Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa di Pancrazio con due tavolini, con sopra libri, carta e calamaio.

Lelio ad un tavolino, che studia. Florindo all’altro tavolino, che scrive. Ottavio, che assiste all’uno ed all’altro.

Ottavio. Testa dura, durissima come un marmo. (a Lelio)

Lelio. Avete ragione, signor maestro; sono un poco duro di cervello; ma poi sapete che, quando ho inteso, non fo disonore al maestro.

Ottavio. Bell’onor che mi fate! Ignorantaccio! Guardate un poco vostro fratello. Egli è molto più giovane di voi, e impara più facilmente.

Lelio. Beato lui che ha questa bella felicità. Non ho però veduto gran miracoli del suo bel talento. Si spaccia per bravo e per virtuoso, ma credo ne sappia molto meno di me. [p. 20 modifica]

Ottavio. Arrogante! Impertinente!

Lelio. (Il signor maestro vuol andar via colla testa rotta). (da sè)

Ottavio. Orsù, vado a riveder la lezione a Florindo, che m’immagino sarà esattissima; voi intanto applicate, e risolvete bene il quesito mercantile che v’ho proposto. Fate che il signor Pancrazio sia contento di voi.

Lelio. Ma questo è un quesito che richiede tempo e pratica; e senza la vostra assistenza non so se mi riuscirà dilucidarlo.

Ottavio. Le regole ve l’ho insegnate; affaticatevi, studiate.

Lelio. Che indiscretezza! Che manieraccia rozza e incivile! Ho tanta antipatia con questo maestro, che è impossibile ch’io possa apprendere sotto di lui cosa alcuna. Basta, mi proverò. Sto zitto per non inquietar mio padre, e per non far credere ch’io sia quel discolo e disattento che mi vogliono far comparire.

Ottavio. (S’accosta al tavolino di Florindo e siede vicino a lui) Florindo mio, state bene? Avete voi bisogno di nulla?

Florindo. In grazia, lasciatemi stare.

Ottavio. Se avete bisogno d’assistenza, son qui tutto amore per voi. La vostra signora madre m’ha raccomandato voi specialmente.

Florindo. So benissimo ch’ella v’ha detto che non mi facciate affaticar troppo, che non mi gridiate e che non mi disgustiate.

Ottavio. E chi ve l’ha detto, figliuol mio?

Florindo. Il servitor di casa, che l’ha intesa.

Ottavio. (Poca prudenza delle madri far sentire queste cose alla servitù). (da sè) E bene, che fate voi?

Florindo. Caro signor maestro, vi torno a dire che per adesso mi lasciate stare.

Ottavio. Ma si può sapere che cosa state scrivendo?

Florindo. Signor no. Io fo una cosa che voi non l’avete da vedere.

Ottavio. Di me vi potete fidare.

Florindo. No no, se lo saprete, lo direte a mio padre.

Ottavio. Non farò mai questa cattiva azione.

Florindo. Se mi potessi fidare, vorrei anco pregarvi della vostra assistenza.

Ottavio. Sì, caro Florindo mio, sì, fidatevi di me e non temete. [p. 21 modifica]

Florindo. Per dirvela, stava scrivendo una lettera amorosa.

Ottavio. Una lettera amorosa? Ah gioventù, gioventù! Basta, è a fin di bene o a fin di male?

Florindo. Oh! a fin di bene.

Ottavio. Via, quand’è così, si può concedere: vediamola, (la prende)

Florindo. Vorrei che dove sta male, la correggeste.

Ottavio. Si figliuolo mio, la correggerò. (legge piano) Oh! il principio non va male.

Lelio. Signor maestro, ho incontrato una difficoltà, che senza il vostro aiuto non la so risolvere.

Ottavio. Ora non vi posso badare. Sto rivedendo la lezione di Florindo.

Lelio. Convertire le lire di banco di Venezia in scudi di banco di Genova con l’aggio e sopr’aggio, a ragguaglio delle due piazze, non è cosa ch’io sappia fare.

Ottavio. Questo sentimento potrebbe essere un poco più tenero. Qui dove dice: siete da me amata, vi potreste aggiungere: con tutto il cuore.

Florindo. Bravo, bravo, date qui.

Lelio. Signor maestro, voi non mi badate?

Ottavio. Bado a vostro fratello. Vedete: appena gli suggerisco una cosa, ei la fa subito. Ha la più bella mente del mondo.

Lelio. Ed io sudo come una bestia. Voler che impari, senza insegnarmi? Questa è una scuola di casa del diavolo.

Florindo. E il resto della lettera vi par che vada bene?

Ottavio. Sì, va benissimo; ma aggiungetevi nella sottoscrizione: fedelissimo sino alla morte.

Florindo. Sì sì, bene, bene: sino alla morte.

SCENA II.

Beatrice e detti.

Beatrice. Via, via, basta così, non ti affaticar tanto, caro il mio Florindo: ti ammalerai, se starai tanto applicato. Signor maestro, ve l’ho detto, non voglio che s’ammazzi: il troppo studio fa impazzire. Levati, levati da quel tavolino. [p. 22 modifica]

Florindo. Eccomi, signora madre, ho finito. (dopo aver nascosta la lettera)

Ottavio. Ha fatta la più bella lezione che si possa sentire.

Florindo. Ed il signor maestro me l’ha corretta da par suo.

Beatrice. Caro amor mio, sei stracco? Ti sei affaticato? Vuoi niente? Vuoi caffè? Vuoi rosolio?

