Il padre di famiglia/Atto III

Atto III

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Atto II Appendice

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa di Pancrazio, con lumi.

Florindo e Ottavio.

Ottavio. Avete saputa la nuova? Lelio non si trova più. Intimorito di suo padre, è fuggito, e non si sa dove siasi ritirato.

Florindo. Suo danno. Vuol vivere a modo suo; non si vuole unir con noi.

Ottavio. Ma se si scoprono le cose nostre, per noi come anderà?

Florindo. Eh! non dubitate. Mia madre aggiusterà tutto.

Ottavio. (Solita lusinga de’ figli. Si fidano alla madre), (da sè)

Florindo. Ma io, signor maestro, ho da dare a voi una nuova molto più bella.

Ottavio. Sì? ditemela, che avrò piacere.

Florindo. Sapete che io son fatto lo sposo? [p. 76 modifica]

Ottavio. Me ne rallegro. E con chi?

Florindo. Colla figlia del signor Geronio.

Ottavio. Bravo, bravo, nuovamente me ne rallegro. Avete l’obbligazione a me, che vi ho introdotto.

Florindo. È vero, voi avete avuto il merito di avermi condotto in quella casa; ma rispetto alla ragazza non avete fatto niente per me.

Ottavio. Come! Non v’ho fatto io sedere a lei vicino? Non ho procurato che abbiate libertà di parlare? Non vi ho proposto io le di lei nozze?

Florindo. Tutto questo l’avete fatto per la signora Eleonora; ma quella non è la mia sposa.

Ottavio. No? E chi è dunque?

Florindo. La signora Rosaura.

Ottavio. Eh! andate via, che siete pazzo.

Florindo. Non lo volete credere?

Ottavio. La signora Rosaura non vuol marito. (Altri che me). (da s’è)

Florindo. Vi dico assolutamente che questa deve essere la mia sposa.

Ottavio. Da quando in qua?

Florindo. Da oggi, da poche ore.

Ottavio. Chi ha fatto questo maneggio?

Florindo. Mia madre.

Ottavio. E voi vi acconsentite?

Florindo. Volentierissimo.

Ottavio. (Che ti venga la rabbia!) (da sè) Ed ella che dice?

Florindo. Non vede l’ora di farlo.

Ottavio. (Che tu sia maledetta!) (da sè) Ma il padre vostro e il padre suo che dicono?

Florindo. In quanto al mio, non ci penso. Basta che sia contenta mia madre; e la signora Rosaura è disposta a voler fare a suo modo.

Ottavio. (Brava la modestina, brava!) (da sè) Ma io, figliuolo mio, non vi consiglierei a fare una simile risoluzione senza farlo sapere a vostro padre.

Florindo. Se lo fo sapere a lui, non prendo moglie per ora. [p. 77 modifica]

Ottavio. Quando poi lo saprà, vi saranno degli strepiti.

Florindo. Col tempo si accomoda ogni cosa.

Ottavio. Conoscete pure il temperamento del signor Pancrazio.

Florindo. Mi fido nella protezione di mia madre.

Ottavio. (Madre indegnissima! Madre scelleratissima!) (da sè) Come avete fatto a innamorarvi sì presto della signora Rosaura?

Florindo. Io non sono innamorato.

Ottavio. Non siete innamorato, e la volete sposare?

Florindo. Prendo moglie per esser capo di famiglia, per uscire della soggezione del padre, per maneggiare la mia dote, per prender la mia porzione della casa paterna, per dividermi dal fratello, per fare a modo mio e per vivere a modo mio.

Ottavio. Eh! figliuolo, ve ne pentirete. Udite il consiglio di chi ama il vostro bene.

Florindo. Io non ho bisogno de’ vostri consigli.

Ottavio. Io sono il vostro maestro, e mi dovete ascoltare.

Florindo. Voi siete il maestro che m’insegna a giuocare e a scrivere le lettere amorose.

Ottavio. Siete un temerario.

Florindo. Siete un buffone.

Ottavio. Così trattate il vostro precettore?

Florindo. Così tratto chi mi ha fatto il mezzano, chi mi ha tenuto mano a rubare. (parte)

Ottavio. Ah! costui mi colpisce sul vivo. Non posso rispondergli come vorrei, perchè in fatti sono stato con esso troppo condiscendente. Ma che! Lascierò correre questo matrimonio? Perderò le speranze di conseguire Rosaura? No, non sia vero. Gelosia mi stimola a sollecitare, a prevenire, a risolvere e quando occorra, a precipitare. (parte)

SCENA II.

Pancrazio e Geronio.

Pancrazio. Caro signor Geronio, son travagliato.

Geronio. So la causa del vostro travaglio. Son padre ancor io e vi compatisco. [p. 78 modifica]

Pancrazio. Sapete dunque che cosa m’ha fatto Lelio mio figlio?

Geronio. Lelio, vostro figlio, non è capace di una simile iniquità.

Pancrazio. L’avete veduto? Sapete dov’egli sia?

Geronio. L’ho veduto, e so dove egli è.

Pancrazio. Sia ringraziato il cielo. Sentite, amico, vi confido il mio cuore. I trecento scudi mi dispiacciono, ma finalmente non sono la mia rovina. Quello che mi dispiace è di dover perdere un figlio, che fino ad ora non mi ha dati altri travagli che questo; un figlio, che mi dava speranza di sollevarmi in tempo di mia vecchiezza.

Geronio. Credete veramente che Lelio v’abbia portati via li trecento scudi?

Pancrazio. Ah, pur troppo è così! Il signor Fabrizio m’ha assicurato che ha consegnati i denari a Lelio.

Geronio. Ed io credo che sia innocente.

