Il padre di famiglia/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera di Beatrice.
Ottavio e Florindo senza spada.
Florindo. Ma! L’abbiamo fatto il male, signor maestro.
Ottavio. Zitto, non vi fate sentire.
Florindo. Non vi voleva andare in quel casino a giuocare. Siete stato voi che mi avete condotto quasi per forza.
Ottavio. Ma zitto, per carità. Io fo per divertirvi, per farvi stare allegro e voi ancora mi rimproverate?
Florindo. Bel divertimento! Ho perduti i due zecchini, che mi avea dati mia madre.
Ottavio. Pazienza, figliuolo, pazienza.
Florindo. E mi son giuocato la spada d’argento.
Ottavio. Ed io mi son giuocato l’orologio, che mi ha donato la vostra signora madre.
Florindo. Ma quel che è peggio, ho perso cinque zecchini sulla parola.
Ottavio. Ed io due.
Florindo. Questi converrà pagarli.
Ottavio. Converrà pagarli, acciocchè non si sappia che abbiamo giuocato.
Florindo. E come si farà?
Ottavio. Bisognerà ingegnarsi.
Florindo. Maledetto giuoco!
Ottavio. Non dite parolacce, non maledite.
Florindo. Che cosa dirà mio padre, se non mi vede la spada?
Ottavio. Lasciate fare a me. Dirò che vi è stata rubata; a me lo crederà più che a voi.
Florindo. Oh! questa per me è stata una cattiva giornata.
Ottavio. Era meglio passar la mattina in casa del signor Geronio.
Florindo. Oh! sì, quella cara signora Eleonora è adorabile. Era tanto che desiderava parlarle. Caro maestro, vi ringrazio che mi abbiate introdotto. Avete fatto assai bene a separare Lelio da noi, a mandarlo a passeggiar da se solo; egli ci avrebbe guastata la nostra conversazione.
Ottavio. Ditemi, la sposereste volentieri la signora Eleonora?
Florindo. Il ciel volesse! Non vedo l’ora di prender moglie.
Ottavio. È ricca, sapete; suo padre non ha altri che quelle due figlie, ed averanno diecimila ducati per una. (Così potess’io avere la signora Rosaura! Basta, chi sa).
Florindo. Dubito che mio padre vorrà ammogliar mio fratello.
Ottavio. Lasciate fare a me, che io procurerò i vostri vantaggi. Ma sentite, anch’io ho bisogno di voi.
Florindo. Comandate, signor maestro. In quel che posso, siete padrone.
Ottavio. Ho persi due zecchini sulla parola; bisogna che mi aiutiate.
Florindo. E come? Se non ne ho nemmeno per me.
Ottavio. Ecco la vostra signora madre. Ella, che vi vuol tutto il suo bene, vi consolerà.
Florindo. Mi vergogno.
Ottavio. V’aiuterò io. Fingetevi malinconico.
Florindo. Sì, dite bene; farò così. (Gran bravo maestro!) (da sè)
Ottavio. (Gran perfetto scolare!) (da sè)
SCENA II.
Beatrice e detti.
Beatrice. Signor maestro, non voglio che il mio figliuolo stia tanto fuori di casa. Credetemi che quando non lo vedo, mi sento morire.
Ottavio. Ma! le madri sanno quello che dicono, e specialmente le madri di questa sorta.
Florindo. Mèglio per noi che fossimo stati in casa.
Ottavio. Meglio per noi.
Beatrice. Oimè! Che cosa è accaduto? Ti è successa qualche disgrazia?
Florindo. Ah! niente, niente. (sospira)
Beatrice. Come! Niente? Tu mi vuoi nascondere la verità. Caro signor maestro, ditemi voi per carità, che cosa ha il mio povero figlio?
Ottavio. Poverino! è mortificato.
Beatrice. Ma perchè? Perchè? Volete voi parlare?
Florindo. Cara madre, non andate in collera.
Beatrice. No, caro, non vado in collera. Dimmi, che ti è accaduto? Dillo a tua madre che ti vuol tanto bene.
Florindo. Non posso, non ho coraggio.
Beatrice. Or ora perdo la pazienza.
Ottavio. Signora, lo dirò io.
Florindo. No, no, non le dite nulla.
Beatrice. Taci tu, lo voglio sapere.
Ottavio. Sappiate, signora, che dopochè siamo usciti di casa il signor Lelio, il signor Florindo ed io, appena abbiamo fatto trenta passi, Lelio vide una truppa di vagabondi, li saluta, lo chiamano: ci lascia, con essi s’accompagna e mi sparisce dagli occhi, lo, per zelo del mio ministero, lo inseguisco, e frattanto ordino a Florindo che si ponga a sedere in una bottega colà vicina, e mi aspetti, lo non sapeva (oh accidenti non aspettati e non preveduti!) che colà vi giuocassero. Il povero giovane ha veduto giuocare, l’occasione lo ha stimolato, ha giuocato, ha perduto e questa è la cagione del suo rammarico e dolore.
Florindo. Mi voglio andar a gettare in un pozzo.
Beatrice. No, caro, vien qua, fermati. E per questo ti vuoi disperare? Se hai perduto, pazienza. Hai perduti i due zecchini?
Ottavio. E ha perduta la spada. (piano a Beatrice)
Beatrice. Poverino! Anco la spada?
Florindo. Ma!
Beatrice. Zitto, zitto, che non lo sappia mio marito. Ne compreremo un’altra.
Ottavio. E ha perduto sulla parola... (piano a Beatrice)
Beatrice. Quanto?
Ottavio. Otto zecchini.
Beatrice. È vero? Hai perduto otto zecchini sulla parola? (a Florindo)
Florindo. Otto?
Ottavio. Sì, otto. Non vi ricordate del conto che abbiamo fatto?
Florindo. È vero. (Tre li vuole per lui). (da sè)
Beatrice. Otto zecchini? Come abbiamo a fare a trovarli?
Florindo. Se mio padre lo sa....
Beatrice. No, per amor del cielo, che non lo sappia.
Ottavio. Acciò non lo venga a sapere, bisogna pagarli presto.
Beatrice. Ma io non li ho. Sia maledetto! N’è causa quello scellerato di Lelio.
Ottavio. Sì, causa colui.
Florindo. Ah! signora madre, non mi abbandonate per carità.
Beatrice. Io denari non ne ho. Signor Ottavio, come si potrebbe fare a ritrovare questi otto zecchini?
Ottavio. Se io li avessi, glieli darei con tutto il cuore: non vi sarebbe altro caso che vedere di ritrovarli con qualche pegno.
Florindo. Povera signora madre! E dovrebbe fare un pegno per me? Non lo permetterò certamente.
Beatrice. Ma come possiamo fare? Quelli che hanno guadagnato, non aspetteranno qualche giorno?
Ottavio. Oh! non aspetteranno. Se oggi non si pagano, stassera vengono dal signor Pancrazio.
Florindo. Ed io sarò mortificato, ed io mi ammalerò e morirò.