Lelio. Tutto a lui e a me niente. Sono tre ore che mi vo dicervellando con questo maledetto conto, e nessuno ha compassione di me.

Beatrice. Oh disgrazia, poverino! È grande e grosso come un somaro, e vorrebbe si facessero anche a lui le carezze.

Lelio. Eh! lo so che le matrigne non fanno le carezze a’ figliastri.

Beatrice. Io non fo differenza da voi, che mi siete figliastro, a Florindo, che è mio figlio. Amo tutti e due egualmente; sono per tutti e due la stessa. Caro Florindo, vien qua; lascia ch’io senta se sei sudato.

Lelio. Eh! signora, ci conosciamo. Basta, avete ragione. Prego il cielo che mio padre viva fino a cent’anni, ma se morisse, vorrei pagarvi della stessa moneta.

Beatrice. Sentite che temerario!

Florindo. Cara signora madre, non mortificate il povero mio fratello, abbiate carità di lui; se è ignorante, imparerà.

Lelio. Che caro signor virtuoso! La ringrazio de’ buoni uffici che fa per me. Ti conosco: finto, simulatore, bugiardo.

Beatrice. Uh lingua maledetta! Andiamo, andiamo, non gli rispondere. Non andare in collera, che il sangue non ti si riscaldi; vieni, vieni, che ti voglio fare la cioccolata.

Florindo. Cara signora madre, avrei bisogno di due zecchini.

Beatrice. Sì, vieni, che ti darò tutto quello che vuoi. Sei parte di queste viscere, e tanto basta. (parte)

Florindo. Se non fosse l’amor di mia madre, non potrei divertirmi e giuocare quando io voglio. Mio padre è troppo severo. Oh benedette queste madri! Son pur comode per li figliuoli! (parte) [p. 23 modifica]

SCENA III.

Ottavio, Lelio, poi Pancrazio.

Ottavio. E così, signor Lelio, questo conto come va?

Lelio. Ma come volete ch’io faccia il computo di queste monete, se non mi avete dimostrato che aggio facciano gli scudi di Genova?

Ottavio. Siete un ignorante. Ve l’ho detto cento volte. (Pancrazio esce da una stanza, e si trattiene ad ascoltare)

Lelio. Può essere che me l’abbiate detto, ma non me lo ricordo.

Ottavio. Perchè avete una testa di legno.

Lelio. Sarà così. Vi prego di tornarmelo a dire.

Ottavio. Le cose, quando l’ho dette una volta, non le ridico più.

Lelio. Ma dunque come ho da fare?

Ottavio. O fare il conto, o star lì.

Lelio. Io il conto non lo so fare.

Ottavio. E voi non uscirete di qua.

Lelio. Ma finalmente non sono un villano da maltrattarmi così.

Ottavio. Siete un asino.

Lelio. Giuro al cielo, se mi perdete il rispetto, vi tirerò questo calamaio nella testa.

Ottavio. A me questo?

Lelio. A voi, se non avete creanza.

Ottavio. Ah indegno! Ah ribaldo!...

Pancrazio. (Entra in mezzo.)

Ottavio. Avete intese le belle espressioni del vostro signor figliuolo? Il calamaio nella testa mi vuol tirare. Questo è quello che si acquista a volere allevar con zelo e con attenzione la gioventù.

Lelio. Ma signor padre...

Pancrazio. Zitto là, temerario. Questo è il vostro maestro e gli dovete portar rispetto.

Lelio. Ma se...

Pancrazio. Che cosa vorreste dire? Il maestro è una persona che si comprende nel numero de’ maggiori, e bisogna rispettarlo e obbedirlo quanto il padre e la madre. Anzi in certe circostanze [p. 24 modifica] si deve obbedire più de’ genitori medesimi, perchè questi qualche volta, o per troppo amore o per qualche passione, si possono ingannare: ma i maestri savi, dotti e prudenti, operano unicamente pel bene e pel profitto de’ loro scolari.

Lelio. Se tale fosse il signor Ottavio...

Pancrazio. A voi non tocca a giudicarlo. Vostro padre ve l’ha destinato per maestro, e ciecamente lo dovete obbedire. A me tocca a conoscere s’egli è uomo capace da regolare i miei figli; e voi, se avrete ardir di parlare e di non far quello che vi conviene, vi castigherò d’una maniera che ve ne ricorderete per tutto il tempo di vostra vita.

Lelio. Ma signor padre, lasciatemi dire la mia ragione, per carità.

Pancrazio. Non vi è ragione che tenga. Egli è il maestro, voi siete lo scolaro. Io son padre, voi siete figlio, io comando, ed egli comanda. Chi non obbedisce il padre, chi non obbedisce il maestro, è un temerario, un discolo, un disgraziato.

Lelio. Dunque...

Pancrazio. Andate via di qua.

Lelio. Ho da finire.

Pancrazio. Andate via di qua, vi dico.

Lelio. Pazienza! (Gran disgrazia per un povero scolaro dover soffrire le stravaganze di un cattivo maestro!) (parte)

SCENA IV.

Ottavio e Pancrazio.

Ottavio. Bravo, signor Pancrazio: siete veramente un padre prudente e saggio.

Pancrazio. Mio figlio è andato via; siamo soli, e nessuno ci ascolta. Signor Ottavio, con vostra buona grazia, voi siete un cattivo maestro, e se non muterete sistema, in casa mia non ci starete più.