Pancrazio. Volesse il cielo! L’avete veduto? Gli avete parlato?

Geronio. L’ho trovato per strada piangente, disperato. Mi ha raccontato il fatto e mi ha intenerito. Per la buona amicizia che passa fra voi e me, ho procurato quietarlo, consolarlo. Gli ho data speranza che si verrà in chiaro della verità; che parlerò a suo padre; che tutto si aggiusterà; e abbracciandolo, come mio proprio figlio, l’ho condotto alla mia casa e ho riparato in questa maniera ch’ei non si abbandoni a qualche disperazione.

Pancrazio. Vi ringrazio della carità. Adesso è tuttavia in vostra casa?

Geronio. Sì, è in mia casa; ma vi dirò che l’ho serrato in una camera, e ho portato meco le chiavi, perchè ho due figlie da marito, e non vorrei, per fare un bene, esser causa di qualche male.

Pancrazio. Avete due figlie da maritare, lo so benissimo.

Geronio. E non ho altri che queste; e quel poco che ho al mondo, sarà tutto di loro. [p. 79 modifica]

Pancrazio. Oh! se voi sapeste quanto tempo è che ci penso, e quante volte sono stato tentato di domandarvene una per uno de’ miei figliuoli?

Geronio. Questo sarebbe il maggior piacere che io potessi desiderare; sapete quanta stima fo di voi, e so, che non potrei collocar meglio una mia figliuola.

Pancrazio. Ma adesso non ho più faccia di domandarvela.

Geronio. No? Perchè?

Pancrazio. Perchè Florindo è ancora troppo giovane, e non ha tutto il giudizio; e poi egli è d’un certo temperamento, e che non1 mi fa risolvere a dargli moglie. Aveva destinato che si accasasse Lelio, come maggiore, e che mi pareva di miglior condotta e giudizio; ma adesso non so che cosa mi dire. Questo fatto de’ trecento scudi mi mette in agitazione. Non vorrei rovinare una povera ragazza, e quel che non piacerebbe a me, non ho cuore di proporlo ad un altro.

Geronio. Voi non parlate male. Si tratta di un matrimonio. Si tratta della quiete di due famiglie. Procuriamo di venire in chiaro della verità. Formiamo un processetto con politica fra voi e me. Voi avete in casa dell’altra gente, avete della servitù. Chi sa, potrebbe darsi che qualcun altro fosse il ladro, e Lelio fosse innocente.

Pancrazio. Volesse il cielo che fosse così! In tal caso gli dareste una delle vostre figlie per moglie?

Geronio. Molto volentieri. Con tutto il cuore.

Pancrazio. Caro amico, voi mi consolate. Voi siete veramente un amico di cuore.

Geronio. Il vero amico si conosce nelle occasioni, nei travagli.

Pancrazio. Ma i travagli sono spessi, e i veri amici sono rari.

Geronio. Amico, ci rivedremo. Sperate bene. Quanto prima sarò da voi. (parte)

Pancrazio. Sono in un mare d’agitazioni. (parte) [p. 80 modifica]

SCENA III.

Sala in casa del Dottor Geronio, con porta laterale chiusa ed una finestra dall’altra parte. Lumi sul tavolino.

Eleonora, poi Rosaura.

Eleonora. Chi mai è stato serrato da mio padre in questa camera? Confesso il vero che la curiosità mi spinge a saperlo. (si accosta e guarda per il buco della chiave) Oh, capperi, chi vedo! Il signor Lelio, figlio del signor Pancrazio! Che cosa fa in questa camera? (torna a guardare, come sopra)

Rosaura. Sorella, che fate qui?

Eleonora. Zitto, non fate rumore. (guarda, come sopra)

Rosaura. Che cosa guardate con tanta attenzione?

Eleonora. Qui dentro v’è un giovane rinserrato.

Rosaura. Un giovine? E chi l’ha fatto entrare colà?

Eleonora. Il signor padre,

Rosaura. Lo conoscete voi cotesto giovane?

Eleonora. Lo conosco certo. Egli è il signor Lelio, figlio primogenito del signor Pancrazio.

Rosaura. Fratello del signor Florindo?

Eleonora. Per l’appunto.

Rosaura. Ed è il primogenito?

Eleonora. Certamente. È figlio della sua prima moglie.

Rosaura. Dunque si mariterà prima di suo fratello.

Eleonora. Ragionevolmente dovrà esser così.

Rosaura. Ehi, ditemi. È bello questo signor Lelio?

Eleonora. È un giovane di buon garbo. Io mi prendo spasso a vedere certi atti d’ammirazione che egli va facendo. (guarda, come sopra)

Rosaura. Via, via, sorella, basta così. Non vi lasciate trasportare dalla curiosità. Questo è un vizio cattivo, da cui ne vengono delle pessime conseguenze.

Eleonora. E che cosa può avvenire di male, se guardo un giovane per il buco della chiave?

Rosaura. Poverina! Siete troppo ragazza e siete male allevata. [p. 81 modifica] non sapete niente. Potete vedere quello che non vi conviene vedere.

Eleonora. Quando è così, acciò non crediate che io in questa curiosità ci abbia della malizia, non solo lascerò di guardare, ma me ne anderò da questa camera.

Rosaura. Farete benissimo. Questo è l’obbligo delle persone dabbene; sfuggire le occasioni, e allontanarsi da ogni ombra di pericolo.

Eleonora. Sorella, io vado nella mia camera. Volete venire con me?

Rosaura. No no, andate, che il cielo v’accompagni.

Eleonora. (Quanto pagherei a sapere per che causa il signor padre ha serrato là dentro quel giovane!) (da sè, parte)

SCENA IV.

