Il prato maledetto/XVII
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Capitolo XVII.
Come alla bianca Getruda toccasse finalmente uno sposo degno di lei.
Il conte Anselmo era escito sull’aia, per fare atto di autorità contro il vincitore della gara, da lui stesso bandita.
Non fu poca la sua maraviglia, vedendo Scarrone, seguito da un drappello di trombettieri, che egli non conosceva, e che indossavano quelle strane vesti di porpora.
— Che è ciò, banditore? — diss’egli. — E chi sono tutti costoro?
— Messer conte, — rispose Scarrone, inchinandosi profondamente, — ho grandi cose da annunziarti. È qui, con numeroso corteo, il nobilissimo uomo Costantino Macèdone, fratello a Basilio II, il sacro imperatore di Bisanzio, e fratello del pari alla nobilissima Teofania imperatrice, vedova del glorioso Ottone II, che Iddio abbia nella sua gloria, e madre ad Ottone III felicemente imperante sulle terre d’occidente.
— Che frottole mi spacci tu ora? — gridò il conte Anselmo, aggrottando le ciglia. — Hai già alzato il gomito, stamane? È il tuo costume, lo so; ma non era giorno da ubriacarsi, quest’oggi!
— Messer conte, io ti giuro per tutte le potenze del cielo che non ho bevuto più d’una misura di vino; ed anche a piccoli sorsi, di tanto in tanto, per rinfrescarmi l’ugola. Quello che io ti ho detto puoi crederlo come se fosse una pagina dei santi Evangelii. Ma ecco il nobilissimo Costantino Macèdone; egli stesso ti dirà....
— D’esser lui, proprio lui; — entrò a dire Legio, che compariva in quel punto nell’aia, e balzava d’arcione, per muovere incontro ad Anselmo.
Legio non indossava più i panni modesti con cui si era presentato alla gara dei falciatori; ma vestiva nobilmente di porpora, e portava sugli omeri un mantello ricamato di oro e di gemme.
Non mancavano sulla berretta le penne di gallo nero; ma il gallo, si sa, era simbolo regio.
K poi quello poteva essere un bel capriccio di Costantino Macèdone, fratello dell’imperatore Basilio, il cui nome, in greco, significava re per l’appunto; e testa e zampe ed ali di gallo aveva il basilisco, favoloso animale, che regnava in tutte le paurose leggende d’allora.
— Tu non mi conosci, conte Anselmo; ma sono io Costantino, figlio a Romano II e fratello a Teofania, vedova di Ottone II e madre del tuo imperatore.
— Come tu qui? — mormorò Anselmo, non sapendo attaccare altrimenti, il discorso. — Perchè non ti abbiamo mai veduto in Acqui, ospite nella casa di Aleramo?
— Non era questa la mia strada; — rispose il nuovo arrivato; — ma ci sarei venuto benissimo, poichè la mia galera ha dovuto approdare a Savona, invece di toccare il porto di Genova, donde mi sarei posto in cammino per Pavia e Milano. Giunto a mala pena in queste valli, ho udite le nuove di questa pazza gara che si faceva, per ottenere la mano di Getruda, figlia a Dodone di Croceferrea. La gran fama di bellezza che accompagna il nome di questa Getruda, m’ha invogliato di entrare in gara ancor io. Perciò ho fatto sosta con la mia gente sul passo dell’ppennino; ed eccoti come e perchè non mi avete oggi ospite nella casa di Aleramo. Non me ne dorrò, e per due ragioni, che intenderai facilmente, in primo luogo se io fossi ora nella tua corte in Acqui, non avrei avuto il piacere di vedere che tuo fratello Oddone, poichè tu eri qua, in cerca di selvaggina; e poi, non avrei guadagnata una sposa così meravigliosamente bella, come questa Getruda. —
E si volgeva, così parlando, alla giovane, che stava là, sul limitare della casa, guardando quella nuova scena, tanto più meravigliosa della prima.
Ricorderanno i lettori che poche ore innanzi era giunta lassù la gualdana del conte Anselmo; insolito spettacolo per la figliuola di Dodone.
Il conte aveva mandati più oltre i suoi militi, in traccia di selvaggina, poichè ad altra caccia volgeva egli il pensiero. E Fredegonda aveva ben volentieri dimenticato, per il conte Anselmo, il castellano Rainerio, quel povero sciocco che per altri le aveva riscaldate le ambizioni nell’anima.
