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Edizione: Scipio Slataper, Il mio Carso. La Voce, Roma, 1920
Ritratto II



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I.

[p. 9 modifica] Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C’era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.

Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia nella grande foresta di roveri. D’inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m’infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.

Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi sono venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; ― ma presto devo tornare in patria perchè qui sto molto male.

Vorrei ingannarvi ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta [p. 10 modifica]timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v’ascolto disinteressato e contento e non m’accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell’angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa libertà; ai veri amici miei che m’amano e mi riconoscono in una stretta di mano, in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni.

Penso alle mie lontane origini sconosciute, ai miei avi aranti l’interminabile campo con lo spaccaterra tirato da quattro cavalloni pezzati, o curvi nel grembialone di cuoio davanti alle caldaie del vetro fuso, al mio avolo intraprendente che cala a Trieste all’epoca del portofranco; alla grande casa verdognola dove sono nato, dove vive, indurita dal dolore, la nostra nonna.

Era bello vederla seduta nella larga terrazza spaziante su enormi spalti le montagne e il mare, lei secca e resistente accanto all’altra mia nonna, la veciota venesiana, rubiconda e spensierata che aveva quasi ottant’anni e le si vedeva ancora il forte palpito azzurrino del polso sollevarsi e cadere nella pelle morbida come una foglia. Questa mi parlava dell’assedio di Venezia, del sacco di patate in mezzo la cantina, della bomba che fracassò un pezzo di casa. E aveva un fazzolettino bianco sui pochi capelli fini, ed era allegra. Quando veniva a mangiare da noi, babbo le diceva sempre: ― Beati i oci che i la vedi.

Ma allora essa non m’interessava. Io filavo in campagna a giocare con gli alberi.

[p. 11 modifica] Il nostro giardino era pieno d’alberi. C’era un ippocastano rosso con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi non potendolo più levare ci lasciavo la scarpa. Dall’ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di sole e di passeri. C’era una specie di abete, vecchissimo, su cui s’arrampicava una glicinia grossa come un serpente boa, rugosa, scannellata, torta, che serviva magnificamente per le salite precipitose quando si giocava a ‘sconderse. Io mi nascondevo spesso su quel vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in primavera, mentre spiavo di lassù il passo cauto dello stanatore, mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi come un grappolo d’uva. Il fiore del glicine ha un sapore dolciastro-amarognolo, strano, di foglie di pesco e un poco come d’etere.

C’erano anche molti alberi fruttiferi, àmoli, ranglò, ficaie, specialmente. Appena i fiori perdevano i petali e i picciòli ingrossavano, io ero lassù a gustarli, non ancora acerbi. Acerbi sono buoni! Il guscio del nocciolo è ancora tenero, come latte rappreso, e dentro c’è un po’ d’acqua limpidissima e ciucciosa. Poi, dopo qualche giorno, quando la mamma è uscita di nuovo per andare dalla zia, essa diventa una gomma gelatinosa dolce a sorbirsi con la punta della lingua. Ma la carne com’è buona, così aspra! Prima il dente ha paura di toccarla, e la strizza guardingo, mentre la lingua riccamente la inumidisce e assapora la linfa delle piccole punture. Poi la si addenta. Le gengive bruciano, i denti si stringono l’uno addosso dell’altro, si fanno scabri e ruvidi come pietre, e tutta la bocca diventa una ricca acqua.

[p. 12 modifica] Ma quando viene l’estate, per arrivare i pochi frutti rimasti bisogna essere ghiri. Andare dove gli uccelli non hanno paura, perchè non sono abituati a trovarvi anche lassù. Alla biforcazione delle due frasche più alte mi tenevo agganciato con un piede e bilanciandomi con la destra distesa procedevo a modo di bruco con la sinistra sulla fraschetta svettante, trattenendo il respiro: finchè arrivavo al punto dove essa si piegava e a poco a poco s’avvicinava fino alla mia bocca. Qualche volta dovevo lasciarla riscattar via perchè la nonna sgridava: ― Fioi, ve mazarè su quei alberi! ― Allora stavo zitto, rosso, e scivolavo giù fluendo.