Beatrice. Ah! non dir così, che mi fai gelare il sangue. Presto, presto, bisogna rimediarvi. Signor Ottavio, tenete questo anello ed impegnatelo.
Ottavio. Volentieri, vi servirò.
Florindo. Cara signora madre, datelo a me, datelo a me, che l’impegnerò io.
Beatrice. Eh briccone, tu mi farai qualche ragazzata.
Florindo. (No davvero. L’impegnerò per dieci zecchini). (piano a Beatrice)
Beatrice. (E che cosa ne vuoi fare degli altri due?)
Florindo. (Ve lo dirò poi).
Beatrice. (Voglio saperlo).
Florindo. (Ve lo dirò. Non voglio che senta il signor maestro).
Beatrice. Signor Ottavio, andate, se avete da far qualche cosa.
Ottavio. Ma non sarebbe meglio che quell’anello l’impegnassi io?
Florindo. Signor no, signor no, voglio far io.
Ottavio. Ricordatevi i vostri impegni.
Florindo. So tutto; son galantuomo.
Ottavio. (Se mi burla, glielo farò scontare). (da sè e parte)
SCENA III.
Beatrice e Florindo.
Beatrice. Ebbene, dimmi: che cosa vuoi fare di quei due zecchini?
Florindo. (Ride.)
Beatrice. Via, dimmelo, non mi far penare.
Florindo. Voglio comprare un bel ventaglio.
Beatrice. E che vuoi fare di un ventaglio?
Florindo. Fare un regalo a una bella ragazza.
Beatrice. A una bella ragazza? Di che condizione?
Florindo. Civile e da par mio.
Beatrice. E chi è questa? Lo voglio sapere.
Florindo. Ve lo dirò, signora madre, ve lo dirò. E la signora Eleonora, figlia del signor dottore Geronio.
Beatrice. Come la conosci?
Florindo. L’ho veduta.
Beatrice. Le hai parlato?
Florindo. Signora sì.
Beatrice. Dove?
Florindo. In casa.
Beatrice. Ah, sei stato anche in casa?
Florindo. Signora sì.
Beatrice. E chi ti ha condotto?
Florindo. Il signor maestro.
Beatrice. Bravo signor maestro! Conduce i giovani dalle ragazze! Quando torna, voglio che mi senta.
Florindo. No, cara signora madre, vi prego, vi supplico, non gli dite nulla, non lo sgridate. Poverino! È tanto buono, m’insegna con tanto amore. Se mi volete bene, non lo sgridate.
Beatrice. Via, via, per amor tuo tacerò. Ma non voglio che si vada dalle ragazze.
Florindo. Ah! Mi piace tanto la signora Eleonora! Non posso vivere senza lei.
Beatrice. Poverino! Sei innamorato?
Florindo. Sono innamoratissimo.
Beatrice. Poter del mondo! Così presto ti sei innamorato?
Florindo. Credetemi che io non posso nè mangiare, nè bere, nè dormire.
Beatrice. T’ammalerai, se farai così.
Florindo. Se voleste, si potrebbe rimediare al mio male.
Beatrice. Come?
Florindo. Se vi contentaste che la sposassi, tutto andrebbe bene.
Beatrice. Io per soddisfarti mi contenterei, ma tuo padre non si contenterà.
Florindo. Basta che voi vogliate, dirà di sì.
Beatrice. Sarà difficile. Vorrà ammogliare tuo fratello maggiore.
Florindo. Ed io sapete che cosa farò?
Beatrice. Che cosa farai?
Florindo. Anderò via; mi farò soldato, nè mi vedrete mai più.
Beatrice. Taci, cattivello, taci che mi fai morire. E avresti cuore di abbandonar tua madre?
Florindo. E voi avete cuore di veder penare il vostro unico figlio?
Beatrice. Se stesse in mio potere, ti consolerei.
Florindo. Sta a voi, se volete. Ecco mio padre, non perdete tempo. Parlategli subito, e ricordatevi che, se non mi sposo ad Eleonora, prenderò un laccio e mi appiccherò. (parte)
SCENA IV.
Beatrice e Pancrazio.
Beatrice. Fermati, senti. Oh povera me! In che imbarazzo mi trovo. Amo questo mio figlio più di me stessa e l’amore che io ho per lui mi fa chiudere gli occhi a tutto quello che può essere di pregiudizio a mio marito, alla mia casa, a me stessa. Ben venuto.
Pancrazio. Bondì a V. S. (turbato)
Beatrice. Che avete? Mi parete alquanto turbato.
Pancrazio. Eh niente, niente, sono un poco stracco.
Beatrice. Volete sedere?
Pancrazio. Sì, sederò volentieri. Non v’è nessuno che porti una sedia?
Beatrice. Non v’è nessuno, ve la darò io.
Pancrazio. O brava: siate benedetta!
Beatrice. (Bisogna prenderlo colle buone). (da sè)
Pancrazio. (Oggi è di buona luna). (da sè) Dove sono i ragazzi?
Beatrice. Florindo studia. Lelio sa il cielo dove sarà.
Pancrazio. Ma che? non sono tornati a casa insieme?
Beatrice. Oh pensate! Lelio ha piantato il maestro.
Pancrazio. Ha piantato il maestro? Come torna, voglio che mi senta.
Beatrice. Verrà a tavola a ora di pranzo colla solita sua franchezza; e voi non gli direte nulla, e lo lascerete mangiare senza dirgli una parola.
Pancrazio. A tavola io non grido. Se ho qualche cosa co’ miei figliuoli, piuttosto li mando a mangiare in camera, e così li mortifico senza gridare.
Beatrice. Sentite, finchè non farete la risoluzione di mandar via Lelio, non avremo mai bene.
Pancrazio. Perchè? Che cosa vi fa egli mai?
Beatrice. Egli inquieta tutti: a me non porta rispetto: calpesta il povero suo fratello e lo maltratta: si ride del maestro: infastidisce la servitù; insomma non si può tollerare.
Pancrazio. Io non dico che Lelio sia la miglior creatura del mondo; ma tutte queste cose che dite di lui, io non le ho ancora vedute.
Beatrice. Già si sa, non bisogna toccargli il suo primogenito.
Pancrazio. Si può parlare una volta tra marito e moglie d’amore e d’accordo, senza rancore e a cuore aperto?
Beatrice. Io non parlo mai; non potete dire che io sia di quelle che vogliono censurare ogni cosa.
Pancrazio. Ovvia, venite qua, sedete vicino a me, e discorriamo di una cosa che molto mi preme, e che deve premere anche a voi.
Beatrice. Dite pure, vi ascolto.
Pancrazio. M’è stato detto che il signor Geronio vuol maritare una delle sue figlie...
Beatrice. M’immagino sarà la signora Eleonora, perchè la signora Rosaura si è ritirata con sua zia e dice di non si voler maritare.