Ed ecco, nello spazio di mezza giornata, un’altra gualdana, ben piùricca, ben più nobile della prima, ascendeva il poggio di Croceferrea per lei.
Come non sentirsene orgogliosa? E la bianca Getruda guardava, beveva per gli occhi attoniti quelle insolite grandezze, che rispondevano mirabilmente a tutti i suoi sogni ambiziosi; nè più sapeva spiccarsi da quel nobilissimo cavaliere, che parlava con tanta asseveranza al conte Anselmo, volgendo a lei tante occhiate di desiderio.
E quel cavaliere non era un conte; non era un duca d’Occidente; era lo stesso fratello dell’imperator di Bisanzio; era nato sui gradini del primo trono del mondo; per una parte toccava all’impero d’Oriente, per l’altra all’impero d’Occidente, come fratello di Basilio e di Teofania, come zio del giovane Ottone. Quali altre grandezze non poteva serbargli il destino? Forse egli stesso, un giorno, avrebbe cinto il diadema imperiale.
E quel principe di Bisanzio, figlio, fratello d’imperatori, era là per Getruda di Croceferrea, per lei, povera figlia d’aldioni, ma famosa, ma contrastata, per il dono celeste della sua maravigliosa bellezza. Quale giornata per lei!
Irritata poc’anzi, avvilita di dover essere sortita in moglie ad un oscuro falciatore, ridotta a non isperare salvezza che dagli artifizi di un povero castellano, ella piaceva al nobil conte Anselmo, al signore di tante castella, preferibile sì, e di gran lunga, al castellano Rainerio, ma pur sempre marito di Gisla, anch’essa celebrata per grande bellezza, e troppo temibile rivale, quando nel cuore di Anselmo venisse meno l’amore della novità.
Gran mercè, la signoria di Merana! Ciò che Anselmo le avrebbe dato, non avrebbe anche potuto riprendere? Questo ella pensava, tiepida ancora la guancia dei baci di Anselmo, mentre quell’altro, Costantino Macèdone, fratello di Basilio imperatore e di Teofania imperatrice, le si presentava vincitor della gara, sostenuta per lei, pronto ad impalmarla, come suo legittimo sposo e signore.
— E sei tu.... — balbettava frattanto il conte Anselmo; — sei tu il vincitore della gara?
— Chiedi a Scarrone, tuo banditore; — rispose quell’altro. — Egli che a suon di tromba ha indetta la gara, egli che è stato testimone delle opere mie, egli ti dirà che io ho meritata la mano di questa bellissima tra le belle.
— Sì, messer conte; — disse allora Scarrone. — Erano cinque in gara: Marbaudo, il Matto, Ermenfredo e Ataulfo scherani di Rainerio tuo castellano, e questo nobilissimo principe, che si era presentato sotto il nome di Legio. Fino a poco fa nessuno seppe il vero esser suo; e me ne duole, perchè non gli ho resi tutti gli onori che meritava l’alto suo grado.
— Un finto nome! — disse Anselmo. — Tu dunque non eri iscritto col tuo vero nome? ed è Legio che ha vinto, non Costantino Macèdone?
— Che importa il nome, — ribattè quell’altro, — se la persona è la stessa? Sono io meno il vincitore, se mi è piaciuto di entrare in gara sotto le spoglie di un oscuro falciatore? Legio o Costantino, io ho guadagnata la sposa, e la rapirò a queste povere valli, per condurla a risplendere, come ella merita, tra le grandezze di una reggia. Bella Ingetruda, — soggiunse, volgendosi alla giovane — non era questo il tuo sogno? —
Gli occhi d’Ingetruda brillarono, e le sue guance si tinsero di porpora. Una reggia! Sì, veramente, quello era stato sempre il sogno dell’anima sua.
— Tu non puoi; — disse Anselmo, dopo un istante di pausa, in cui aveva fortificata la sua risoluzione con tutti gli argomenti che poteva offrirgli la novità del caso.
— Non posso! e perchè, di grazia?
— Perchè tu hai vinto mentendo il nome e la condizione; perchè la vittoria non basta, ma è necessario ancora l’adempimento di un patto, che era annesso alla gara.
— Sentiamo il patto.
— È presto detto, e te ne farà fede Scarnine, che lia gridato per tutte queste valli il mio editto comitale. Il vincitore sposerà la bella Ingetruda, ma si obbligherà a vivere nella casa di Dodone, lavorando nel manso di Croceferrea, come censuario mio e vincolato alla terra che dovrà dargli l’ospizio.