E c’era anche, accosto al muro della strada, un tasso baccato che scortecciavo facilmente a larghi brani per vederlo più pulito e più rossiccio. Aveva, al terzo piano, due rami come un letto, e lì dormivo qualche dopopranzo; oppure contemplavo tronificante la mularia stradaiola che faceva a ruffa di sotto per agguantare le bacche rosse che buttavo giù da signore. (Io non le mangiavo, mi schifavano). Poi imbaldanzita cominciava a fiondar sassi, e io allora, saltato giù come un demonio, correvo al portone, ne strappavo la verghetta di ferro che serviva da chiavistello, e giù a rotta di collo per le strade, fino quasi al centro della città, con una maglietta e calzoncini a righette bianche e blu, lunghi riccioli biondi, urlando: ― daghe! daghe! ― E alla sera m’addormentavo disteso sul letto, mentre ancora mamma mi levava le calze piene di terriccio e ghiaiola. Cara e buona mamma mia.

[p. 13 modifica] La mularia! Fecero la guerra a terribili sassate in Sanza, un’antica fortezza triestina diroccata, accanto alla nostra campagna. Li sentimmo urlare, correre, massacrarsi. Erano italiani e negri. Vinsero gl’italiani. E uno d’essi scendeva col collo rotto e cantava cadenzatamente: ― Ma intanto mi go vinto! ma intanto mi go vinto!

Io vidi tutta la guerra abissina su una grande carta geografica che babbo aveva inchiodato nella nostra camera, e ci spiegava, tenendo in mano il Piccolo, dove gl’italiani procedevano. Di sotto c’erano, a cavallo, con piume in testa e neri in viso, Menelik, ras Alula: e io gli bucavo il naso con lo spillo delle bandierine. Ero molto contento che gl’italiani vincessero. Credo d’aver pregato per loro.

Allora credevo in Dio e pregavo ogni sera: «Padre nostro che sei nei cieli», e poi stringevo gli occhi, stavo fermo fermo, pensando soltanto quella persona che desideravo Dio amasse. E questo era pregare. E pregavo per la mia bella Italia, che aveva una grande corazzata, la più forte del mondo, che si chiamava «Duilio». La nostra patria era di là, oltre il mare. Invece qui mamma chiudeva le persiane alla vigilia della festa dell’imperatore, perchè noi non s’illuminava le finestre e si temeva qualche sassata.

Ma l’Italia vincerà e ci verrà a liberare. L’Italia è fortissima. Voi non sapete cos’era per me la parola «bersagliere».

[p. 14 modifica]La nostra casa era bella e patriarcale. L’atrio era come un grande tempio, arioso, intorno a cui giravan le scale con le balaustre bianche, incorniciate di legno lustro, giallobruno. D’inverno il sole entrando per i finestroni cercava di scaldare i cacti sgonfi di zio Daghelondai. Era la casa del nonno in cui abitavano i molti figliuoli del nonno, e i molti nipoti.

La domenica e le feste il nonno sedeva a capo della tavola parentale, laggiù in fondo. Era alto di torace con un viso largo e indulgente e una gran barba bianchissima. Guardava contento i suoi figliuoli e le loro donne. Quanti cari parenti erano seduti intorno alla tavola nella gran sala domenicale! Tutti erano seduti al loro posto, e quando altri venivano si aggiungeva un’asse alla tavola e si prendeva una più lunga tovaglia dall’armadio. Perchè i nostri parenti erano molti, e arrivavano da Zagabria, da Padova, dall’America e portavano baicoli e giocattoli.

C’era zio Boto, intorno a quella tavola, che faceva quadri e ci contava le avventure di Saturnino Farandola, e zia Tilde con due grandi occhi dolci, color mare, e Biancolina, cuginetta, che stava sempre con mio fratello e io cercavo rabbioso di sapere i loro segreti, e zio Daghelondai che ci diceva sempre con voce burbera: ― Turco alla predica! Daghelondai! ―, e io ridevo e mio fratello saltava spiritato pestando i piedi, e zio Guido, e zio Feliciano, e zia Mima, e Mario e Bruno, la nonna, zia Bice, papà, Toci, mamma. E zia Ciuta, prosperosa e matronale. Aveva uno sguardo benefico, e le cose diventavan facili e semplici com’ella ne parlava.