Ottavio. Come, signore1, di che cosa vi potete lamentar di me? [p. 25 modifica]

Pancrazio. Sono stato là indietro, ed ho sentito con qual bella maniera insegnate le vostre lezioni. Colla gioventù è necessario qualche volta il rigore; ma la buona maniera, la pazienza e la carità è più insinuante per far profitto. Se si vede che nello scolare vi sia dell’ostinazione, e che non s’approfitti per non volere applicare, si adopra con discretezza il rigore; ma se il difetto viene dal poco spirito e dalla poca abilità, bisogna aiutarlo con amore, bisogna assisterlo con carità, consolarlo, animarlo, dargli coraggio, e fare che si adoperi per acquistarsi la grazia d’un amoroso maestro e non pel spavento d’un aguzzino.

Ottavio. Dite bene: son dalla vostra. Ma quei Lelio mi fa perder la pazienza.

Pancrazio. Se non sapete adoprar la pazienza, non fate la profession del maestro. Noi altri poveri padri fidiamo le nostre creature nelle vostre mani, e dipende dalla vostra educazione la buona o la cattiva riuscita de’ nostri figliuoli.

Ottavio. Io ho sempre fatto l’obbligo mio e lo farò ancora per l’avvenire. Del mio modo di vivere non ve ne potete dolere. Procuro d’insinuar loro delle buone massime, e se mi badassero, diventerebbero due figliuoli morigerati ed esemplarissimi.

Pancrazio. Se non fanno il loro debito, se non vi obbediscono, ditelo a me. Non siate con loro tanto severo. Fate vi riguardino con rispetto e non con timore. Quando lo scolare è spaventato dal maestro, lo considera come un nemico. Qualche volta è necessario dargli qualche premio, accordargli qualche onesto divertimento. In questa maniera i figliuoli s’innamorano della virtù, studiano con più piacere e imparano più facilmente.

Ottavio. Lelio è ostinato, altiero e intrattabile: all’incontro Florindo è docile, rispettoso e obbediente.

Pancrazio. Io son padre amoroso di tutti e due: sono ambidue del mio sangue, e la premura che ho per uno, l’ho ancora per l’altro. Odio e aborrisco la bestialità di quei padri, che innamorati d’un figliuolo, poco si curano dell’altro. Florindo è più docile, Lelio è più altiero: ma col più docile sto più sostenuto, e col più altiero qualche volta adopro maggior dolcezza... [p. 26 modifica] Dico qualche volta, perchè la docilità continuata può diventar confidenza, l’alterigia irritata può diventar odio e disprezzo: così contrappesando co’ loro temperamenti il mio contegno, spero ridurli pieni di rispetto per me, come io sono pieno d’amore per loro.

Ottavio. Viva mill’anni il signor Pancrazio.

Pancrazio. Viva due mila il mio caro signor maestro.

Ottavio. Ella potrebb’essere precettore d’un mezzo mondo.

Pancrazio. E a me basta che ella sia buono per i miei due figliuoli.

Ottavio. Impiegherò tutta la mia attenzione.

Pancrazio. Ella farà il suo debito.

Ottavio. Vossignoria non avrà da dolersi di me.

Pancrazio. Nè vossignoria di me.

Ottavio. M’affaticherò, suderò.

Pancrazio. E io premierò le sue fatiche, ricompenserò i suoi sudori.

Ottavio. Bravo, bravissimo! sono sempre bene spesi que’ danari che contribuiscono al profitto de’ figli. La mia attenzione si raddoppierà sempre, ed io son sicuro della generosità del signor Pancrazio. (parte)

SCENA V.

Pancrazio solo.

Non son sordo, ho capito. Son uomo che paga, son uomo che spende, ma che sa spendere: se egli è maestro di scuola, io son maestro d’economia. Ma giacchè ho tempo, voglio un poco discorrerla con questo nuovo servitore, che ho preso questa mattina. Gran fatalità! Bisogna ogni quindici giorni mutar la servitù: e per qual causa? Per la mia cara signora Beatrice. Ma! L’ho fatta la seconda minchioneria, mi son tornato a maritare: mi parve un buon acquisto sedici mila scudi di dote, ma mi sono costati cari, perchè li ho scontati a forza di struggimenti di cuore. Eh! Trastullo. [p. 27 modifica]

SCENA VI.

Trastullo e detto.

Trastullo. Illustrissimo.

Pancrazio. Zitto con questo Illustrissimo, non mi state a lustrare, che non voglio.

Trastullo. La mi perdoni, sono avvezzo a parlar così, e mi pare di mancare al mio debito, se non lo fo.

Pancrazio. Avrete servito de’ conti e de’ marchesi, e per questo sarete assuefatto a lustrare. Ma io son mercante, e non voglio titoli.

Trastullo. Ho servito delle persone titolate, ma ho servito ancora gente che sta a bottega, fra i quali un pizzicagnolo e un macellaro.

Pancrazio. E a questi davate dell’Illustrissimo?

Trastullo. Sicuro; particolarmente le feste, sempre Illustrissimo.

Pancrazio. Oh, questa veramente è graziosa! Ed essi si bevevano il titolo senza difficoltà, eh?

Trastullo. E come! Il pizzicagnolo particolarmente, dopo aver fatto addottorare un suo figlio, gli pareva di esser diventato un gran signore.

Pancrazio. Se tanto si gonfiava il padre, figuratevi il figlio!