— È grave, il patto, — rispose Legio, — ma nonèincomportabile. Per i begli occhi d’Ingetruda si può far questo ed altro. Ma vorrai tu, e volendo, potrai costringere a questo ufizio servile un uomo della mia levatura, sangue d’imperatori, e a te superiore di tanto, o figliuol di Aleramo? Pensa, o buon conte, che io posso comperare ad oboli d’oro tutta la tua marca montanina, e quella di Oddone tuo fratello. Qui, su quest’aia, posso noverartene tante migliaia, quante tu non ne hai vedute ancora, e quante non ne accolse la Camera imperiale di mio cognato Ottone II in tutti i suoi anni di regno. E ciò, finalmente, senza alcun danno del vecchio Dodone, mio amatissimo suocero, che son dolente di non veder qui, e che io farò ricco di terre e di servi oltre ogni suo desiderio; come senza danno della mia sposa dolcissima, a cui son destinate tutte le gemme che vedi. —
I donzelli si avanzarono, ad un cenno di Legio, e deposero ai piedi di Getruda le coppe d’oro e d’argento, gli stipi d’ebano, incrostati d’avorio, le custodie di cristallo e di madreperla, in cui brillavano le gemme, i vezzi, i monili offerti da Costantino Macèdone alla sposa.
In mezzo a tanto luccichio, il diamante Efiraz mandava raggi che abbarbagliavano la vista.
— Vedi, Ingetruda, questa montagna di luce? — disse Legio, o Costantino che s’avesse a chiamarlo. — Sarà il fermaglio per il tuo manto di sposa. —
Getruda guardò il donatore, e mise un sospiro; accettò dalle mani di lui il diamante Efiraz, e socchiuse gli occhi, nell’atto di accostarselo al seno.
Ma il conte Anselmo non poteva acconciarsi così facilmente alla vittoria del potente rivale.
— Tutto ciò mi sa di strano; — diss’egli. — Io non intendo... non intendo come e perchè tu venga improvviso, da così lontana regione, principe e falciatore, a far atto di autorità nei miei dominii, col tuo fasto e con le tue montagne di luce.
- Ah, tu non intendi? — replicò l’altro, ghignando. — Non ti meravigliare della tua ignoranza. Neanche il povero Marbaudo, innamorato della bella Ingetruda e gradito come genero dal vecchio Dodone, intendeva perchè gli si dovesse insidiare la sua pacifica conquista. Aldione, credeva di poter condurre in moglie una figlia d’aldioni, senza che castellani e conti ci mettessero ostacolo. Pure, la cosa è avvenuta, e non gli fu data altra ragione che la volontà dei potenti. Neanche il castellano Rainerio, che aveva ordita la trama, invaghito com’era dalla bella Ingetruda, intendeva stamane, vedendoti passare con la tua numerosa cavalcata, come tu potessi rapirgli il frutto dei suoi sottili artifizi. Ci sono dunque, come tu vedi, o conte Anselmo, ci sono degli altri che non intendono. Chetati, in tua mal’ora, e va a tener compagnia a quei due ignoranti. E poi, senti: sei tu un uomo ragionevole, ed ossequente ai desiderii della bellezza? La donna è signora; ciò ch’ella vuole tu dovresti volere, poichè si dice che il vogliano ad un modo Dio e il Diavolo; due personaggi, sia detto senza offenderti, superiori a te di gran lunga. Chetati dunque, e facciamo arbitra del nostro litigio questa bellissima tra le donne. Io metterò le mie ragioni da banda; io dimenticherò di aver vinta dianzi una gara, che aveva la sua mano per argomento e per premio. Dica ella stessa, libera di scegliere tra l’amante e lo sposo, quale preferisca dei due. Io, a buon conto, le dischiudo le braccia. —
Getruda non esitò un solo istante, e cadde nelle braccia dello sposo, che tale lo rendeva per lei la recente vittoria. Legio se la strinse al petto e la baciò amorosamente sui capegli, tra le grida festose della sua gente.
Il conte Anselmo fece per lanciarsi in mezzo a quei due, ma ne fu impedito da quella turba vestita di rosso, che destramente si era frapposta. Immaginate la sua rabbia. Ed era solo, egli, il signore dei luoghi; era solo, davanti ad una moltitudine sconosciuta, che si faceva beffe di lui e della sua autorità comitale.