Rosaura, poi Eleonora.

Rosaura. Un giovanetto là dentro? Perchè mai? Lo voglio un poco vedere. Uh, com’è bello! Poverino! Sospira! Mi fa compassione! Se potessi, lo consolerei. Piange, poverino, piange! Che fosse innamorato di me! Per qualche cosa mio padre l’ha qui rinserrato; ma io ho data parola a Florindo. E se Florindo non viene? Davvero non so, da Florindo a questo, chi più mi piaccia. Mi piacciono tutti due. Questo ha più dell’uomo. (guarda come sopra)

Eleonora. Brava, signora sorella, la vostra non si chiama curiosità.

Rosaura. No, sorella carissima, la mia non si chiama curiosità.

Eleonora. Ma che cosa v’ha spinto a guardar là dentro?

Rosaura. La carità del prossimo.

Eleonora. Come la carità?

Rosaura. Sentendo un uomo a piangere e sospirare, non ho potuto far a meno di non indagare il suo male per procurargli il rimedio. (vien battuto alla porta di strada)

Eleonora. È stato picchiato all’uscio di strada.

Rosaura. Guardate chi è.

Eleonora. Potete guardare anche voi. [p. 82 modifica]

Rosaura. Io non mi affaccio alle finestre. La modesria non me lo permette.

Eleonora. Senza tanti riguardi guarderò io.

Rosaura. Povero giovane! Star così riserrato! Patirà.

Eleonora. Sapete chi è?

Rosaura. Chi mai?

Eleonora. Il signor Florindo.

Rosaura. Gli avete aperto?

Eleonora. Mi credereste ben pazza. Io non apro a nessuno, quando non vi è nostro padre.

Rosaura. L’avete mandato via?

Eleonora. Non gli ho detto cosa alcuna.

Rosaura. Domanderà nostro padre. Facciamolo entrare.

Eleonora. Nostro padre non C’è.

Rosaura. Lo aspetterà.

Eleonora. E intanto dovrebbe star qui con noi.

Rosaura. Oh! facciamo una cosa da giovani savie e prudenti, ritiriamoci nelle nostre camere, e lasciamo che il signor Florindo possa parlare con suo fratello.

Eleonora. Questo sarà il minor male, andiamo. (parte)

Rosaura. La compagnia di mia sorella, disturba i miei disegni. Tornerò a miglior tempo. (parte)

SCENA V.

Florindo, poi Rosaura.

Florindo. Come! La signora Rosaura mi apre la porta, mi fa salire, e poi fugge e non vuol meco parlare? Che vuol dir questo? Avrà forse soggezione della sorella, avrà paura del padre, o vorrà farmi un poco penare per vendermi caro il di lei amore. Ora che ho perduti cinquanta scudi al giuoco, ho bisogno di divertirmi. Mi son pur pazzo io a perdere il mio tempo dietro a questa ragazza scipita! Quant’era meglio che io concludessi con Fiammetta, la quale senz’altri complimenti era disposta a fare a mio modo! Basta, se la signora Rosaura [p. 83 modifica] mi fa niente penare, torno da Fiammetta a dirittura. È vero che ella sarà disgustata per l’anello e per gli smanigli; ma questi che sono ancora più belli, e che pesano più, aggiusteranno ogni cosa. Ecco quanto mi è restato delli trecento scudi. Del resto non ho più un soldo. Ma ecco la signora Rosaura.

Rosaura. Caro il mio Florindo, tanto siete stato a venirmi a vedere?

Florindo. Son qui, la mia cara sposa; son qui per voi.

Rosaura. Ma, giusto cielo! quando si concluderanno le nostre nozze?

Florindo. Anche adesso, se voi volete.

Rosaura. Vostro padre sarà egli contento?

Florindo. Nè il vostro, nè il mio si contenteranno mai. Non vi basta l’assenso di mia madre?

Rosaura. Non so che dire. Converrà fare che basti.

Florindo. Se volete venire, io vi condurrò da lei,

Rosaura. Venire io sola con voi solo?

Florindo. Siete mia sposa.

Rosaura. Ancor tale non sono.

Florindo. Se tardiamo sin a domani, dubito non la sarete più.

Rosaura. Oimè! Dite davvero?

Florindo. Se i nostri genitori lo vengono a sapere, è spedita.

Rosaura. Dunque che abbiamo a fare?

Florindo. Spicciarsi questa sera.

Rosaura. Ma come?

Florindo. Venite con me.

Rosaura. Oh! la modestia non lo permette.

Florindo. Restate dunque con la signora Modestia, ed io me ne vado.

Rosaura. Fermate. Oimè! E avrete cuor di lasciarmi?

Florindo. E voi avete cuore di non seguirmi?

Rosaura. Dove?

Florindo. Da mia madre.

Rosaura. Da vostra madre? Dalla mia suocera?

Florindo. Sì.

Rosaura. Eh! Si potrebbe anche fare. [p. 84 modifica]

Florindo. Via, risolvetevi.

Rosaura. Per non dare osservazione, mi coprirò col zendale.

Florindo. Benissimo. Andiamo.

Rosaura. In tutte le cose vi vuol prudenza.

Florindo. Sì, andiamo, che sarete la mia cara sposa.

Rosaura. (Questo bel nome mi fa venire i sudori freddi). (da sè)

Florindo. Rosaura viene e la signora Modestia se ne resta in casa senza di lei. (parte)

SCENA VI.

Strada con la casa del Dottore Geronio.

Geronio con lanterna, ed Ottavio.

Geronio. Signor Ottavio, voi mi dite una gran cosa.