[p. 15 modifica]E quando tutti avevano già finito di mangiare e bevevano il caffè fumando i lunghi sigari virginia, la porta si apriva con grande sforzo e tu entravi nel tuo grembiulino candido con alle spalle i bei nastrini rosa, dormiglioso Pipi. Eri bello e sano, coi capelli biondi e le gambocce nude, la giovane carne ancora tiepida di sonno. I tuoi occhi strani, inquieti o estatici, guardavano contenti la bella tovaglia bianca che aspettava ancora te prima d’esser portata via, e i tanti piatti che papà aveva coperti con altri piatti a rovescio per conservarti calde le vivande.

E ti annodavano un tovagliolone odoroso di lavanda, ti mettevano davanti i lunghi, teneri risi nel grasso brodo di pollo; la coscia di pollo e l’ala per i tuoi denti aguzzi; l’ombolo liscio cosparso dalla salsa di capperi; le rosse ciliege carnose, a ciocche, con cui t’orecchinavi deliziato del loro fresco; il fettone di torta, la più grande fetta che il nonno tagliava apposta per te. E tu zitto, metodico, grave, sparecchiavi tutto senza domandare cos’era. Ma tutto ti piaceva, e tutto bastava appena per una corsa in giardino. Eri sano e forte; i tuoi compagni ti nominavano subito comandante, poichè li vincevi in corsa, in lotta e in tirar sassi. Eri buono, e tutti ti volevano bene.

Steno, Gigetto, Toci, Oidecani, Eugenio, Vincenzo, Scarpa, Pipi op là! in acqua, in acqua! Oggi si combatte per l’onore del club «Dagli!».

Schizza il mare a ondate quando il «Dagli!» si butta a testa giù dalle palafitte. Il panciuto col cappello di paglia stinta che prima d’adagiarsi nell’acqua bagna igienicamente l’ombilico e la fronte, scappa via impaurito dal nostro tuffo. Scappan via tutti i pacifici bagnanti dalla [p. 16 modifica]zattera, dalla corda, dal trampolino, perchè nessuno sa dove oggi il «Dagli!» ha deciso di domiciliarsi, nessuno sa che nuova invenzione porta oggi il «Dagli!» mentre si tuffa ridendo dalle palafitte.

Il mare schizza di gioia, e spuma. Chè il mare non ama il lento arranchìo asmatico dei vecchi, lo sbattacchìo affannoso degli inesperti. Ama il mare d’essere tagliato, battuto, disfatto da gambe muscolose e braccia bronzine. Ama la serena irrequietezza della gioventù, che lo penetra in tutti i sensi ridendolo, bevendolo, sprizzandolo dalla bocca in lunghi zampilli. Ama i freschi occhi spalancati in corsa tra le profondità e l’alighe.

Avanti delfinotti! Oggi si combatte per l’onore del «Dagli!». Perchè il «Dagli!» domenica scorsa, buttandosi giù a gnocco in fila ordinata dalle palafitte, spruzzò allegro le nude corpora dei conti e signori tedeschi che non lo lasciarono passare, seccati, l’angolo delle palafitte. Protestarono a terra, e il direttore minacciò d’impedire il bagno al «Dagli!». Oggi è giorno di vendetta.

Le ondate si gonfiano da Salvore per far più turbolenta la battaglia. I signori tedeschi sono in acqua e procedono ridendo ironici nei loro mustacchi. Ah, ah! ― uno ha la reticella sul labbro superiore per tener assettato il diritto mustacchio. Dagli, dagli!

― In semicerchio! Schizzo lento e stretto! Mirare gli occhi! Procedere in ordine, serrando. ― E rispondemmo al nostro capo: ― Dagli!

Codeste sono le schizzate dei tedeschi! Flosce e piatte come carnume di medusa. Ma queste del «Dagli!» van [p. 17 modifica]dritte e elastiche come colpi di fionda. Aspra salsedine nelle pupille bionde dei tedeschi!

― Attenti! Serrare! ― Chè il nemico smaniante si butta addosso ai nostri primi e li affonda. Dagli! dagli! dagli! Giù. Sento sul collo l’unghiata di rabbia del tedesco setoloso e l’acqua che si rompe sotto il mio corpo. Tocco fondo. Due gambe mi tengono fisso quaggiù. Il mare turbina. M’accuccio, agguanto una gamba, e giù te, porco! ― Viva il Dagli! Da’!

Giù. Su. Dagli, dagli!