Pensò allora che non troppo lungi dovevano essere i suoi militi, e ricordò di aver al fianco il suo corno d’olifanto. Lo recò tosto alle labbra e ne trasse fuori due squilli poderosi, indi subito un terzo, che era per chieder soccorso. Ma la turba degli uomini rossi, accerchiandolo, si prese giuoco di lui.
— Sono in caccia i tuoi militi, o conte! — gii dicevano, ballandogli intorno il frescone. — Sono in caccia sulla montagna di Biestro, e non udranno i tre squilli della tua paura. Sono in caccia di lepri e di starne, e sei tu che li hai mandati lontani da te, per rimanere in caccia di miglior selvaggina. Tu volevi la bella figliuola del tuo servo Dodone; prendevi allegramente i suoi baci, mentre i falciatori lavoravano a furia sul prato, per guadagnar la sua mano. Ah, ah, povero conte! quei baci ti rimarranno sul cuore, aspettandone invano degli altri. —
Così gridavano, beffardamente, e ballavano la ridda.
Legio, frattanto, presa per mano la sposa entrava nella casa con lei; e dietro a loro i donzelli, con le coppe d’oro e d’argento, con gli stipi d’ebano, incrostati d’avorio, con le custodie di cristallo e di madreperla, in cui brillavano le gemme, i vezzi, i monili. Getruda sparì nel vano dell’uscio, e con lei la montagna di luce che le fiammeggiava al sommo del petto.
— Lasciatemi passare, — gridò il conte Anselmo, tentando di rompere la cerchia. — Lasciatemi passare, o ch’io....
— Ah bel conte! bel conte! Tu non sei generoso. L’hai presi, tu, i baci? Lascia che altri n’abbia la parte sua. Tu non sei neanche giusto, bel conte! La donna è di colui che in due ore ha falciato tutto il maggese. L’hai tu fatta la legge? Ti sei tu sostituito all’autorità di un padre, per maritar Getruda a tuo talento? La tua legge è contro di te; la tua autorità ti condanna. Dodone, intanto, il vecchio Dodone, è andato sui monti, e sfoga il suo dolore atterrando alberi a colpi di scure. Vuoi tu andare con lui, bel conte? vuoi tu andare con lui a smaltir la tua rabbia? —
Mentre la turba cantava, ballando in cerchio e stringendo sempre più il povero conte, un alto fragore di trombe e di timpani percossi veniva dalla casa di Dodone, diffondendosi intorno.
— Che e ciò? — disse Anselmo, turbato.
— È l’inno di nozze; — risposero gli uomini rossi, seguitando a ballare. — La bianca Getruda è finalmente di Legio.
— Perchè chiamarlo così, servitori malnati? — gridò il conte Anselmo. — Non è egli Costantino Macèdone?
— Ah sì, Costantino Macèdone, e quanti altri nomi gli piace di prendere, quando viaggia sulla faccia della terra! Ma il suo vero nome è Legio; e noi siamo suoi spiriti, particelle della sua medesima essenza. —
Il conte Anselmo si vide perduto. Aveva inteso finalmente chi fossero quegli uomini rossi, e a qual principe formassero corteo.
— Ah! — mormorò egli, levando gli occhi al cielo in atto supplichevole. — Signore Iddio, abbi compassione di me! —
Frattanto la moltitudine cresceva, stringendo la cerchia, e ballava e cantava in cadenza.
— Tu vuoi tutto, bel conte; vuoi poderi e vuoi donne. Ma le donne sono degli uomini che le hanno guadagnate col loro amore e con le loro fatiche; i poderi son della Chiesa, che li ha ereditati dai legittimi padroni. Tu rubi le donne altrui, bel conte; tu rubi i poderi alla Chiesa. E sei dannato, bel conte! dannato! dannato!
— Nel nome di Dio, spiriti infernali, datemi il passo! Nel nome di Dio!... Ah, Marbaudo, a me! —
Così gridò il conte Anselmo, riprendendo coraggio, poichè, attraverso le mobili teste dei rossi saltatori, vedeva apparire Marbaudo sul confine dell’aia.
Marbaudo vide la ridda oscena, che già gli aveva narrata Searrone, fuggito dianzi dall’aia; ed anche udì il grido del suo signore, come già aveva uditi, appena giunto alle falde della collina, i tre squilli del corno di Anselmo.
— Eccomi, messer conte! — diss’egli accorrendo. — Ed ecco tali aiuti, contro cui non varranno le potenze d’inferno.