XVI. In cui Legio sfodera la sua scienza, e squaderna i suoi titoli

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XVI. In cui Legio sfodera la sua scienza, e squaderna i suoi titoli
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Capitolo XVI.

In cui Legio sfodera la sua scienza, e squaderna i suoi titoli.

Si avvicinava, frattanto. Il maggese, dietro a lui, si vedeva tutto falciato, fin dove poteva correr l’occhio. E la falce, e il personaggio della falce, si erano raccorciati alla giusta misura.

— Allontanati! — gridò Marbaudo. — Non mi toccare! Nel nome del Padre....

— Chetati, via! — interruppe Legio. — Te l’ho già detto: non ti voglio far male; non voglio nulla da te. Vattene a casa tua e sarà pel tuo meglio. Frattanto, lasciami passare, poichè debbo recarmi da quel nobile castellano Rainerio e dai suoi due scabini, clarissimi viri, per far riconoscere il mio buon diritto. —

Cosi dicendo, Legio passò rasente a [p. 280 modifica] Marbaudo, che istintivamente si ritrasse. Ma là presso la chiesuola di San Donato, c’era non più anima viva. Si vedeva bensì il castellano Rainerio, ma lungo disteso sul limitare del sagrato, come un corpo morto.

Laggiù, sulla strada di Cairo, i due scabini fuggivano a gambe levate verso il borgo; e davanti a loro, ma assai più svelti, con le ali alle calcagna, i famigli di mastro Scarrone.

— Vedeteli là, i paurosi! — disse Legio, ghignando. — E quest’altro, che ha avuto più paura di loro, e gii son mancate le gambe! Non è mica morto, il cane! — soggiunse, allungando una pedata al castellano. — È svenuto come una vil femminetta. E costoro vogliono spadroneggiare nel mondo! Ma dov’è mastro Scarrone, principe dei banditori, trombettiere eccellente per il giorno del giudizio? Ehi, mastro Scarrone, dico a te; esci fuori dal tuo nascondiglio, se non vuoi che venga io a pigliarti per un orecchio. Credi tu che io non ti veda, accoccolato dietro la siepe? —

A quelle ultime parole il banditore si mosse, e comparve fuor dalla siepe, con la sua [p. 281 modifica] cia stravolta. Il poveraccio non aveva fatto in tempo per darsela a gambe, come i suoi famigli, che avevano meno ventre e meno pappagorgia di lui; perciò s’era appiattato.

— Ebbene, mastro Scarrone! — ripigliò Legio, accostandosi a lui, e mettendogli una mano sulla spalla. — Ritto, perbacco, che bisognerà muover le gambe.

— Mio signore, per pietà! — balbettò il vecchio banditore. — Sono un padre di famiglia. Ti supplico, non mi prendere la vita!

— E che ne farei io della tua vita? Della tua tromba ho bisogno; ed anche della tua testimonianza. Di tante persone che hanno assistito alla gara, tu solo rimani a far fede della mia vittoria. Sei il banditore; devi precedermi ed annunziare a Croceferrea che io ho guadagnata la sposa.

— Guadagnata, sì, guadagnata; — borbottò Scarrone. — E come! con quella falce così lunga!...

— Sicuro, con quella falce così lunga. E scommetto che ti è sembrata una cosa strana, un sortilegio, una magia.... [p. 282 modifica]

— Eh, mio signore, perdonami, ma questo ho pensato. Se tu non sei il.... quel personaggio in carne ed ossa, certo hai avuto da lui un potere sovrumano.

— Ecco i frutti dell’ignoranza, o Scarrone! O il diavolo, o un negromante, non è vero? e non sai escire di lì. Se tu conoscessi le virtù delle piante e tutti i segreti della natura, non ti smarriresti, come fai, tra le corna di questi dilemmi.

— Mio signore, tu hai falciato così lungo c così presto!

