorse che annottava.
Era tardi...
Come mai aveva fatto così tardi? Voleva correre dalla sua Argìa.
Si mise a camminare risolutamente, combattendo la spossatezza con uno sforzo supremo della volontà, spinto da un folle terrore di non poter giungere fino a casa: di morire solo!...
— Oh! Argìa! Oh! Argìa! - andava ripetendo tra i singulti.
Aveva le ossa rotte; gli occhi bruciati, la gola arsa.
Prese una manata di neve e se la portò alla bocca.
Cercava di affrettarsi, ma ad ogni poco traballava.
Finalmente, ansimante per la fatica, si trovò fuori del bosco; si sentì salvo.
Quando fu giunto sulla strada maestra, al ponte del Gravellone, sedette un momento sul parapetto.
L’acqua scorreva lenta e scura, impaludandosi in un canneto; traversando una boschina che pareva galleggiare. La neve cadeva turbinando, e il cielo plumbeo pesava sul tetro paesaggio. E Fausto si ricordava di una mattina lontana; in cui il piccolo fiume pareva un largo nastro d’argento e la boschina e il canneto profumavano l’aria...
Ma egli non faceva confronti. Le immagini fluttuavano nel suo cervello; come le cose disparate che la piena delle acque trasporta quando la campagna è innondata.
Si alzò con fatica. Aveva dei dolori da per tutto.
Come avrebbe fatto a trascinarsi fino a casa; e poi; a ritornare fin laggiù con Argìa?
Se lo forze lo tradivano... se quell’occasione andava perduta... Che cosa sarebbe avvenuto?
Ah! La morte vagheggiata lo fuggiva come la felicità... Tutto lo derideva.
Cercò d’irrigidirsi ancora; con uno sforzo supremo; concentrando la poca energia che gli rimaneva in un solo proposito: arrivare a casa; rivedere Argìa!