Ottavio. Così è, signor Dottore. Il signor Florindo e la signora Rosaura passano d’accordo fra di loro. Si vogliono sposare, e per quel che ho inteso dire da quel ragazzo senza giudizio, forse, forse questa sera faranno il pasticcio.

Geronio. Vi ringrazio dell’avviso. Vado subito in casa e aprirò gli occhi per invigilare.

Ottavio. Osservate che si apre la vostra porta di strada.

Geronio. Dite davvero?

Ottavio. Escono due persone. Ecco Florindo con Rosaura ammantata.

SCENA VII.

Florindo e Rosaura ammantata di casa del Dottore, e detti.

Geronio. Ah disgraziata!

Florindo. (Siamo scoperti). (si stacca da Rosaura)

Rosaura. (Oimè! Mio padre!).

Geronio. Ti ho pur scoperta, ipocrita scellerata.

Florindo. Maledetto maestro. Meglio è che mi ritiri. (parte)

Ottavio. (Col bastone getta di mano la lanterna al Dottore.) [p. 85 modifica]

Geronio. Oimè! Chi mi ha spento il lume? (si raggira per la scena)

Ottavio. (Venite con me e non temete). (piano a Rosaura)

Rosaura. (Chi siete voi?) (piano ad Ottavio)

Ottavio. (Sono Ottavio, che vi condurrà da Florindo). (piano a Rosaura)

Rosaura. (Tutto si faccia, fuor che ritornar da mio padre).

Ottavio. (Conduce via Rosaura.)

Geronio. Signor Ottavio! Dove sono? Non sento più alcuno. Tutti sono iti via? Che cosa mai ciò vuol dire? Che cosa ho da credere? Che cosa ho da pensare? Rosaura sarà ella tornata in casa, o sarà fuggita con quell’indegno? Anderò prima a vedere in casa, e se non vi è, la cercherò, la farò ricercare, la troverò, la castigherò. Povero padre, povero onore, povera la mia famiglia! Maledettissima ipocrisia! (cerca la casa ed entra)

SCENA VIII.

Camera in casa di Pancrazio.

Fiammetta.

In questa casa non si può più vivere. La padrona è cambiata. Il padrone va sulle furie, ed io quanto prima m’aspetto a ridosso un qualche grosso malanno. (piange)

SCENA IX.

Florindo e detta.

Florindo. Fiammetta, che avete che piangete?

Fiammetta. Piango per causa vostra.

Florindo. Per causa mia? Cara la mia Fiammetta! Se vi amo tanto! Perchè piangere, perchè dolervi?

Fiammetta. I miei smanigli mi fanno piangere.

Florindo. Non vi ho detto che ve ne darò di più belli? Eccoli. Che ne dite? Vi piacciono? Sono più pesanti? Son fatti alla moda?

Fiammetta. Belli, belli. Ora vedo che mi volete bene. [p. 86 modifica]

Florindo. Così ne voleste voi a me, quanto io ne voglio a voi.

Fiammetta. Così voi diceste davvero, come io non burlo.

Florindo. Se dico da vero, ve l’autentichi questo mio tenero abbraccio.

Fiammetta. Che volete che io faccia d’un abbraccio?

Florindo. Non ve ne contentate?

Fiammetta. Signor no.

Florindo. Volete qualche cosa di più?

Fiammetta. Signor sì.

Florindo. E che cosa comandate, mia cara?

Fiammetta. Che cosa mi avete detto oggi dopo pranzo?

Florindo. Non mi ricordo.

Fiammetta. Puh! Che memoria! Mi avete detto che m’avreste sposata.

Florindo. Ah! sì, gli è vero.

Fiammetta. Ed ora, che cosa dite?

Florindo. Che volentieri vi sposerò.

Fiammetta. Ma quando mi sposerete?

Florindo. Anche adesso, se volete.

Fiammetta. Adesso, qui, non mi pare cosa che possa farsi.

Florindo. Si può far benissimo. Date la mano a me, ed io do la mano a voi. Voi promettete a me, io prometto a voi. Il matrimonio è fatto.

Fiammetta. E poi si confermerà solennemente?

Florindo. Sì, solennemente. Ecco la mano.

Fiammetta. Ecco la mano.

SCENA X.

Beatrice che osserva, e detti.

Florindo. Prometto esser sposo.

Fiammetta. Prometto essere...

Beatrice. Che cosa prometti? Che cosa prometti? Disgraziata che sei! E tu vuoi far questo bell’onore alla casa? Vuoi sposare una cameriera? [p. 87 modifica]

Florindo. Signora sì, e per questo?

Beatrice. Levati tosto dagli occhi miei, parti subito di questa casa. (a Fiammetta)

Fiammetta. Signora padrona, abbiate carità di una povera sventurata.

Beatrice. Non meriti carità. Via di questa casa, e quanto prima anderai esiliata dalla città.

Fiammetta. Pazienza, anderò via, anderò in rovina, e voi, signora, sarete stata la causa del mio precipizio. Signora padrona, lo dico colle lacrime agli occhi, il cielo vi castigherà.

SCENA XI.

Beatrice e Florindo.

Beatrice. (Petulante! Se non parti...) Caro il mio Florindo, non credo mai che tu facessi davvero.

Florindo. Lasciatemi stare.

Beatrice. Che hai? Sei disgustato?

Florindo. Fiammetta non ha da andare fuori di casa.

Beatrice. Anzi voglio che ci vada ora.

Florindo. Non ci anderà, l’intendete? Non ci anderà.

Beatrice. Così parli a tua madre?

Florindo. Oh di grazia? che mi fate paura.

Beatrice. Briccone! Sai che ti voglio bene e per questo parli così.

Florindo. O bene, o male che mi vogliate, non me n’importa un fico. (parte)

SCENA XII.