Pancrazio. O bene; sarà dunque la signora Eleonora. Un amico che mi vuol bene, mi ha avvisato di ciò, e considerando che io ho due figli, mi ha fatto toccar con mano che un miglior partito di questo per la mia casa non potrei trovare. Che cosa dite su questo particolare? Ci avete alcuna difficoltà? Parlatemi liberamente. Per quanto so, la ragazza è savia e modesta; ma siccome voi altre donne sapete tutte le ciarle e i fatti delle case, ditemi se vi è cosa alcuna che possa guastare un tal parentado.
Beatrice. Anzi io so di certo che la signora Eleonora è molto propria e civile, d’ottimi costumi e di buono aspetto; e poi, se avesse qualche difetto, sotto la mia educazione si correggerà facilmente. Ma ditemi una cosa, che mi preme assai più. A quali de’ due figliuoli pensate voi di dar moglie?
Pancrazio. A Lelio.
Beatrice. Sarebbe una gran cosa se maritaste il secondo invece del primo?
Pancrazio. Non posso far questo torto al primogenito.
Beatrice. Quanto a questo, me ne rido. Li potete ammogliar tutti e due.
Pancrazio. La moltiplicità de’ matrimoni rovina le famiglie; onde per conservarle basta che uno si mariti.
Beatrice. A voi preme di dare stato a Lelio, a me di dare stato a Florindo. Tutti e due possiamo esser contenti.
Pancrazio. Come? Tutti e due possiamo esser contenti? Che maniera di parlare è questa? Le premure della moglie non hanno da esser diverse da quelle del marito. Sono ambedue miei figli; a me tocca a pensarvi, e voi non vi dovete impacciare in simili cose.
Beatrice. Florindo l’ho fatto io.
Pancrazio. Bene, dopo messo al mondo, avete finito; il resto tocca a me.
Beatrice. Voi non pensate ad altri che al primo; e sapete perchè? Perchè alla prima moglie volevate tutto il vostro bene. Io sono da voi mal veduta. Pancrazio, io vi voglio bene: ma, per parlarvi col cuore in mano, se voi aveste quelle buone parti che aveva la mia prima moglie, ve ne vorrei ancora di più.
Beatrice. Ecco qui la solita canzone, sempre in mezzo la buona memoria della prima moglie.
Pancrazio. Oh! Ella non mi diceva mica: a voi preme questo, a me preme quest’altro: oh benedetta! Mi ricorderò sempre di te, fin che vivo.
Beatrice. Orsù, vogliatemi bene, vogliatemi male, non m’importa niente. Mi preme mio figlio, e se non pensate voi a dargli stato, ci penserò io.
Pancrazio. Sì? come, in grazia?
Beatrice. Colla mia dote. Della mia dote ne posso far quel che voglio.
Pancrazio. Quando sarò morto, ma non finchè vivo. Orsù, v’ho partecipato questo matrimonio che voglio fare, per atto di convenienza; se lo aggradite, bene: se no, non saprei che farmi. Vado a dirlo a Lelio. Sentirò che cosa egli dice; s’egli è contento, avanti sera chiedo la ragazza, e serro il contratto.
Beatrice. Florindo dunque non può sperare di maritarsi?
Pancrazio. Signora no: per ora non s’ha da maritare.
Beatrice. Questa massima è opposta all’altra di lasciare ai figliuoli l’elezion dello stato.
Pancrazio. È vero, signora sì, queste due massime sono contrarie; ma sentite e imparate ciò che si ricava da queste due massime. Felici quei figliuoli, che si possono eleggere liberamente il proprio stato; ma più felici quelle famiglie, che non vengono rovinate da’ figliuoli nella elezione dello stato. Chi ha l’arbitrio di operare, e opera con prudenza, ricompensa colla rassegnazione la libertà che gli viene concessa. Parlo come l’intendo, e so che, poco o assai, l’intendete ancor voi: avete spirito, avete talento, e beata voi, se lo voleste impiegare in bene. (parte)
Beatrice. Può fare, può dire quel che vuole, è mio figlio, lo amo teneramente. Se è vero che la signora Eleonora lo ami, vorrà lui, e non Lelio. Mi chiarirò; anderò io stessa in casa del signor Geronio; condurrò meco mio figlio, e si ammoglierà ad onta di mio marito. Quando noi altre donne ci cacciamo in testa una cosa, non ce la cava nemmeno il diavolo. (parte)SCENA V.
Altra camera di Pancrazio.
Fiammetta, fuggendo da Florindo.
Fiammetta. Via, dico, lasciatemi stare.
Florindo. Fermate, sentite una sola parola.
Fiammetta. Se volete che io vi ascolti, tenete le mani a voi.
Florindo. Io non vi tocco.
Fiammetta. Se non avete giudizio, lo dirò a vostro padre.
Florindo. Possibile che io vi voglia tanto bene, e che voi non mi possiate vedere?
Fiammetta. Non vi posso vedere, perchè siete così sfacciato.
Florindo. Cara Fiammetta, compatite se qualche volta eccedo; ciò proviene dal grand’amore che vi porto.
Fiammetta. Eh, non vi credo.
Florindo. Dal primo giorno che siete venuta in questa casa, ho concepito dell’amor per voi. Ogni giorno più è andato crescendo, ed oramai non posso resistere. La vostra modestia mi ha finito d’innamorare, e sono invaghito a segno di voi, che sarei pronto a sposarvi, se voi lo voleste.
Fiammetta. Sposarmi?
Florindo. Certamente.
Fiammetta. Se credessi che moriste dopo tre giorni, vi sposerei.
Florindo. Perchè crudele, perchè?
Fiammetta. Perchè, dopo tre giorni, son sicura che ve ne pentireste.
Florindo. Sarebbe impossibile che io mi pentissi di una cosa fatta con tanto genio.
Fiammetta. Come volete ch’io creda che abbiate genio con me, se fate il cascamorto con tutte le donne?
Florindo. Io! Non è vero. Sono tre mesi che non guardo una donna in faccia, per amor vostro.
Fiammetta. Eppure io so che stamattina siete stato da una bella ragazza.
Florindo. Chi ve l’ha detto?
Fiammetta. Ho sentito parlarne fra la signora madre ed il vostro maestro.
Florindo. È vero. Quella, da cui sono stato, è una ragazza che vorrebbero che io pigliassi per moglie; ma io non voglio, perchè sono innamorato della mia adorabil Fiammetta.
Fiammetta. (Se dicesse da vero, vorrei anche tentar la mia fortuna). (da sè)
Florindo. Ebbene, che cosa dite? Mi volete veder morire?
Fiammetta. Che cosa direbbe di me la vostra signora madre?
Florindo. Niente; quando si tratta di contentarmi, accorda tutto. Mia madre mi ama. M’impegno che, se lo sa, ci sposa colle sue mani.
Fiammetta. E il vostro signor padre?
Florindo. In quanto a lui, dica ciò che vuole, mia madre mi ha sempre detto che, se egli mi abbandonerà, mi manterrà colla sua dote.
Fiammetta. Se potessi sperare che la cosa andasse così...
Florindo. Sì, cara, non dubitate, anderà bene. In segno dell’amor mio, prendete un tenero abbraccio...