Trastullo. L’illustrissimo signor dottore? Consideri! In casa si faceva il pane ordinario, ma per lui bianco e fresco ogni mattina. Per la famiglia si cucinava carne di manzo e qualche volta un capponcello: per lui v’era sempre un piccion grosso, una beccaccia o una quaglia. Quando egli parlava, il padre, la madre, i fratelli, tutti stavano ad ascoltarlo a bocca aperta. Quando volevano autenticar qualche fatto o sostener qualche ragione, dicevano: L’ha detto il dottore, il dottore l’ha detto, e tanto basta. Io sentiva dire dalla gente che l’illustrissimo signor dottore ne sapeva pochino, ma però ha speso bene i suoi denari, perchè coll’occasione della laurea dottorale son diventati illustrissimi anco il padre e la madre, e se io stava con loro un poco più, diventava illustrissimo ancora io.

Pancrazio. Io vado all’antica, e non mi curo di titoli superlativi. [p. 28 modifica] Mi basta aver de’ danari in tasca; con i danari si mangia, e con i titoli tante e tante volte si digiuna. Ditemi un poco, avete voi parlato con mia moglie?

Trastullo. Illustrissimo sì.

Pancrazio. Innanzi pure con questo Illustrissimo: v’ho detto che non lo voglio.

Trastullo. Eppure la padrona se lo lascia dare, e non dice niente.

Pancrazio. Se la padrona è matta, non sono matto io.

Trastullo. Ma come devo dunque contenermi? Qual titolo le ho da dare?

Pancrazio. Giacchè il mondo in oggi si regola su’ titoli, quello di Signora è sufficientissimo.

Trastullo. Signora si dice anco alla moglie d’un calzolaio; alla moglie d’un mercante bisogna darle qualche cosa di più.

Pancrazio. Basta che la moglie d’un mercante abbia una buona tavola, e che possa comparir da sua pari. Orsù, cominciamo a metter le cose in pratica. Prendete, questo è un mezzo zecchino; andate a spendere, comprate un cappone con tre libbre di manzo, che farà buon brodo e servirà per voi altri. Prendete un pezzo di vitello da latte da fare arrosto e due libbre di frutti. In casa c’è del salame e del prosciutto. Pane e vino ce n’è per tutto l’anno. Le minestre le prendo all’ingrosso, onde regolatevi che non si passino i dieci paoli. Voglio che si mangi, non voglio che la famiglia patisca; ma non voglio che si butti via.

Trastullo. Ella dice benissimo: anco a me piace molto l’economia, e specialmente dove vi è della famiglia. Ma se comanda, per vossignoria torrò un piccion grosso o quattro animelle...

Pancrazio. Signor no, quel che mangio io, mangiano tutti. In tavola il padre non ha da mangiare meglio de’ figliuoli, perchè i figliuoli, vedendo il padre mangiar meglio di loro, gli hanno invidia, restano mortificati e procurano in altro tempo i mezzi di soddisfar la loro gola.

Trastullo. Vossignoria è molto esatto nelle buone regole del padre di famiglia. [p. 29 modifica]

Pancrazio. Oh, se sapeste quanti debiti e quanti pesi ha un padre di famiglia, tremereste solo a pensarlo2! (parte)

SCENA VII.

Trastullo solo.

Il mio padrone la sa lunga, ma la so più lunga di lui. Oh, s’ingannano questi padroni accorti, se si credono d’arrivare a conoscere tutte le malizie de servitori! L’industria umana sempre più si raffina, e per conoscere un furbo, ci vuole un furbo e mezzo.

SCENA VIII.

Sala.

Fiammetta che dà l’amido alle camicie.

Presto, presto, bisogna inamidare queste camicie, altrimenti la signora padrona va sulle furie. Basta dire che siano pel suo caro Florindo. Se fossero per il signor Lelio, non gliene importerebbe, anzi mi saprebbe impiegare in altro, per distormi dal compiacerlo. Quel Florindo non lo posso vedere; mi viene intomo a fare il galante, e la signora padrona lo vede, lo sa e se ne ride; ma io non sono di quelle cameriere, che servono per tenere i figliuoli in casa, acciò non periscano fuori di casa. Eccolo quell’impertinente. Mi perseguita sempre.

SCENA IX.

Florindo e Fiammetta.

Florindo. Fiammetta, che fate voi di bello?

Fiammetta. Non vede? do l’amido alle camicie. (sostenuta)

Florindo. E di chi è questa bella camicia?

Fiammetta. E di Vossignoria Illustrissima. (ironicamente) [p. 30 modifica]

Florindo. Brava, la mia cara Fiammetta. Siete veramente una giovine di garbo.

Fiammetta. Obbligatissima alle sue grazie. (senza guardarlo)

Florindo. Siete graziosa, siete spiritosa, ma avete un difetto che mi spiace.

Fiammetta. Davvero? E qual è questo difetto che a lei dispiace?

Florindo. Siete un poco rustica; avete dei pregiudizi pel capo.

Fiammetta. Fo il mio debito, e tanto basta.

Florindo. Eh! ragazza mia, se non farete altro che il vostro debito, durerete fatica a farvi la dote.

Fiammetta. Noi altre povere donne, quando abbiamo un buon mestiere per le mani, troviamo facilmente marito.

Florindo. La fortuna vi ha assistito, facendovi capitare in una casa dove vi è della gioventù, e voi non ve ne sapete approfittare.

Fiammetta. Signor Florindo, questi discorsi non fanno per me.

Florindo. Cara la mia Fiammetta, e pure ti voglio bene.

Fiammetta. Alla larga, alla larga; meno confidenza.

Florindo. Lasciatemi vedere, che camicia è questa? (con tal pretesto le tocca le mani)

Fiammetta. Eh! giù le mani.

Florindo. Guardate, questo manichino è sdrucito. (la tocca)

Fiammetta. Che impertinenza!