Beatrice, poi Pancrazio.

Beatrice. Oimè! Così mi tratta mio figlio? Mi perde il rispetto? Ah! causa di tutto questo è quell’indegna di Fiammetta. Ha ingannato il mio povero figlio, lo ha stregato assolutamente. [p. 88 modifica]

Pancrazio. Che cosa ha Fiammetta, che piange e dice che voi l’avete licenziata di casa?

Beatrice. Indegna! Mi ha rubato.

Pancrazio. Avete fatto bene a mandarla via; e che cosa ha Florindo, che batte i piedi, si strappa i capelli e gli ho sentito anco dir fra’ denti qualche paroletta poco buona?

Beatrice. Credo che gli dolgano i denti.

Pancrazio. Che gli dolgano i denti? E io credo che gli dolga la testa, e che per fargliela guarire mi converrà adoprare il bastone.

Beatrice. Perchè? Che cosa vi ha fatto, poverino!

Pancrazio. Sentite. In questo punto m’è stato detto che Florindo ha perso cinquanta scudi in una bisca, e che ha comprato un paio di smanigli d’oro. Se queste cose son vere, è stato lui certissimo che ha rubato i trecento scudi.

Beatrice. Male lingue, marito mio, male lingue. Mio figlio oggi non è uscito di casa. È stato tutto il giorno e tutta la sera a studiare nella mia camera; per questo credo che gli dolgano i denti e il capo.

Pancrazio. Basta, verremo in chiaro della verità. Dov’è il maestro, che non si vede?

Beatrice. Studia e fa studiare Florindo. Lelio è il briccone; egli ha rubati i trecento scudi.

Pancrazio. Per ora non posso dir niente. Ma mi sono state dette certe cose di Florindo che, se le son vere, vogliamo ridere.

Beatrice. Florindo è il più buon figliuolo del mondo.

Pancrazio. S’egli è buono, sarà ben per lui. Se Lelio è il cattivo, ne patirà la cena. Ho parlato con un capitano di nave che è alla vela. Subito che sarò venuto in chiaro chi di due è delinquente, subito lo fo imbarcare, e lo mando via.

Beatrice. Florindo non vi anderà certamente.

Pancrazio. Perchè non v’anderà?

Beatrice. Perchè Florindo è buono.

Pancrazio. Prego il cielo che sia la verità. [p. 89 modifica]

SCENA XIII.

Trastullo e detti.

Trastullo. Ah signor padrone! ah signora padrona! Presto, presto, non perdiam tempo.

Beatrice. Che cosa c’è?

Trastullo. Il signor Florindo...

Pancrazio. Che cosa?

Beatrice. Ch’è stato?

Trastullo. Ha condotto via Fiammetta.

Pancrazio. Ah briccone! È questo il dolor de’ denti?

Beatrice. Non sarà vero nulla.

Trastullo. E non s’è contentato di condur via Fiammetta.

Beatrice. Via, presto.

Pancrazio. Che cosa ha fatto?

Trastullo. Ha portato via lo scrigno delle gioje della padrona.

Beatrice. Oh povera me! Sono assassinata.

Pancrazio. Vostro danno. Presto, Trastullo, va, fallo arrestare.

Trastullo. (Parte.)

Beatrice. Ah! mio figlio anderà prigione! Oimè! non posso più...

Pancrazio. Vi sta il dovere. Voi siete causa di tutto, voi l’avete condotto al precipizio, l’avete fatto un ladro, un briccone. (parte)

Beatrice. Dunque la mia tenerezza per quell’indegno sarà stata inutile? Sarà colpevole? Avrò dunque per sua cagione perdute le gioje, perduta la pace, perduta quasi la vita? Ah figlio ingrato! Ah figlio sconoscente e crudele!

SCENA XIV.

Luogo remoto. Notte con luna.

Ottavio e Rosaura.

Rosaura. Ma dov’è il signor Florindo? Ancor non l’abbiamo trovato.

Ottavio. Vi preme tanto ritrovare il signor Florindo?

Rosaura. Se mi preme? giudicatelo voi. [p. 90 modifica]

Ottavio. Ma da che nasce la vostra premura? Dall’amore?

Rosaura. Dall’amore, dal pericolo in cui sono, dalla speranza di riparare col matrimonio le perdite del mio decoro.

Ottavio. Per riparare al vostro decoro vi sarebbe qualche altro rimedio, senza ritrovare il signor Florindo.

Rosaura. E quale?

Ottavio. Un altro matrimonio.

Rosaura. Con chi?

Ottavio. Con un vostro servo.

Rosaura. Con voi?

Ottavio. Sì, carina, con me.

Rosaura. Per amor del cielo, ritroviamo il signor Florindo.

Ottavio. Mi sprezzate? non mi volete? È vero, sono un poco avanzato nell’età, non son ricco, ma son un uomo dabbene, e questo vi dovrebbe bastare.

Rosaura. Eh! Signor Ottavio, ci conosciamo. Date ad intendere di essere un uomo dabbene ai creduli, non a me che ne so quanto voi.

Ottavio. Dunque se ne sapete quanto me, il nostro sarà un ottimo matrimonio.

Rosaura. Morir piuttosto che divenir vostra moglie.

Ottavio. Vi placherete.

SCENA XV.

Florindo e Fiammetta per mano, e detti.

Fiammetta. Ma dove andiamo? (a Florindo)

Florindo. Ci fermeremo in una locanda, e domani partiremo dalla città.

Rosaura. (Stelle, questo è Florindo!) (da sè)

Ottavio. (Oh diavolo! Florindo con un’altra donna? Al lume di luna non la conosco). (da sè)

Fiammetta. Tremo tutta.