Fiammetta. Oh! adagio, è un poco troppo presto.
Florindo. E quando, quando potrò abbracciarvi?
Fiammetta. Quando mi avrete sposata.
Florindo. Vi sposo adesso, se voi volete.
Fiammetta. Dov’è l’anello?
Florindo. L’ho preso apposta per voi. Eccolo.
Fiammetta. Questo è un anello della vostra signora madre.
Florindo. È vero, ella me l’ha dato.
Fiammetta. Perchè fare?
Florindo. Per porlo in dito della mia sposa.
Fiammetta. Ma di qual vostra sposa?
Florindo. Di quella che più mi piacerà.
Fiammetta. Se saprà che son io, non se ne contenterà.
Florindo. Contento io, contenta sarà ella pure. Lasciate che vi metta l’anello in dito.
Fiammetta. E poi...
Florindo. È poi, e poi, non pensate più in là.
Fiammetta. (Basta, in ogni caso mi resterà l’anello). (da sè)
Florindo. Lo prendete o non lo prendete?
Fiammetta. Lo prendo.
Florindo. Ecco, o mia cara...
SCENA VI.
Ottavio e detti.
Ottavio. Cosa fate?
Florindo. Zitto.
Fiammetta. (Povera me, sono rovinata! ) (da sè)
Florindo. (Do ad intendere, zitto, a costei di sposarla). (piano ad Ottavio)
Ottavio. (Ma l’anello? I dieci zecchini? ) (da sè)
Fiammetta. Signor Ottavio, per amor del cielo, abbiate carità di me. Io non voleva e non voglio, ed egli mi tormenta e mi sforza.
Ottavio. Niente, figliuola, niente. Non dubitate di me. So compatire l’umana fragilità. Il povero giovane è innamorato di voi, voi lo siete di lui. Vi compatisco.
Florindo. Caro signor maestro, che ne dite? Questo matrimonio vi pare che si possa fare?
Ottavio. Si può fare, si può fare.
Fiammetta. Ma poi nasceranno mille strepiti e mille fracassi.
Ottavio. Fidatevi di me, e non dubitate. Ma se volete ch’io m’impieghi per voi a prò del vostro matrimonio, avete a fare una carità non già per me, ma per una povera fanciulla, che è in pericolo di perdersi.
Fiammetta. Dite pure quello ch’io posso, lo farò volentieri.
Ottavio. Un paio di smanigli d’oro possono far maritare una ragazza. Voi ne avete due paia; se me ne date un paio, li porto a questa povera fanciulla: si marita e si pone in sicuro, e voi mi avrete obbligato fino alla morte.
Fiammetta. Ma, signore, questi smanigli li ho guadagnati con le mie fatiche.
Florindo. Eh non importa, dateglieli, che ve ne farò io un paio di più belli.
Fiammetta. (Ho inteso, gli smanigli sono andati). (da sè) Signore, se questi smanigli possono assicurarmi le nozze del signor Florindo, sono pronta a sagrificarli. (Ma con le lacrime agli occhi). (da sè)
Ottavio. Fidatevi di me.
Fiammetta. Eccoli. (glieli dà)
Florindo. Oh brava! Oh cara! Ora vedo che mi volete bene.
Fiammetta. Se m’ingannate, il cielo vi castigherà.
Florindo. (Ricordatevi, uno per uno). (piano ad Ottavio)
Ottavio. (Questi li voglio per me). (da sè)
Florindo. Signor maestro, le do l’anello?
Ottavio. Sì, dateglielo, poverina, dateglielo.
Florindo. Eccolo, vita mia...
Ottavio. Presto, presto, vostro padre.
Fiammetta. Oh meschina me! Presto l’anello. (a Florindo)
Florindo. Non voglio che mi veda. Andate, che poi ve lo darò.
Fiammetta. Datemi gli smanigli. (ad Ottavio)
Ottavio. Siete pazza?
Fiammetta. O l’anello, o gli smanigli, qualche cosa.
Florindo. Eccolo, eccolo; partite, (accennando Pancrazio con ansietà)
Fiammetta. Oh povera me! Ho fatto un buon negozio, (parte)
Florindo. Non voglio che mio padre mi veda. Mi ritiro in quella camera, e se egli venisse là dentro, mi nascondo e mi serro dentro l’armadio. Tant’è, mio padre mi fa paura. (parte)
SCENA VII.
Ottavio, poi Pancrazio.
Pancrazio. Signor maestro, dove avete condotto i miei figliuoli questa mattina?
Ottavio. Di Lelio non vi posso render conto.
Pancrazio. Perchè? Cosa è stato? Non è per anco venuto a casa? Poveretto me! Gli è successo qualche disgrazia?
Ottavio. Non vi affannate tanto per un figlio così cattivo.
Pancrazio. È mio figlio, è mio sangue, e gli voglio bene, e quando ancora non gliene volessi, me ne premerebbe per la mia riputazione: il buon concetto de’ figli è quello che onora i padri.
Ottavio. Appena siamo usciti di casa, ha veduta una compagnia di persone che io non conosco, ma che giudico vagabondi; ci ha piantati ed è andato con essi, e mai più non l’abbiam veduto.
Pancrazio. Dovevate fermarlo.
Ottavio. Ma, signore, sono un poco avanzato, non posso correre.
Pancrazio. Venga, venga quel disgraziato! Ma, ditemi, caro signor maestro, e Florindo dove l’avete condotto?
Ottavio. L’ho condotto a sentire una conclusione morale.
Pancrazio, Non siete stati in casa del signor Geronio?
Ottavio. Non so nemmeno dove stia.
Pancrazio. E pure m’è stato detto che Florindo questa mattina sia stato in quella casa.
Ottavio. Uh! Male lingue. Non si è mai partito dal mio fianco.
Pancrazio. Guardate bene a non dir bugie.
Ottavio. Io dir bugie? Cielo, cielo, cosa mi tocca a sentire?
Pancrazio. M’è stato detto, ma può essere che non sia vero.
SCENA VIII.
Lelio e detti.
Lelio. Signor padre.
Pancrazio. Bravo, signor figliuolo, dove siete stato sino ad ora?
Lelio. Sono stato al negozio del signor Fabrizio Ardenti ad aggiustar quel conto delle lane di Spagna.
Ottavio. (Non gli credete: non sarà vero). (piano a Pancrazio)
Pancrazio. Scuse magre! Sarete stato co’ vostri compagni, e il ciel sa dove?
Lelio. Tenete, questi sono trecento scudi, che egli mi ha dati per resto e saldo de’ nostri conti. (dà una borsa a Pancrazio)
Pancrazio. (Prende la borsa, e guarda Ottavio.)
Ottavio. (Era meglio che fossi andato con lui). (da sè)
Pancrazio. Avete voi guardato bene tutte le partite del dare e dell’avere?
Lelio. Esattissimamente. Le ho riscontrate tre volte. Sono stato attentissimo.
Ottavio. Vede, signor Pancrazio? Tutto frutto delle mie lezioni. Un buon maestro fa un buono scolare.