— E sta benissimo; l’una cosa è la conseguenza dell’altra. Ho falciato presto, perchè ho falciato lungo. Ed ho falciato lungo, perchè alla mia falce avevo adattato per manico un tronco di salcio. Ma tu non conosci le proprietà singolari del salcio; e qui sta la tua grande ignoranza, o Scarrone. Ascoltami, dunque, trombettiere enorme ed impara. Il salcio, per tua norma, è albero sacro, che ha avuta la virtù di allungarsi, dopo che i suoi rami son serviti a sostenere le arpe dei più lunghi salmisti che si conoscano. Aggiungi che il suo [p. 283 modifica] tronco è stato inaffiato dalle lagrime e dal sangue di dodici tribù fatte schiave in Babilonia. Non hai tu mai reciso un ramo di salcio? Prova, e vedrai che il taglio si colora presto di rosso. Quello è il sangue del popolo Ebreo, mi capisci? del popolo Ebreo, che moriva super flumina Babylonis, fitto come le mosche. Dunque, ritornando al salcio, il suo tronco si allunga, solo a cantargli il primo versetto di uno di quei salmi che ha in pratica. Di quante braccia vuoi che s’allunghi, esso ti ubbidisce subito, ad un versetto per braccio. Eccoti il gran segreto, che è conosciuto da tutti i rabbini dei Giudei. Si capisce che non lo dicono ai Cristiani, loro nemici giurati. Ma la cosa è così, come io ti racconto, per levarti quella gran paura di dosso. Animo, dunque, banditore! andiamo a Croceferrea, per salutare la sposa. Qui, per intanto, non si beve; mentre lassù non ti potrà mancare un’anfora di buon vino. —

Intronato da tutte quelle chiacchiere, il banditore non sapeva più che pensare. Legio non era il diavolo; non era un negromante; aveva [p. 284 modifica] i segreti dei rabbini; chi era egli mai? forse un Ebreo egli stesso? In questo caso, e per ie idee di quel tempo, tanto valeva che fosse il diavolo a dirittura.

— Ma tu.... — balbettò egli, — tu che sai tante cose, e vinci coi segreti della natura, chi sei? Chi dovrò io annunziar vincitore?

— Curiosità, madre di sapienza! Contentati, per ora, del mio nome di battaglia; l’altro, con tutti i titoli annessi e connessi, lo avrai a suo tempo, quando si tratterà di presentarmi alla bellissima sposa. Non temere, o Scarrone; la perla di Croceferrea andrà in mani ben degne di riceverla. Getruda non s’immagina certamente di avere tal marito, nè Dodone tal genero; egli che voleva ad ogni costo darla in moglie a quel suo rustico Marbaudo. A proposito, e dov’è, il giovanotto? —

Marbaudo era sparito, e Legio sorrise, vedendo libero il campo.

— Ah, bene! — esclamò. — Egli ha preso il nostro consiglio, e senz’altro querele si è allontanato da noi. Speriamo che si consoli, quel poveraccio. Tanto, la bionda Getruda non era [p. 285 modifica] fatta per lui; a ben altri, e più ragguardevoli uomini, avrebbe da far girare la testa costei! Ma non più vani discorsi; andiamo, o Scarrone; già il mio cortèo mi attende, per salire a Croceferrea.

— Cortèo! — disse Scarrone, maravigliato. — Che storia è mai questa? —

Ma aveva appena finito di borbottare la sua frase, che gli si parò davanti agli occhi, sulla svolta del sentiero, uno stuolo di suonatori, vestiti di ricche stoffe, rosse fiammanti, coi drappelloni egualmente rossi, pendenti dalle trombe: rosse del pari le berrette: tutti rossi, infine, rossi dalla testa ai piedi, salvo nelle penne che sormontavano le berrette; lunghe e ondeggianti penne di gallo nero.

Scarrone rimase a bocca aperta, guardando quella strana apparizione.

— Ebbene, — disse Legio, - che te ne sembra? Son degni di te, questi miei trombettieri? Bene suppliscono ai tuoi, che sono scappati così in fretta?

— Mio signore.... — balbettò il banditore, più morto che vivo. — Quel rosso.... quelle penne di gallo.... [p. 286 modifica]

— Suvvia, prosegui! che ci trovi di strano?

— Perdonami, signore.... ma sono gli emblemi.... del demonio.