Florindo. Via, carina. (segue a toccarla)

Fiammetta. Lasciatemi stare, o vi do questo ferro sul viso.

Florindo. Non sarete così crudele. (come sopra)

Fiammetta. Insolente. (gli dà col ferro sulle dita)

Florindo. Ahi! mi avete rovinato. Ahi! mi avete abbruciato.

SCENA X.

Beatrice e detti.

Beatrice. Cos’è? Cos’è stato?

Florindo. Fiammetta col ferro rovente mi ha scottate le dita; mirate, ahi, che dolore! [p. 31 modifica]

Beatrice. Ah disgraziata! Ah indegna! Perchè hai fatto questo male al povero mio Florindo?

Fiammetta. Signora, io non l’ho fatto apposta.

Florindo. Via, non l’avrà fatto apposta.

Beatrice. Ma voglio sapere come e perchè l’hai fatto.

Fiammetta. Se lo volete sapere, ve lo dirò. Questo vostro signor figliuolo è troppo immodesto.

Beatrice. Perchè immodesto? Che cosa ti ha fatto?

Fiammetta. Mi vien sempre d’intorno: mi tocca le mani.

Beatrice. Presto, va a prender dell’aceto, che voglio bagnar le dita a questo povero figliuolo. Presto, dico.

Fiammetta. Vado, vado. (Che bella madre!) (da sè)

Beatrice. Ti ha scottato col ferro?

Florindo. Signora sì.

Beatrice. Lascia, lascia, ne troveremo un’altra. (Poverino! Non va quasi, mai fuor di casa; se non si diverte colla servitù, con chi si ha da divertire?) (da sè)

Florindo. Non vorrei che la mandaste via, signora madre.

Beatrice. No? perchè?

Florindo. Perchè, per dirvela mi accomoda tanto bene le camicie...

Beatrice. Eh bricconcello, ti conosco. Abbi giudizio eh, abbi giudizio. (È giovine, povero ragazzo, lo compatisco). (da sè)

Fiammetta. Eccolo l’aceto. (torna con un vaso d’aceto)

Beatrice. Via, bagnagli quella mano.

Fiammetta. Ma io non so fare.

Beatrice. Guardate. Non sa fare. Ci vuol tanta fatica? Si prende la mano e si versa l’aceto sopra.

Florindo. Fate così, fate presto. Ahi, che dolore!

Fiammetta. (Oh pazienza, pazienza!) ((da sè) Eccomi, come ho da fare?

Florindo. Così, prendi questa mano.

Fiammetta. Così?

Florindo. Così. [p. 32 modifica]

SCENA XI.

Lelio e detti.

Lelio. Buon pro faccia al signor fratello. Mi rallegro che si diverta colla cameriera; e la rispettabile signora madre lo comporta.

Beatrice. Come ci entrate voi? Che cosa venite a fare nelle mie camere?

Lelio. Son venuto a vedere se il signor fratello vuole uscir di casa.

Beatrice. Mio figlio non ha da venir con voi. Siete troppo scandaloso; non voglio ch’egli impari i vostri vizi.

Lelio. Imparerò io le virtù di lui. Che bella lezione di moralità è questa? Per mano della cameriera!

Beatrice. A voi non si rendono questi conti.

Lelio. Fo per imparare.

Beatrice. Andate via di qua...

Lelio. Questa è camera di mio padre, e ci posso stare ancor io.

Beatrice. Questa è camera mia, e non vi ci voglio.

SCENA XII.

Pancrazio e detti.

Pancrazio. Che cosa è questo fracasso?

Beatrice. Questo impertinente non se ne vuol andare da questa camera.

Pancrazio. Come! Sì poco rispetto a tua madre?

Lelio. Ma questa, signor padre...

Pancrazio. Taci. E tu, Florindo, che cosa fai a tener per mano la cameriera?

Lelio. Egli, egli, e non io...

Pancrazio. Zitto, ti dico. Che cos’è questa confidenza? Che cosa sono queste domestichezze?

Florindo. Signore, mi sono scottato...

Beatrice. Povera creatura; è caduto in terra per accidente, ha dato la mano sul ferro che aveva messo qui Fiammetta, e vedetelo lì, si è abbruciato, si è rovinato. [p. 33 modifica]

Pancrazio. E v’è bisogno che Fiammetta lo medichi? Perchè non lo fate voi?

Beatrice. Oh! io non ho cuore. Se mi ci accosto, mi sento svenire.

Pancrazio. Animo, animo, basta così. (a Fiammella)

Fiammetta. (Se sto troppo in questa casa, imparerò qualche cosa di bello). (da sè) Comanda altro?

Beatrice. Va via di qua, non voglio altro.

Fiammetta. (Manco male). (va per partire)

Florindo. (Cara Fiammetta, un poco più di carità). (piano a Fiammella)

Fiammetta. (Se questa volta vi ho scottate le dita, un’altra volta vi scotto il naso). (piano a Florindo, e va via)

Pancrazio. Eh ragazzi, ragazzi! Se non avrete giudizio!

Lelio. Ma che cosa faccio? Gran fatalità è la mia!

Pancrazio. Manco parole. Al padre non si risponde.

Beatrice. Se ve lo dico, è insopportabile.

Florindo. Di me, signor padre, spero non vi potrete dolere.

Pancrazio. Qua voi non ci dovete venire. Questa non è la vostra camera.

Beatrice. Via, non gli gridate. Poverino! Guardatelo come venuto smorto. Subito che gli si dice una parola torta, va in accidente.