Pancrazio. Ma se avete sempre detto che non impara niente!
Ottavio. Dai, dai; pesta, pesta: qualche cosa ha da imparare.
Lelio. Ho imparato più da me che dalla sua assistenza.
Ottavio. Oh ingratissimo uomo! Il cielo vi castigherà.
Lelio. Bravo, bravissimo. Ci conosciamo.
Pancrazio. O via, prendete questi denari, andate a metterli in quella camera, e serrate la porta.
Lelio. Vi servo subito. (s’incammina in quella camera, ove è celato Florindo)
Ottavio. (Ora trova Florindo, e s’attaccano. Ma forse Florindo si nasconderà). (da sè)
Lelio. (Entra in camera.)
SCENA IX.
Ottavio, Pancrazio, poi Lelio.
Pancrazio. Vedete? Sempre pensate al male. Sempre mettete degli scandali. V’ho pur sentito dir tante volte che non bisogna far giudizi temerari: che in dubbio siamo obbligati a prender la miglior parte: che del prossimo bisogna parlar bene: che non bisogna mettere i figliuoli in disgrazia del padre. Ma voi, caro signor maestro, che insegnate tutte queste massime, fate peggio degli altri.
Ottavio. Se prendete le mie parole in sinistra parte, non parlo più.
Lelio. (Esce dalla camera e la chiude con le chiavi.)
Ottavio. (Osserva) (Lelio chiude la camera. Florindo sarà nascosto). (da sè)
Lelio. Eccomi, signor padre. I denari li ho posti sul tavolino, e questa è la chiave della camera. (gli dà la chiave)
Pancrazio. Lelio, vieni con me. Avanti che andiamo a tavola, voglio che diamo un’occhiatina a quel conterello de’ cuoi.
Lelio. Farò tutto quello che comandate.
Ottavio. Signor Pancrazio, sono due ore che è suonato mezzo giorno.
Pancrazio. Un poco di pazienza. Quando mangerò io, mangerete anco voi.
Ottavio. Signore... per verità, ci patisco.
Pancrazio. Se non vi piace, andate a trovar di meglio, (parte)
Lelio. Non siete buono ad altro che a mangiare. (parte)
SCENA X.
Ottavio, poi Florindo.
Florindo. Signor maestro. (mettendo la testa fuori della porta)
Ottavio. Oh! Che fate lì?
Florindo. V’è nessuno?
Ottavio. No.
Florindo. Zitto.
Ottavio. (Sta a vedere che l’ha fatta bella! ) (da sè)
Florindo. La fortuna non abbandona nessuno. Ecco il sacchetto.
Ottavio. L’avete preso?
Florindo. Sì.
Ottavio. Bravo. Come avete fatto?
Florindo. Quand’è venuto Lelio, mi son nascosto nell’armadio, ho preso il sacchetto, ed ho aperta la porta per di dentro con somma facilità.
Ottavio. Ricordatevi che voglio la mia parte.
Florindo. Volentieri.
Ottavio. Son trecento scudi, cento e cinquanta per uno.
Florindo. Bene, bene, lasciate che vada a nascondere il sacchetto, e questa sera lo spartiremo.
Ottavio. Date qui, che lo nasconderò io.
Florindo. Di voi non mi fido.
Ottavio. Nè io di voi.
Florindo. I danari li ho presi io.
Ottavio. Se non mi date la mia parte, lo vado a dir subito a vostro padre.
Florindo. Via, come abbiamo da fare?
Ottavio. Qui non vi è nessuno. Presto, presto, dividiamo la borsa.
Florindo. Faremo a sorte, senza contare.
Ottavio. Sì, sì, mettete qui. (gli presenta il cappello, e Florindo vi getta parte delle monete)
Florindo. Oh! basta, basta. Credo che la parte sia giusta.
Ottavio. Fate una cosa. Tenete voi questi del cappello, e date a me il sacchetto, e vedrete che bel giuoco farò io con questo.
Florindo. Tenete pure, per me è lo stesso.
Ottavio. Or ora torno. (parte)
SCENA XI.
Florindo e Trastullo.
Florindo. In questo cappello i denari non istanno bene. È meglio che me li metta in tasca. (li va riponendo)
Trastullo. Bravo! Signor Florindo, mi rallegro con lei.
Florindo. Zitto, non dite nulla a mio padre.
Trastullo. Che non dica nulla? Oh! mi perdoni, son servitor fedele, e queste cose al padrone non si devon nascondere.
Florindo. Tenete questi denari e tacete.
Trastullo. Ah! Come la mi tura la bocca in questa maniera, non parlo più per cent’anni; anzi se vossignoria ha bisogno d’aiuto, mi comandi liberamente, e vedrà se la servirò. Quando i figliuoli di famiglia passano di concerto con i servitori, poche volte il padre arriva a scoprire la verità. (parte)SCENA XII.
Florindo, e poi Ottavio.
Florindo. Presto, presto, che metta via questi altri.
Ottavio. Ecco il sacchetto.
Florindo. Pieno?
Ottavio. Sì, pieno, ma sapete di che? Di cenere, con dentro delle palle di ferro e del piombo. Ponetelo sul tavolino dov’era. In questa maniera può darsi che il signor Pancrazio così presto non se ne accorga, e dia la colpa a qualcun altro.
Florindo. Sì, sì, dite bene. Date qui. Ora vado a metterlo nel luogo stesso. (entra nella camera)
Ottavio. Prevedo che questa faccenda vuol durar poco. Ma appunto per questo bisogna che io provveda ai futuri bisogni. Già in ogni caso mi salvo con dire, non ne so nulla.
Florindo. (Serra la porta) Eccomi, pare che non sia stato mai toccato.
Ottavio. Ah! Che ne dite? Son uomo di mente io?
Florindo. Siete bravissimo.
Ottavio. Orsù, andiamo a vedere se ci danno da desinare.
Florindo. Sì, e dopo voglio che andiamo a goderci un poco di questi quattrini.
Ottavio. Staremo allegri.
Florindo. Giuocheremo.
Ottavio. Anderemo da quell’amica.
Florindo. Evviva.
Ottavio. Fin che dura; ma se si scopre?
Florindo. Mia madre l’aggiusterà. (partono)
SCENA XIII.
Sala in casa di Pancrazio, con tavola apparecchiata.
Pancrazio, Lelio e Trastullo.
Pancrazio. Animo, mettete in tavola. Quattrocento scudi importa il cuoio, onde gli daremo quei trecento che vi ha dato il signor Fabrizio, e cento sono in questa borsa in tanti zecchini.
Trastullo. (Porta la minestra.)SCENA XIV.
Ottavio e detti.
Ottavio. Oh! eccomi, eccomi.
Pancrazio. E mia moglie dov’è?
Ottavio. Ora viene. Intanto principiamo noi. (siede a tavola)
Pancrazio. Sarà col suo caro figliuolo.
Ottavio. Signor Pancrazio, la minestra si fredda.
Pancrazio. Eccola, eccola, andiamo a tavola.
SCENA XV.