— Ah, Scarrone, Scarrone! e dove hai pescate tutte queste sciocchezze? Lasciamo stare che il gallo è sacro ad Esculapio, al dio della medicina; esso è anche l’animale simbolico dei re. Non è egli, infatti, il re del pollaio? Il rosso è di porpora; e la porpora, o Scarrone, è simbolo dell’autorità imperiale. Ed io, perchè tu lo sappia, sono imperatore e re. Ma andiamo avanti: tu non hai veduto ancor tutto. Guardami un pochettino quei graziosi donzelli, che seguono la squadra dei trombettieri. Portano su cuscini di seta.... Ma tu non sai che cosa sia la seta, o Scarrone. È un tessuto fine e lucidissimo, composto di tanti bei fili, che si traggono da un bel vermiciattolo giallo, laggiù nelle parti d’Oriente. Qui si conosce poco, la seta; ma la conobbero e la usarono gl’imperatori romani; la conobbe e la pregiò Carlomagno; ma ebbe il torto di farne mantelli ai cavalieri della sua corte, per usarne alle cacce d’Acquisgrana, e [p. 287 modifica] un rovescio di pioggia gli guastò così tutta quella che aveva ricevuta in dono da Arun el Rascid, il grande sultano di Bagdad. La seta, pur troppo, non regge bene alla pioggia; ma guarda come luccica al sole! E su quei cuscini di seta, vedi che bei scrignetti d’avorio e di ebano, pieni delle perle del Mare di Persia e dell’oro d’Etiopia! Guarda queste altre pietruzze, così lucenti, e di tutti i colori dell’iride. Son rubini, topazii, smeraldi, balasci, crisoliti, amatiste, opali, zaffiri, lapislazzuli, onici e tant’altre gemme, i cui nomi ti sarebbero famigliari, se tu avessi in pratica la istoria naturale di Plinio. Ma su tutte, bandiscilo pure a suon di tromba, primeggia questa qua, che ti parrà di cristallo, ma che manda fiamme di vari colori, attraverso le sue facce scintillanti. Questa è detta diamante; e non è scavata dalle viscere dei monti, nè dal letto dei fiumi; bensì è stata levata dalla testa del drago Efiraz. Tu sai, e se non lo sai te lo dico io, che il drago, quando ha fatto i cent’anni, muta il suo cervello in purissimo diamante, e d’anno in anno quel diamante gli [p. 288 modifica] cresce in volume e in bellezza. Questo che vedi è il cervello d’un drago che morì di vecchiaia; perciò ti apparisce così gròsso. Ebbene, tu non ammiri, Scarrone? non ti rallegri per la sposa, che riceverà questi doni imperiali?

— Ammiro, sì.... — disse Scarrone. — Ma la sposa.... meriterà ella una sorte così splendida?... È una figlia di aldioni.

— Che importa? Dovunque ella nasca, qualunque sia il grado de’ suoi parenti, la donna è fatta per salire. Così pensa anche Getruda. Essa, poi, ha nelle vene un tal sangue....

— Ah, si, — mormorò il banditore, — mi pare di averne sentito bucinare qualche cosa. Ma le ho sempre credute mormorazioni del prossimo.

— Tanto caro, quel prossimo! — esclamò Legio, ghignando. — Ma è tanto cara anche la figliuola di Dodone. — Ed è ambiziosa, poi, ambiziosa quanto basta, per giustificare le mormorazioni alle quali tu accenni. Figùrati se era fatta per dar la mano ad un semplice falciatore! Nè aldioni, nè castellani, son degni di lei. Son per dire che non si contenterebbe [p. 289 modifica] di un conte, L’imperatore Ottone dovrebbe vederla, e perderebbe il lume degli occhi, come l’ha perso il tuo castellano Rainerio. —

Confuso da tanti discorsi, abbagliato da tante ricchezze, Scarrone non sapeva più che dire, non sapeva più che pensare.

Prima di tutto, era egli desto, o sognava? E senza venire a capo d’intendere il suo medesimo stato, muoveva le gambe, seguitando il vincitore della gara, e vedendo a mala pena la strada.

L’accenno ad Ottone imperatore gli diede tuttavia argomento a fare una rispettosa domanda.

— Sei tu di Lamagna, mio signore? — disse egli all’ignoto e portentoso personaggio.

— Non sono, — rispose quell’altro, — ma faccio conto di andarci; so pure non incontrerò Teofania, la mia buona sorella, per cammino, di qua dalle Alpi.

— Teofania! — esclamò il banditore, fermandosi su due piedi e squadrando il suo compagno di viaggio. — Non è dessa la madre del nostro imperatore, che Dio guardi? [p. 290 modifica]

— Per l’appunto, o Scarrone. E la cosa ti par meravigliosa, per un falciatore, non è egli vero? Ma sarà sempre meno maraviglioso essere lo zio di Ottone III, che non Lucifero in persona, come dianzi credevi. Ma eccoci al manso di Croceferrea, se non prendo una cantonata.... per un’altra; e qui tu devi dar flato alla tua tromba solenne, per annunziare la mia vittoria, ed anzi tutto la mia persona. Eccoti qua; leggi i miei titoli. —

Così dicendo, Legio porgeva a Scarrone un rotoletto di pergamena. Il banditore lo svolse e lesse i titoli che quell’altro accennava, ma guardando ad ogni tanto il personaggio eminentissimo che si era celato fino allora sotto l’oscuro nome di Legio.

Era molto confuso, il povero Scarrone; era molto maravigliato; ma non aveva più la paura di prima. Doveva annunziare un pezzo grosso, uno dei più grossi che fossero al mondo; ma non aveva, la Dio mercè, da fare col diavolo.