Florindo. Anima mia, non temete.

Rosaura. Traditore, v’ho pur trovato. (prende per mano Florindo) [p. 91 modifica]

Florindo. Oimè!

Fiammetta. Chi è questa?

Florindo. Non lo so. Chi siete?

Rosaura. Perfido, son Rosaura da te rapita.

Fiammetta. Oh meschina me! Che sento?

Ottavio. (Tra due litiganti, può essere che il terzo goda), (da sè)

SCENA XVI.

Pancrazio con uomini armati e lumi, e detti.

Pancrazio. Fermati, disgraziato. Con due donne? Chi è quest’altra? Signora Rosaura? Come! La modestina! La bacchettona! E tu, perversa, scappar via con mio figlio? Dove sono le gioje? Ah! ladro assassino, scelleratissimo figlio, anco i trecento scudi tu mi avrai rubato. E voi, signor Ottavio, che cosa fate qui?

Ottavio. Andava in traccia di quel povero sciagurato, lo cercava per rincondurvelo a casa.

Florindo. Non gli credete...

Pancrazio. Zitto là. Amici, (agli uomini armati) mi raccomando a voi; bisogna condur questa gente a casa; e giacchè c’è la figlia di Geronio, e che siamo più vicini alla casa sua che alla mia, conduciamoli là. Ancora voi, signore, ancora voi dovete venire.

Ottavio. Io? Come e’entro?

Pancrazio. Lo vedrete se c’entrerete. Se non voglion venir colle buone, strascinateli a forza in casa del signor Geronio; andate, che io vi seguito. (agli uomini)

Ottavio. Sono innocente, sono innocente. (partono tutti con gli uomini)

SCENA XVII.

Camera in casa del Dottore, con lumi.

Geronio e Lelio.

Geronio. Ah! Signor Lelio, sono inconsolabile!

Lelio. Mio fratello ha fatta una simile iniquità?

Geronio. L’ha fatta. Mi ha assassinato. [p. 92 modifica]

Lelio. E la signora Rosaura si è lasciata sedurre?

Geronio. Non mi sarei mai creduta una cosa simile.

Lelio. Era tanto savia e modesta!

Geronio. La credeva innocente come una colomba.

SCENA XVIII.

Pancrazio di dentro, e detti.

Pancrazio. Son qua, signor Geronio, gran novità!

Geronio. Sapete nulla della mia figliuola?

Pancrazio. Adesso saprete il tutto. Lasciate prima che parli a mio figlio.

Geronio. Ditemi che cos’è di mia figlia.

Pancrazio. Abbiate un poco di pazienza. Consolati, figlio mio, tu sei innocente. Mi dispiace del travaglio e della pena che hai avuto: ma l’amore di tuo padre ti saprà ricompensare con altrettanta consolazione.

Lelio. Caro signor padre, il vostro amore è una ricchissima ricompensa di tutto quello che ho pazientemente sofferto.

Pancrazio. Poveretto! Quanto mi dispiace...

Geronio. Per carità, mia figlia si è ritrovata?

Pancrazio. S’è ritrovata.

Geronio. Dove? Presto, ove si ritrova?

Pancrazio. E di là in sala.

Geronio. Indegna! Saprò punirla. (in alto di partire)

Pancrazio. Fermatevi. Io l’ho trovata; io l’ho fatta arrestare; il mio figlio è stato il seduttore e della vostra offesa a me aspetta a trovare il risarcimento.

Geronio. Ah! signor Pancrazio, voi mi consolate. Fate pure tutto quello che credete ben fatto. Mi rimetto in tutto e per tutto al vostro giudizio, e prometto e giuro non aprir bocca in qualunque cosa sarà ordinata dalla vostra prudenza.

Pancrazio. E tu, Lelio, acconsentirai a tutto quello che farà tuo padre anco a riguardo tuo? [p. 93 modifica]

Lelio. Sarei temerario, se non approvassi tutto ciò che di me dispone mio padre.

Pancrazio. O bene: così mi piace. Eh! Amici, venite avanti. (verso la scena)

Geronio. Sono sbirri?

Pancrazio. Non sono sbirri. Son galantuomini, che m’hanno aiutato per servizio e per carità. Non ho voluto domandare il braccio della giustizia, perchè trattandosi di figliuoli, anco il padre, se ha giudizio e prudenza, può essere giudice e castigarli.

SCENA XIX.

Rosaura, Florindo e Fiammetta con uomini armati, e detti, e Ottavio.

Geronio. Ah disgraziata, sei qui, eh? (verso Rosaura)

Pancrazio. Zitto, fermatevi e ricordatevi del vostro impegno.

Geronio. Sì, fate voi.

Pancrazio. Signora Rosaura, il suo signor padre si è spogliato della autorità paterna, e ne ha investito me; onde adesso io sono il suo padre e sono nell’istesso tempo suo giudice, e a me tocca a disporre della sua persona, e castigarla di quel fallo che disonora la sua famiglia. Giudice e padre sono anco di te, indegnissimo figlio, reo convinto di più delitti, reo d’una vita pessima, scandalosa, reo del furto de’ trecento scudi, reo d’aver condotta via della casa paterna una ragazza onesta, e reo infine d’aver sedotto una povera serva. Signori miei, in che stato sono le vostre cose? (a Florindo e a Rosaura)

Florindo. Io non v’intendo.

Rosaura. Io non vi capisco.

Pancrazio. Poveri innocentini! Parlerò più chiaro. Che impegno corre tra voi due? Siete voi promessi? Siete sposati? Siete maritati? Che cosa siete?

Florindo. Ho promesso di sposarla.

Fiammetta. Ha promesso anche a me.