Beatrice, Florindo e detti
Pancrazio. (Siede Beatrice e Florindo) Che novità è questa, signora Beatrice, di venire a tavola in guardinfante?
Beatrice. Devo uscir subito che ho pranzato.
Pancrazio. E dove si va? Si può sapere?
Beatrice. Da mia comare.
Pancrazio. Brava! Salutatela in mio nome.
Ottavio. (Mentre parlano, si tira giù un buon piatto di minestra.)
Lelio. (Vuol prendere della minestra.)
Pancrazio. Aspettate, signore, abbiate creanza. Non mettete le mani nel piatto avanti gli altri.
Lelio. Ha fatto così anco il signor maestro.
Pancrazio. Egli lo può fare, e voi no. (È vero, i maestri bisogna che sappiano insegnare ancora le buone creanze). (da sè) Signora Beatrice, prendete. (dà la minestra a Beatrice)
Beatrice. Tieni. (la dà a Florindo)
Pancrazio. Quella l’ho data a voi.
Beatrice. Ed io l’ho data a mio figlio.
Pancrazio. Benissimo. Prendi, Lelio. (dà la minestra a Lelio)
Beatrice. Prima a lui, e poi a me. (a Pancrazio)
Pancrazio. Io v’ho fatta la prima, com’era di dovere.
Beatrice. Ed io l’ho data a Florindo; perchè l’ha da avere prima Lelio?
Pancrazio. Perchè Lelio è il maggiore.
Beatrice. Oh! oh! vi ha da essere la primogenitura anco nella minestra.
Pancrazio. Ovvia cominciamo? Voi sapete che vi ho più volte detto che a tavola non voglio grida. Prendete. (dà a lei la minestra che voleva dare a Lelio)
Lelio. Ed io l’ultimo di tutti?
Pancrazio. Prendi questa. Tu non sei mai l’ultimo, quando vai avanti a tuo padre. L’ultimo sarò io. (dà dell’altra minestra a Lelio)
Ottavio. Con sua licenza. Un’altra poca. (ne chiede dell’altra)
Pancrazio. Tenete: resterò senza io. (gli dà il piatto più grande)
Ottavio. Obbligatissimo alle sue grazie.
Pancrazio. Portate in tavola.
Trastullo. (Porta il cappone lesso, levando il piatto della minestra. Pancrazio taglia il cappone, Ottavio subito si prende un’ala.)
Pancrazio. (Guardate! Ha presa un’ala! Che screanzato!) (da sè) Signor maestro, le piace l’ala?
Ottavio. Assai. Sempre l’ala.
Pancrazio. Bravo! piace ancora a me.
Lelio. Io, se vi contentate, prenderò la groppa. (la prende)
Beatrice. Or ora non ve n’è più. (prende una coscia, e una ne dà Florindo)
Florindo. (Non la voglio). (a Beatrice piano)
Beatrice. (Perchè?) (da sè)
Florindo. (Se non ho la groppa, non mangio). (da sè)
Beatrice. Ehi, Lelio, datemi quella groppa.
Lelio. Signora, mi perdoni, piace anche a me.
Beatrice. Se piace a voi, voglio che la diate a me.
Lelio. Se la vuole per lei, è padrona, ma se fosse mai per mio fratello, non credo ne vorrà privar me, per darla a lui.
Beatrice. Egli non può mangiare, se non mangia la groppa.
Lelio. E se non può mangiare, lasci stare.
Beatrice. Impertinente! Sentite, signor maestro, queste belle risposte mi dà il signor Lelio.
Pancrazio. V’ho detto più volte che a tavola non si grida, e chi grida, fuori di tavola.
Beatrice. Sì, sì, anderò via, anderò via.
Pancrazio. A buon viaggio.
Beatrice. Andiamo, Florindo. (s’alza)
Pancrazio. Voi andate dove volete: ma egli ha da restar qua.
Beatrice. Vieni, vieni, ti manderò a comprare una pollastra, e mangerai la groppa.
Pancrazio. Se tu ti muovi, l’avrai a far meco. (a Florindo)
Beatrice. Se lo toccate, povero voi. Mi farete fare delle bestialità. (Meglio è che io vada, per non precipitare. Lelio è causa di tutto e Lelio me la pagherà). (da sè, e parte Florindo). Caro signor padre, io non ne ho colpa.
Pancrazio. Eh, eh! Signore, la discorreremo.
SCENA XVL
Trastullo e detti, poi Tiburzio.
Trastullo. Signor padrone, c’è il signor Tiburzio che le vorrebbe parlare.
Pancrazio. Ditegli che siamo a tavola, ma che se vuol venire, è padrone.
Trastullo. (Introduce Tiburzio, e parte.)
Tiburzio. Perdonatemi, signor Pancrazio, se credeva che foste a tavola, non veniva.
Pancrazio. Eh via, siete il padrone. Portate una sedia.
Tiburzio. Per dirvela, ho fretta; se ora non potete favorirmi, piuttosto tornerò.
Pancrazio. Signor no, non voglio darvi questo incomodo. Quanto è il mio debito?
Tiburzio. Quattrocento scudi. Ecco il conto.
Pancrazio. Va bene, quattrocento scudi; l’ho riscontrato ancora io. Lelio, va in camera, e prendi quel sacchetto de’ trecento scudi, e portalo qui. Ecco la chiave.
Lelio. Vado subito.
Tiburzio. Mi dispiace il suo incomodo. (a Lelio)
Lelio. (Per dirla, è un poco di seccatura). (da sè, e parte)
Ottavio. (Ehi, va a prendere il sacchetto). (piano a Florindo)
Florindo. (Tremo tutto). (piano ad Ottavio)
Ottavio. (Franchezza, faccia tosta). (da sè)
Pancrazio. Sedete, signor Tiburzio.
Tiburzio. Obbligatissimo.
Pancrazio. Se volete favorire, siete il padrone.
Tiburzio. Grazie; ho pranzato che sarà mezz’ora.
Pancrazio. Dategli da bere.
Tiburzio. No, davvero; fra pasto non bevo mai.
Ottavio. Se non vuol bever V. S., beverò io. Ehi, da bere. (gli portano da bere, ed ei subito beve)
Pancrazio. Signor Ottavio, non ci fate nemmeno un brindisi?
Ottavio. I brindisi non si usano più.
SCENA XVII.
Lelio che torna, e detti.
Ottavio. (Eccolo, eccolo). (a Florindo)
Florindo. (Me ne anderei volentieri). (ad Ottavio)
Ottavio. (Niente paura). (a Florindo)
Lelio. Ecco il sacchetto. (lo dà a Pancrazio)
Pancrazio. Mi par molto leggiero.
Lelio. Se ho da dire il vero, pare anche a me.
Pancrazio. (Apre il sacchetto) Che negozio è questo! Cenere e piombo? Sono questi i trecento scudi che m’avete portato!
Lelio. Ma io ho portato trecento scudi fra oro e argento! E questo è il sacchetto in cui erano. Non so che dire, rimango stordito.