Pancrazio. Ah che caro bambino! Voi tu la chicca, vita mia? (ironico)

Beatrice. Già lo so, non lo potete vedere. Quello è le vostre viscere; quello è il vostro caro. Il figlio della prima sposa. Il primo frutto de’ suoi teneri amori.

Pancrazio. Basta, basta. Ovvia, signorini, andatevi a vestire, e andate fuori di casa col signor maestro.

Lelio. La signora madre non vuole che Florindo venga con me.

Beatrice. Signor no, non voglio. Non siete buono ad altro che a dargli de’ mali esempi.

Lelio. Eh, la signora madre gli dà dei buoni consigli.

Beatrice. Sentite che temerario!

Lelio. La verità partorisce l’odio.

Pancrazio. Vuoi tu tacere? [p. 34 modifica]

Lelio. Mi sento crepare.

Pancrazio. Se tu non taci... Va via di qua.

Lelio. (Oh! se fosse viva mia madre, non anderebbe così). (parte)

Pancrazio. Via, andate ancora voi. Vestitevi, che il maestro v’aspetta.

Beatrice. Ma se non voglio che vada con Lelio...

Pancrazio. A me tocca a regolare i figliuoli. Animo, sbrigatevi. (a Florindo)

Florindo. Io altro non desidero che obbedire il signor padre.

Beatrice. Sentitelo se non innamora con quelle parole dolci.

Pancrazio. Belle, belle, ma vogliono esser fatti e non parole.

Beatrice. Che fatti? Che cosa volete ch’egli faccia?

Pancrazio. Studiare e far onore alla casa.

Beatrice. Oh! per istudiare, studia anche troppo.

Pancrazio. Anche troppo? E lo dite in faccia sua? Senti tu che cosa dice tua madre? Che tu studi troppo. Ma io che ti son padre, ti dico che, se tu non istudierai, se tu non mi obbedirai, ti saprò castigare. Animo, va col signor maestro.

Florindo. (Sarà facile ch’io l’obbedisca, mentre è un maestro fatto apposta per uno scolare di buon gusto, come son io). (parte)

SCENA XIII.

Pancrazio e Beatrice.

Pancrazio. Che diavolo fate voi! Sul suo viso dite al vostro figliuolo che egli studia anche troppo? È questa la buona maniera di rilevare3 i figliuoli? Mi maraviglio de’ fatti vostri. Non avete punto di giudizio.

Beatrice. Confesso il vero che ho detto male; non lo dirò più. Ma voi, compatitemi, siete troppo austero, non date mai loro una buona parola; li tenete in troppa soggezione.

Pancrazio. Il padre non deve dar mai mai confidenza ai figliuoli; non dico che li debba trattar sempre con severità, ma li deve tener in timore. La troppa confidenza degenera in insolenza; e [p. 35 modifica] crescendo con l’età l’ardire e la petulanza, i figliuoli male allevati arrivano a segno di disprezzare e di maltrattare anco il padre.

Beatrice. Mio figlio non è capace di queste cose. È un giovane d’indole buona, e non potrebbe far male, ancor se volesse.

Pancrazio. Come! Non potrebbe far male, ancor se volesse? Sentimento da donna ignorante. Felice quello che nasce di buon temperamento, ma più felice chi ha la sorte d’avere una buona educazione! Un albero nato in buon terreno, piantato in buona luna, prodotto da una perfetta semenza, se non si coltiva, se non gli si leva per tempo i cattivi rami, diventa selvatico, fa pessimi frutti, e resta un legno inutile e buono solo a bruciare. Così i figliuoli, per bene che nascano, per buon temperamento che abbiano, come non si rilevano bene, come non si danno loro de’ buoni esempi, diventano pessimi, diventano gente inutile, gente trista, scorno delle famiglie e scandalo delle città. (parte)

SCENA XIV.

Beatrice sola.

Io non so di tanta dottrina. Non ho altro figlio che quello, e non lo voglio perdere per farlo troppo studiare. Se potessi, vorrei ammogliarlo. Mio marito vorrà dar moglie al maggiore, ed io come potrei soffrire in casa la consorte d’un mio figliastro! Sino una nuora, una sposa del mio caro figlio, la soffrirei; benchè difficilmente fra la suocera e la nuora si trovi pace. (parte)

SCENA XV.

Camera in casa di Geronio.

Rosaura vestita modestamente, ed Eleonora.

Eleonora. Brava sorellina, ho piacere che siate uscita dal vostro ritiro e che siate venuta in casa a tenermi compagnia.

Rosaura. Sorella carissima, sa il cielo quanto godo di stare in buona pace con voi, in casa del nostro carissimo genitore; ma [p. 36 modifica] io per altro stava più quieta nel mio ritiro, sotto la disciplina di quella buona donna di nostra zia, che è il ritratto della vera esemplarità.


Eleonora. È vero che la casa di nostra zia è piena di buoni esercizi e di opere virtuose, ma qui pure in casa nostra possiamo esercitar la virtù, essere due sorelle esemplari.

Rosaura. Oh! come si vive là, non si può viver qui. Le cure domestiche traviano dal sentiero della virtù.

Eleonora. Anzi le cure domestiche tengono lo spirito divertito, che non si perde in cose vane o in cose pericolose.

Rosaura. Qui si tratta, si conversa, si vede, si sente. Oibò, oibò, non ci sto volentieri.

Eleonora. Ma ditemi, cara sorella, in casa della signora zia non veniva mai alcuno a ritrovarvi?

Rosaura. Ci veniva qualche volta quell’uomo da bene, quell’uomo di perfetti costumi, il signore Ottavio.