Pancrazio. Taci tu, che farai bene; e consolati che devi fare [p. 94 modifica] con un uomo giusto e che troverà la maniera di rimediare anco al tuo danno. Dunque tra voi è già corsa la promessa. (a Rosaura)

Rosaura. Signor sì.

Pancrazio. Siete promessi; siete fuggiti di casa; l’onore è offeso; bisogna dunque per ripararlo che vi sposiate. Signor Geronio, approvate voi la promessa di vostra figlia? L’autenticate colla vostra?

Geronio. Sì, fate voi.

Pancrazio. Ed io prometto per la parte di Florindo, e tra di noi faremo con più comodo la scrittura.

Rosaura. (Questo castigo non mi dispiace). (da sè)

Pancrazio. Signori, siete solennemente promessi e sarete un giorno marito e moglie; ma se si effettuasse adesso questo matrimonio, verreste a conseguire non la pena, ma il premio delle vostre colpe, e dall’unione di due persone senza cervello non si potrebbero aspettare che cattivi frutti, corrispondenti alla natura dell’albero. Quattro anni di tempo dovrete stare a concludere le vostre nozze, e in questo spazio Florindo anderà sulla nave ch’è alla vela, dove avea destinato di mandare il cattivo figliuolo; la signora Rosaura tornerà in campagna, dov’è stata per tanto tempo, serrata in una camera e ben custodita.

Rosaura. Quattro anni?

Pancrazio. Signora sì, quattr’anni.

Florindo. Questo è un castigo troppo crudele.

Pancrazio. Se non ti piace la mia sentenza, proverai quella di un giudice più severo.

Rosaura. Ma io con mia zia non voglio più ritornare.

Pancrazio. Signor Geronio, sono in luogo di padre?

Geronio. Sì, con tutta l’autorità.

Pancrazio. Animo dunque, (agli uomini) Mettetela in una sedia, conducetela dalla sua zia, e fate che si eseguisca.

Rosaura. Pazienza! Anderò, giacchè il cielo così destina.

Ottavio. Andate, figliuola mia, di buon animo, soffrite con pazienza questa mortificazione. Verrò io qualche volta a ritrovarvi. [p. 95 modifica]

Rosaura. Statemi lontano per sempre, e volesse il cielo che non v’avessi mai conosciuto.

Pancrazio. Come, come? È stato forse il maestro che vi ha sedotta?

Rosaura. Io stava con mia zia in buona pace, quieta e contenta, quando è venuto costui con dolci parole ed affettate maniere a turbarmi lo spirito ed invogliarmi del mondo e farmi odiare la solitudine. Per sua suggestione ho tormentato mio padre, acciocchè mi ritornasse alla casa paterna. Le sue lezioni mi hanno invaghita del matrimonio: per sua cagione ho conosciuto il signor Florindo; da lui ritrovata di notte, sono stata in procinto di precipitarmi per sempre. Pazienza! Anderò a chiudermi nella mia stanza; ma non è giusto che vada impunito il perfido seduttore, l’indegno e scellerato impostore.

Ottavio. Pazienza! Sono calunniato.

Florindo. No, non è di ragione che, se noi proviamo il castigo, quel perfido canti il trionfo. Egli è quello che invece di darmi delle buone lezioni, m’insegnava scrivere le lettere amorose. Egli mi ha condotto a giuocare; egli mi ha introdotto in casa di queste buone ragazze; mi ha egli assistito al furto de’ trecento scudi, ed è opera sua il cambio della cenere colle monete.

Ottavio. Pazienza! Sono calunniato.

Fiammetta. Io pure, povera sventurata, sono in queste disgrazie per sua cagione. Egli mi ha consigliata a sposare il signor Florindo, e per prezzo della sua mediazione mi ha cavati dal braccio gli smanigli d’oro.

Ottavio. Pazienza!...

Pancrazio. Pazienza gli stivali. Uomo iniquo, indegno, scellerato. Con voi non posso esser giudice, perchè non vi son padre. Anderete al vostro foro, e il vostro giudice vi castigherà.

SCENA XX.

Trastullo e detti.

Trastullo. Signor padrone, una parola.

Pancrazio. Che c’è? [p. 96 modifica]

Geronio. Che cosa v’è di nuovo?

Trastullo. Sono qua gli sbirri, se ve ne è bisogno.

Geronio. Dove sono?

Trastullo. Sono in istrada.

Geronio. Venite con me. (a Trastullo) Ora torno. (a Pancrazio, e parte con Trastullo)

Ottavio. (Mi par che il tempo si vada oscurando). (da sè)

Pancrazio. Si può dare un uomo più indegno, più scellerato di voi? Vi confido due figliuoli e voi me li assassinate. Il povero Lelio sempre strapazzato e calunniato; Florindo sedotto e precipitato; dove avete la coscienza?

SCENA XXI.

Geronio e detti.

Geronio. Signor Ottavio, mi favorisca d’andarsene di questa casa.

Ottavio. Ma, signore, così mi discacciate? Sono un galantuomo.

Geronio. Siete una birba, siete un briccone. Presto, andate fuori di questa casa.

Ottavio. Vi dico, signore, che parliate bene.

Geronio. Signor Pancrazio, fatemi il piacere; fatelo cacciar via per forza dalla vostra gente.

Pancrazio. Sibbene, scacciatelo via di qua; meriterebbe, invece di scender le scale, di esser gettato dalle finestre.

Ottavio. No, no, non v’incomodate. Anderò via, anderò via. (Mi sento la galera alle spalle, solito fine di chi vive come ho vissuto io). (da sè, parte)

Pancrazio. Mi dispiace che quell’iniquo resti senza castigo.