Pancrazio. Io resto più stordito di voi. Come va quest’affare? Presto, temerario, confessa, che cosa hai fatto de’ denari? E quale inganno tramavi di farmi?
Lelio. Signore, vi assicuro che sono innocente.
Pancrazio. Tu hai messo il sacchetto in camera colle tue mani proprie. Tu hai serrata la porta. Non vi è altra chiave che apra quella porta, che questa: chi vuoi tu che l’abbia aperta?
Tiburzio. (Con queste istorie non vorrei perdere i quattrocento scudi). (da sè)
Ottavio. Vi volete fidar di lui.
Florindo. Se vi fidaste di me, non anderebbe così.
Lelio. Tutti contro di me? Tutti congiurati a precipitarmi?
Pancrazio. Taci, temerario, altri che tu non può aver fatto una bricconata di questa sorta.
Lelio. Vi giuro, per quanto vi è di più sacro...
Pancrazio. Zitto, non giurare. Signor Tiburzio, andiamo giù nel banco, che vi darò i vostri denari; e tu, infame, non ti lasciar più vedere, se non vuoi che ti sacrifichi colle mie proprie mani.
Lelio. Oh povero me! Signor padre, per carità.
Pancrazio. Va via di qua, indegno: andiamo, signor Tiburzio. (parte)
Tiburzio. Povero padre! Fa compassione. Andate, che siete una buona lana. (a Lelio, e parte)
Lelio. Ridete eh? ridete, bricconi? Sa il cielo che non siate voi altri i rapitori e che facciate comparire un povero innocente colla maschera di traditore. Il cielo è giusto; il cielo scoprirà il vero. Se me lo potessi immaginare, se lo potessi saper di certo, vorrei vendicarmi contro di te, falsario, impostore, ipocrita maledetto. (ad Ottavio, e parte)
Ottavio. Avete sentito? L’ha con me.
Florindo. Zitto.
Ottavio. Non parlo.
Florindo. Voglio andar da mia madre.
Ottavio. Andate, andate.
Florindo. In ogni caso mia madre mi assisterà, mi difenderà. (parte)
Ottavio. Qui non portano altro in tavola. Anderò a finir di mangiare in cucina. (parte)
SCENA XVIII.
Camera in casa del Dottor Geronio, con sedie.
Beatrice ed Eleonora.
Eleonora. Oh! Signora Beatrice, che miracolo è questo, che essa si degna di favorirci?
Beatrice. Sapete che sempre vi ho voluto bene.
Eleonora. Aspetti; vuol ch’io chiami Rosaura mia sorella?
Beatrice. Che! È qui in casa la signora Rosaura? Non è più con sua zia?
Eleonora. Questa mattina è ritornata in casa.
Beatrice. Sta bene? È di buona salute?
Eleonora. Aspetti, la chiamerò.
Beatrice. No, no, per ora ho piacere che siamo sole. Vi ho da parlare segretamente.
Eleonora. Come comanda. S’accomodi.
Beatrice. Cara la mia ragazza, parlatemi con libertà, come s’io fossi vostra madre. Vi maritereste voi volentieri?
Eleonora. Perchè no? Se mio padre vi acconsentisse, e mi si presentasse una buona occasione, certamente che lo farei.
Beatrice. Se vostro padre vi destinasse per marito Florindo, lo prendereste voi?
Eleonora. Perchè no?
Beatrice. Dunque vi piace?
Eleonora. Non è giovane da dispiacere.
Beatrice. Sentite, signora Eleonora, per dirvi tutto, non son qui venuta per un semplice complimento; ma desiderando io di dare stato a Florindo mio figlio, bramerei l’onore che voi diventaste mia nuora.
Eleonora. L’onore sarebbe il mio. Non sono degna di tanta fortuna.
Beatrice. Tutte cerimonie inutili. Se volete, possiamo concludere immediatamente.
Eleonora. Con mio padre ne avete parlato?
Beatrice. Non ancora, ma gliene parlerò.
Eleonora. Bene, favorite prima di sentire il suo sentimento, e poi vi potete assicurare del mio.
Beatrice. Ma se ora vostro padre non c’è, non potremmo intanto discorrerla fra di noi?
Eleonora. Signora mia, non vorrei che facessimo i conti senza l’oste. Bisogna prima sentir mio padre.
Beatrice. Mio figlio dovrebbe poco tardare a venire; se vi contentate, quando viene, lo farò passare.
Eleonora. Oh! perdonatemi, questo poi no. Se egli viene, io parto.
Beatrice. Perchè?
Eleonora. Mi ha detto assolutamente mio padre, che non vuole ch’io parli con alcun uomo, senza sua licenza. Io, che l’ho sempre obbedito, non lo voglio in questo disobbedire.
SCENA XIX.
Florindo e dette.
Florindo. Signora madre. (di dentro)
Beatrice. Figlio mio?
Florindo. Vi ho da dire una parola. Non posso fare a meno.
Beatrice. Per una parola lo lascerete venire. (ad Eleonora) Vieni, vieni.
Florindo. Eccomi. (entra in camera)
Eleonora. Con sua licenza. (si alza e parte)
SCENA XX.
Beatrice e Florindo, poi Rosaura.
Beatrice. Bella creanza! Hai veduto il bel rispetto che ha per me? Il bell’amore che ha per te? Ti pare che costei meriti di esser mia nuora? E avrai tu tanto cuore di sposare questa impertinente? Lasciala andare, non mancheranno ragazze più belle, più manierose di questa.
Florindo. Sentite, signora madre, io per dirvela non ho poi una gran passione per la signora Eleonora. Io mi voglio ammogliare; datemi questa, datemi un’altra, purchè abbia moglie, per me è tutt’uno.
Rosaura. Chi è qui? Chi è in questa camera?
Beatrice. Oh! signora Rosaura, mi rallegro di rivedervi.
Rosaura. Il cielo vi benedica, signora Beatrice; questo è il vostro figlio?
Beatrice. Signora sì.
Rosaura. Il cielo faccia che sia buono.
Florindo. Servo suo, mia signora.
Rosaura. Serva umilissima. Ma come! Non v’è nessuno che serva la signora Beatrice?
Beatrice. Finora è stata qui la signora Eleonora. Voleva chiamarvi, ma io non ho voluto recarvi incomodo.
Rosaura. Il cielo ve lo rimeriti, mentre era applicatissima a leggere una lezione contro i maldicenti. Oh, che vizio detestabile è la maldicenza! Oh, che danno cagiona al prossimo la mormorazione! E tutti l’hanno così famigliare, e specialmente noi altre donne.
Beatrice. Felice voi, che siete così bene istruita e illuminata.
Rosaura. Io, per grazia del cielo, aborrisco questo pessimo vizio più del demonio.
Beatrice. Voi siete una giovane particolare; ma vostra sorella non vi rassomiglia.
Rosaura. Per dirla, mia sorella è un poco fraschetta.
Beatrice. Mi ha piantato colla maggiore inciviltà del mondo.
Rosaura. È male allevata. Oh mia zia! Quella sa allevare le ragazze.