Eleonora. Il signore Ottavio? il maestro de’ figliuoli del signor Pancrazio?

Rosaura. Quello appunto. Oh che uomo da bene! Oh che uomo esemplare!

Eleonora. E che cosa veniva a fare da voi?

Rosaura. Veniva ad insegnarmi a ben vivere.

Eleonora. E dove vi parlava?

Rosaura. Nella mia camera.

Eleonora. E la signora zia, che diceva?

Rosaura. Oh! la signora zia e di lui e di me si poteva fidare. I nostri discorsi erano tutti buoni. Se qualche volta s’alzavano gli occhi, era per pura curiosità, non per immodestia.

Eleonora. Quanto a questo poi, io sono stata allevata in casa; ma nè mia madre, buona memoria, nè mio padre, che il cielo conservi, mi avrebbero lasciata sola in una camera con un uomo esemplare.

Rosaura. Perchè voi altri fate tutto con malizia; ma in casa di mia zia tutto si fa a fin di bene.

Eleonora. Basta, sarà come dite. Ma, cara sorella, sapete perchè [p. 37 modifica] nostro padre vi ha levata di quella casa e vi ha voluto presso di lui?

Rosaura. Io non lo so certamente. Son figlia obbediente ed ho abbassato il capo a’ suoi cenni.

Eleonora. Quanto mi date, se ve lo dico?

Rosaura. Se il ciel vi salvi, ditemelo per carità.

Eleonora. Ho inteso dire, non da lui ma da altri, che voglia maritarvi.

Rosaura. Maritarmi?

Eleonora. Sì, maritarvi. Siete la maggiore. Tocca a voi, poi a me.

Rosaura. Oh cielo, cosa sento! lo dovrei accompagnarmi con un uomo?

Eleonora. Farete anco voi quello che fanno l’altre.

Rosaura. Voi vi maritereste?

Eleonora. Perchè no? Se mio padre l’accordasse, lo farei volentieri.

Rosaura. Vi maritereste così ad occhi chiusi?

Eleonora. Mio padre li aprirà per lui e per me.

Rosaura. E se vi toccasse un marito che non vi piacesse?

Eleonora. Sarei costretta a soffrirlo.

Rosaura. Oh! no, sorella carissima, non dite così, che non istà bene. Il matrimonio vuol pace, vuol amore, vuol carità. Il marito bisogna prenderlo di buona voglia, che piaccia, che dia nel genio; altrimenti v’è il diavolo, v’è il diavolo, che il ciel ci guardi.

Eleonora. Dunque come ho da fare?

Rosaura. Via, via, che le ragazze non parlano di queste cose.

Eleonora. Cara sorella, mi raccomando a voi.

Rosaura. Siate buona e non dubitate.

Eleonora. Me lo troverete voi un bel marito?

Rosaura. Se sarete buona.

Eleonora. Farò tutto quello che mi direte.

Rosaura. Il cielo vi benedica. [p. 38 modifica]

SCENA XVI.

Ottavio, Florindo e detti.


Ottavio. (Dì dentro) Chi è qui? Si può entrare?

Eleonora. Oh povera me! Chi sarà mai?

Rosaura. Sia ringraziato il cielo; è quel buon uomo del signor Ottavio.

Eleonora. Non c’è nostro padre. Mandiamolo via.

Rosaura. Oh, gli volete fare questo mal garbo? Venga, venga, signor Ottavio.

Eleonora. E con lui v’è un giovine.

Rosaura. Sarà qualche suo morigerato discepolo.

Eleonora. È un figlio del signor Pancrazio. Mandiamoli via.

Rosaura. Gli uomini dabbene non si mandano via.

Ottavio. Pace e salute alla signora Rosaura.

Rosaura. Pace e salute a voi, signor Ottavio.

Florindo. Servo umilissimo, mia signora. (ad Eleonora)

Eleonora. Lo riverisco.

Ottavio. Come ve la passate, signora Rosaura, nella vostra casa paterna?

Rosaura. Sono mortificata, trovandomi lontana dalla mia cara zia e dalle mie amorose cugine.

Ottavio. Bisogna obbedire il padre e uniformarsi alla volontà del cielo.

Rosaura. Volete accomodarvi?

Ottavio. Lo farò per obbedirvi.

Rosaura. Quel signore è vostro scolare?

Ottavio. Sì, è un mio scolare, ma di ottimi costumi, illibato come un’innocente colomba.

Rosaura. Fatelo sedere. Ditegli che non istia in soggezione.

Ottavio. Ehi, signor Florindo.

Florindo. Che mi comanda, signor maestro?

Ottavio. Sedete.

Florindo. Dove?

Ottavio. Ingegnatevi. [p. 39 modifica]

Florindo. Voi dove sedete?

Ottavio. Io? Qui. (siede presso Rosaura)

Florindo. Ed io qui. (siede presso Eleonora)

Eleonora. (Io sono in un grande imbroglio).

Rosaura. Via, signor Ottavio. Diteci qualche cosa di bello, di esemplare, al vostro solito.

Ottavio. Volentieri. Questa è un’operetta graziosa, uscita nuovamente alla luce. Capitolo terzo. Della necessità del matrimonio per la conservazione della specie umana.

Eleonora. Bel capitolo! (a Florindo)

Florindo. Vi piace? (a Eleonora)

Eleonora. Non mi dispiace. (a Florindo)

Ottavio. (Che ne dite di questo bell’argomento?) (piano a Rosaura)

Rosaura. (La proposizione non può esser più vera). (ad Ottavio)

Ottavio. (Dunque non sareste lontana dal maritarvi?) (a Rosaura)

Rosaura. (Tirate avanti la vostra lezione). (ad Ottavio)

Ottavio. Amore è quello che genera tutte le cose.