SCENA XXII.

Trastullo e detti.

Trastullo. Il colpo è fatto: il signor maestro è in trappola. Lo conducono in carcere.

Geronio. Meritamente. [p. 97 modifica]

Pancrazio. Guardate che sorta d’uomo aveva in casa! Poveri figli! Povero padre! Ma terminiamo la nostra operazione. Animo, signora Rosaura, se ne vada a buon viaggio.

Rosaura. Signor padre, che dite? (a Geronio)

Geronio. Va, non ti ascolto.

Rosaura. E avrete cuore di vedermi partire senza baciarvi la mano?

Geronio. Non ne sei degna.

Rosaura. Pazienza! Vedessi almeno mia sorella prima di partire.

Geronio. Signor Pancrazio, vi contentate che le diamo questa consolazione?

Pancrazio. Perchè no? Questo se le può concedere.

Geronio. Eleonora.

SCENA XXIII.

Eleonora e detti.

Eleonora. Eccomi qui.

Geronio. Tua sorella desidera salutarti.

Rosaura. Sorella carissima....

Eleonora. Eh! sorella carissima, non è più tempo di collo torto.

Rosaura. Abbiate giudizio.

Eleonora. Abbiatene voi, che ne avete più bisogno di me.

Rosaura. Io torno nel mio ritiro.

Eleonora. Ed io resto nella mia casa.

Rosaura. Vado a viver con maggior cautela.

Eleonora. Ed io continuerò a viver come faceva.

Rosaura. In casa di mia zia, chi ha giudizio, vive assai bene.

Eleonora. Chi ha giudizio, vive bene anche in casa propria.

Rosaura. Ma non bisogna praticar nessuno.

Eleonora. Le pratiche fanno male per tutto.

Rosaura. Sorella, addio.

Eleonora. Addio, Rosaura, addio.

Rosaura. Signor Florindo... Posso salutare il mio sposo? (a Pancrazio)

Pancrazio. Oh! signora sì. Lo saluti pure. [p. 98 modifica]

Rosaura. Addio, caro.

Florindo. Poverina! Addio.

Rosaura. Ah! che sposalizio infelice! (parte con uomini armati)

Pancrazio. Sbrigatevi, voi, che la nave v’aspetta. (a Florindo)

Florindo. Caro signor padre...

Pancrazio. Non v’è nè padre, nè madre. Andate a bordo, che vi manderò il vostro bisogno.

Florindo. Pazienza! Maledetti vizi. Maledetto il maestro, che me li ha insegnati. Ah mia madre, che me li ha comportati! Ella è cagione della mia rovina.

SCENA ULTIMA.

Beatrice e detti.

Beatrice. E qui mio figlio? E qui!

Pancrazio. Signora sì: arrivate giusto in tempo di sentirlo dir bene di voi.

Beatrice. Sei pentito? Mi vuoi chieder perdono?

Florindo. Che perdono? Di che vi ho da chieder perdono? Di quello che ho fatto per vostra cagione? Ora conosco il bene che mi avete voluto. Ora comprendo che sono precipitato per causa vostra: vado sopra una nave, non mi vedrete mai più. (via con gli uomini armati)

Beatrice. Ah! sì, son rea, lo confesso; ma siccome il mio delitto è provenuto da amore, non credeva avesse a rimproverarmene il figlio stesso che ho troppo amato.

Pancrazio. Ma, la va così. I figli medesimi sono i primi a rimproverare il padre e la madre, quando sono stati male educati.

Beatrice. Se così mi tratta il mio figlio naturale, qual trattamento aspettar mi posso da Lelio, che mi è figliastro?

Lelio. Lelio vi dice che, se avrete della discretezza per lui, egli avrà della stima e del rispetto per voi.

Beatrice. E mio consorte che dice?

Pancrazio. Il consorte dice che, se avrete giudizio, sarà meglio per voi. [p. 99 modifica]

Beatrice. Ed io dico che, se in casa non vi è più mio figlio, non ci voglio più venir nemmen io.

Pancrazio. A buon viaggio.

Beatrice. La mia dote?

Pancrazio. La sarà pronta.

Beatrice. Andrò a viver co’ miei parenti.

Pancrazio. Così starete meglio voi e starò meglio ancor io.

Beatrice. Basta, ne discorreremo.

Pancrazio. Benissimo! Quando volete. Intanto per finire tutto con buona grazia, signor Geronio, potremmo fare un’altra cosa.

Geronio. Dite pure, voi siete padron di tutto.

Pancrazio. Non avete detto che dareste una vostra figlia a mio figliuolo?

Geronio. Per me son contentissimo.

Pancrazio. Lelio che cosa dice?

Lelio. La stimerò mia fortuna.

Pancrazio. E la signora Eleonora?

Eleonora. Non posso desiderare maggior felicità.

Beatrice. Ora in casa non ci starei un momento. Vado da mio fratello, e mandatemi la mia dote. (parte)

Pancrazio. Sarete servita. Non poteva desiderar di meglio.

Fiammetta. Ed io, meschina, che farò.

Pancrazio. È giusto che ancora tu resti consolata. Trovati marito ed io ti prometto la dote. Ecco tutto aggiustato. La bacchettona è condannata a far davvero quello che faceva per finzione. Florindo è andato a purgare in mare i falli che ha fatto in terra. L’innocenza di Lelio è ricompensata. La bontà della signora Eleonora è premiata. Fiammetta è risarcita de’ suoi danni. Geronio è contento. Io son consolato, e mia moglie si è castigata da sè medesima. Spero che il mondo, sciente di questo fatto, dirà che io non ho mancato al mio debito.

Fine della Commedia.

  1. Zatta: e non.