Beatrice. Pretende maritarsi con quel bel garbo. Troverà un villano, non uno che sia nato bene.
Rosaura. Perdonate la mia onesta curiosità. Vi è forse qualche maneggio fra mia sorella ed il signor Florindo?
Beatrice. Non voglio nascondervi la verità. Mio figlio ha qualche inclinazione per lei, e se ella non mi avesse fatto uno sgarbo, forse l’avrebbe presa.
Rosaura. Oh! signora Beatrice carissima, non vi consiglierei a fare questo sproposito.
Beatrice. Perchè, cara amica? Parlatemi con libertà.
Rosaura. Benchè ella sia mia sorella, sono obbligata a dire la verità.
Beatrice. Ditemela, ve ne prego.
Rosaura. Non è cattiva ragazza, ma è superba. Non è di cattiva indole, ma non è buona da niente per una casa. È savia e modesta, ma qualche volta le piace... Basta, non voglio dir male.
Beatrice. Le piace fare all’amore, non è egli vero?
Rosaura. Ah! Non bisogna mormorare del prossimo, e molto meno d’una sorella.
Beatrice. Con me potete parlare con libertà. Florindo, ritiratevi un poco.
Rosaura. Compatisca, signor Florindo.
Florindo. S’accomodi.
Rosaura. (Che bell’ideina da giovanetto da bene). (da sè)
Beatrice. E così? raccontatemi. Questa vostra sorella non si contiene?
Rosaura. Poverina, è compatibile! Non ha madre; il padre non è sempre in casa, le serve non abbadano. Oh libertà, libertà!
Beatrice. Vi è qualche cosa di male?
Rosaura. No, per grazia del cielo. Ma le ragazze, quando non si regolano con una certa prudenza, non trovano così facilmente il marito.
Beatrice. Per quello che io sento, vostra sorella ha intenzione di maritarsi.
Rosaura. Poverina! Ho paura che voglia prima invecchiare.
Beatrice. Vostro padre, che è uomo ricco e non ha maschi, vorrà prima di morire trovarsi un genero.
Rosaura. Così vuol la prudenza.
Beatrice. Come avrà il genero, se non marita la signora Eleonora?
Rosaura. Ci sono io.
Beatrice. Ah! siete disposta di maritarvi? Me ne rallegro infinitamente.
Rosaura. Bisognerà ch’io lo faccia, per obbedire a mio padre.
Beatrice. Mi era stato detto che non volevate partirvi da vostra zia.
Rosaura. Certo che mi sono staccata da lei colle lagrime agli occhi.
Beatrice. Perchè vostro padre obbligarvi a lasciar quella vita così felice?
Rosaura. Per imbarazzarmi negl’impicci del matrimonio.
Beatrice. Ma perchè non maritar l’altra figlia?
Rosaura. Oh! signora mia, tutti vogliono me. Più di venti partiti ha avuti mio padre, tutti per me: mia sorella nessuno la vuole.
Beatrice. Veramente è dispettosa. Appena ha veduto entrare in camera mio figlio, subito è fuggita.
Rosaura. È fuggita? Poverino! Gli ha fatto questo mal termine?
Beatrice. Gliel’ha fatto.
Rosaura. Io non avrei avuto questo cuore; è un giovane tanto savio!
Beatrice. Sentite, signora Rosaura, giacchè siete disposta a maritarvi, se il mio figlio non vi dispiace, ve l’offerisco.
Rosaura. Giacchè mio padre mi vuol mortificare col matrimonio, prenderò lui piuttosto che un altro.
Beatrice. Bisognerà dunque parlarne con vostro padre.
Rosaura. Mio padre non dirà di no. Aggiustiamo le cose fra di noi.
Beatrice. Oh brava ragazza! Così mi piace. Attendete un momento, che son da voi. (va vicino a Florindo)
Rosaura. (Bella davvero! Mia sorella minore vorrebbe maritarsi prima di me? Mia zia mi ha detto che guardi bene, che non mi lasci far di questi torti). (da sè)
Beatrice. Florindo.
Florindo. Signora.
Beatrice. Dimmi un poco: invece della signora Eleonora, avresti tu difficoltà alcuna di sposare la signora Rosaura?
Florindo. La bacchettoncina?
Beatrice. Sì, quella giovane savia, virtuosa e dabbene.
Florindo. Perchè no?
Beatrice. Vuoi che le parli?
Florindo. Sì, parlatele; già ve l’ho detto:1 purchè sia moglie, mi basta.
Beatrice. Ha diecimila ducati di dote. (piano tra loro)
Florindo. Benissimo.
Beatrice. Non ha ambizione.
Florindo. Meglio.
Beatrice. Non ha frascherie per il capo.
Florindo. Parlatele subito.
Beatrice. Mi pare anco che ti voglia bene.
Florindo. Via, che mi fate languire.
Beatrice. Subito, subito. Signora Rosaura, se siete contenta, Florindo mio figlio vi desidera per sua consorte.
Rosaura. È vero? (a Florindo)
Florindo. Signora sì, è vero.
Rosaura. Grazie.
Beatrice. E voi, signora Rosaura, lo desiderate per vostro sposo?
Rosaura. Ah pazienza! Signora sì.
Beatrice. Oh! bene; promettetevi tutti e due in modo di non potervi disimpegnare. A te, Florindo; prometti e giura di sposare la signora Rosaura.
Florindo. Prometto e giuro di sposare la signora Rosaura.
Beatrice. E voi, signora Rosaura, fate lo stesso?
Rosaura. Oh! io non giuro.
Beatrice. Perchè?
Rosaura. Perchè non ho mai giurato, nè voglio giurare.
Beatrice. Come volete che Florindo sia certo della vostra fede?
Rosaura. Si potrebbe fare un’altra cosa.
Beatrice. E che?
Rosaura. Sposarsi subito.
Beatrice. E vostro padre?
Rosaura. È tanto buono, lo approverà.
Beatrice. (Questa non ha tanti riguardi, come quell’altra). (da sè) Figliuola mia, voglio che facciamo le cose presto; ma non poi con tanto precipizio. Domani si concluderà. Orsù, la mia cara Rosaura, anzi figlia, vado a casa; ci rivedremo domani.
Rosaura. Andate via?
Beatrice. Sì, vado.
Rosaura. Anche il signor Florindo?
Beatrice. Vorreste che io lo lasciassi solo con voi?
Rosaura. Il cielo me ne liberi.
Florindo. Addio, la mia cara sposa.
Rosaura. Non mi dite questa parola, che mi fate venir rossa.
Florindo. Vogliatemi bene. (parte con Beatrice)
Rosaura. Farò l’obbligo mio. Che dirà Ottavio di me? Gli aveva data qualche speranza di prenderlo per marito; ma questo è giovane e ricco. La signora zia mi ha insegnato che non si mantiene la parola a costo del suo pregiudizio, e che quando capita una buona fortuna, non bisogna lasciarsela fuggir dalle mani.
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Nel testo c’è punto fermo.