Rosaura. (Amore?) (ad Ottavio)

Ottavio. (Sì, amore). Amore opera colla sua virtù.

Florindo. Che bella parola è questo amore! (piano ad Eleonora)

Eleonora. Non è brutta, non è brutta. (piano a Florindo)

SCENA XVII.

I quattro suddetti parlano piano a due a due fra loro. Geronio si avanza bel bello osservandoli, e viene nel mezzo.

Geronio. Padroni miei riveriti.

Ottavio. Oh! riverente m’inchino al signor Geronio. (si alza)

Florindo. Servitor suo, mio padrone. (si alza)

Geronio. Che cosa fanno qui, signori miei?

Ottavio. Avendo io avuto la fortuna di conoscere la signora Rosaura, quando era in casa della signora sua zia, ed essendo noi accostumati a far delle riflessioni su qualche buon libro, era venuto per non perder l’uso di un così bello esercizio.

Geronio. Si esercita egualmente anche questo signore? (verso Florindo) [p. 40 modifica]

Florindo. Per l’appunto.

Ottavio. È mio scolare.

Geronio. Cari signori, li supplico, abbiano la bontà di andare a esercitarsi in qualche altro luogo!

Florindo. Io sono scolare del signor Ottavio.

Ottavio. Sono maestro de’ figliuoli del signor Pancrazio.

Geronio. Io dico al signor maestro che le mie figliuole non hanno bisogno delle sue lezioni, e rispondo al figlio del signor Pancrazio che in casa mia non si viene, senza che io lo sappia.

Ottavio. Vossignoria ha una figliuola molto prudente!

Geronio. Tutto effetto della sua bontà.

Florindo. Vossignoria è felice nella sua prole.

Geronio. Ella mi confonde colle sue cortesi parole.

Ottavio. Signora Rosaura, ricordatevi della lezione.

Rosaura. Eh, non me ne scordo.

Ottavio. (Sì, sì, quelle lezioni che trattano di matrimonio, s’imprimono facilmente nel cuore d’una fanciulla). (parte)

Geronio. Vossignoria quando parte? (a Florindo)

Florindo. Subito, signora Eleonora, ricordatevi del capitolo.

Eleonora. Sì, l’ho a memoria.

Florindo. (Credo anch’io, non se lo scorderà. In questa sorta di cose le donne e gli uomini diventano in breve tempo maestri). (parte)

SCENA XVIII.

Geronio, Rosaura ed Eleonora.

Rosaura. Permettetemi, signor padre, che io vi baci la mano.

Geronio. Perchè causa mi volete baciar la mano?

Rosaura. Perchè devo portarmi nella mia camera.

Geronio. Signora no, per ora avete da restar qui.

Rosaura. Come volete; io sono figlia obbediente.

Eleonora. Ed io, signor padre?

Geronio. E voi andate.

Eleonora. Siete forse in collera per quel giovane? (È stata causa [p. 41 modifica] Rosaura. Io non voleva...) Sentite, è bacchettona, ma ne sa quanto il diavolo. (parte)

Geronio. Ditemi un poco, la mia signora modesta e scrupolosa, è questa la bella educazione che avete avuta dalla vostra signora zia? Il primo giorno che ritornate in casa ricever visite e conversazione?

Rosaura. Conversazione savia e modesta.

Geronio. Savia e modesta? Non ti credo un fico. La modestia insegna alle donne sfuggire le occasioni di ritrovarsi da solo a solo con gli uomini; ma quando anzi si cerca, e quando piace, non si chiama modestia, ma ipocrisia.

Rosaura. Uh povera me! Voi fate de’ cattivi giudizi.

Geronio. Orsù, concludiamo. In casa mia non voglio visite e specialmente quel signor Ottavio. Badate bene che non ci venga mai più.

Rosaura. Un uomo tanto dabbene! E chi verrà ad istruirmi nelle belle massime di una perfetta morale?

Geronio. La morale che avete a imparare, ve la insegnerò io. Essa è facile, facilissima. Obbedienza al padre; amore e carità colla sorella; attenzione alla casa; poca confidenza colle finestre, e non ricevere alcuno senza la mia permissione.

Rosaura. Signor padre, non mi aspettava da voi un simile complimento. Viva la bontà del cielo, si sa chi sono; e malgrado de’ vostri falsi sospetti, si sa che io non ho mai dato un cattivo esempio. Signor padre, la bontà del cielo sia sempre con voi. (gli bacia la mano e parte)

SCENA XIX.

Geronio solo.

Obbligato, obbligato. Mia figlia è veramente investita del carattere vero della ipocrisia. Eccola qui, superba, ambiziosa, nello stesso tempo che vanta d’esser modesta ed umile. Ah, pur troppo ella è così! Queste femmine coltivano sotto l’apparenza d’una affettata bontà il veleno della più fina ambizione. Ho creduto [p. 42 modifica] far bene a metterla sotto la direzione di sua zia, e mi sono ingannato. Eleonora, ch’è stata allevata in casa, non è bacchettona, ma è docile e rassegnata; e però vado osservando che la migliore educazione per li figliuoli è quella d’un savio e discreto padre in una ben regolata famiglia.

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Zatta: Come! Signore.
  2. Zatta ha l’ammirativo dopo famiglia.
  3. Zatta: allevare.