― Al largo! ― Steno è sparito dopo aver gridato l’ordine. Noi sappiamo perchè. D’improvviso uno dopo l’altro i tedeschi rapidissimamente piombano in fondo, tirati da qualche polipo mostruoso. ― È Steno! Viva Steno! Dagli!

Ora li massacriamo. Metri d’acqua si rovesciano sulle bocche affannose. Gli occhi biondi non vedono più. Si voltano e fuggono. E ora comincia il colpo della ritirata. Steno l’ha inventato, perchè il «Dagli!» non può dar quartiere prima della sponda.

Freddo, calmo, metodico colpo di ritirata! I tedeschi fuggono, ma uno per uno li stiamo dietro le spalle, e scattando nell’acqua con i piedi ci rovesciamo giù a braccia larghe intorno al loro capo. L’acqua aguzza rompe nell’orecchie, negli occhi, nella bocca, nel naso. Il tedesco respira. E sciampf! nella bocca aperta. E sciampf! negli occhi brucianti. Nelle sorde orecchie. Sciampf! Sciampf!

Viva il «Dagli!».

Chi resisteva al «Dagli!», amici d’una volta? Chi era capace di stare sott’acqua come Toci, quando il [p. 18 modifica]barbuto Calligaricicich cercava di affogarlo con dieci, venti tocciade consecutive? ― Ed egli gli respirava in faccia: ― cih, cih, cich, ― e rispariva. Chi sapeva dar schizzata più tagliente di Vincenzo? Era come una fiatata di mostro marino la mezzaluna di mare che balzava su, sotto le sue mani a cuneo rovesciato. E Steno notava sott’acqua per un minuto, e Pipi era come un piccolo pescecane predace.

E se uno di noi cedeva nella lotta, per sette giorni doveva passare attraverso il fuoco di fila dei compagni. Perchè il «Dagli!» era una società con leggi severe, e nessuno s’arrischiava di disobbedire al nostro capo.

Ora Steno, il nostro capo, è morto. Era un professore che s’è ammazzato, nevrastenico.


E raccontavo belle storie ai piccoli cugini che m’ascoltavano accoccolati d’intorno, nell’ombrosa veranda sul mare. Il mare stava zitto, ascoltando. La casa vicino a lui, dove abitò Tartini, aveva chiuse tutte le persiane e dormiva, bianca nel sole, con gli zii e gli altri villeggianti. Silenziose erano le larghe camere matrimoniali sostenute da travoni squadrati.

Era l’ora del caldo e del riposo. La terra s’ampliava nella distesa del sole. Il cielo era chiuso e grave. Neanche una vela sul mare. Tacevano le vespe e i bombi. Un frutto tonfava giù dal ramo. Era il grande silenzio infocato, quando gli occhi dei colombi stanno chiusi sotto l’ala e il bue rumina accosciato corpulento sulla paglia fresca.

Ma solo i bimbi in quell’ora si buttano nei prati come un ciapo di storni autunnali e saccheggiano le ficaie, [p. 19 modifica]stroncando i rami aridi, perchè anche il padrone dorme, il signor Vatta dagli occhietti di gobbo. E poi si raccolgono, a tasche piene, nella veranda ombrosa e Scipio conta una bella, strana, lunga storia.

È una storia che continua ogni giorno e non finisce più. Nella piccola capanna del bosco è nato un eroe, forte come cento leoni e furbo come cento volpi. Le sue avventure fanno sgranare gli occhi di stupore, ridere di allegria chi ascolta. È un ragazzo bello, sereno, buono. È quello che tutti desiderano d’essere.

E dopo due tre ore zia Ciuta chiamava ch’era lettera per me, e mi portava contenta la lettera di mamma. Cara mamma mia. Tu allora preparavi, nel grande caldo d’agosto, le casse per il trasloco. Bisognava andar via dalla casa dov’erano nati i tuoi figli. Sì, mi ricordo che prima di partire avevo visto che rompevano i muri e i viali del giardino per i tubi dell’acqua, del gas; e lavoravano muratori, meccanici, falegnami, vetrai, tappezzieri, terrazzieri. Mi divertivo vederli lavorare. Ma noi s’andava via perchè il nonno era morto e venivano a stare altri parenti, più ricchi.

E io, tornato da Strugnano, fui molto contento di trovarmi in una campagna cento volte più grande, con infiniti frutti e viti, e molti compagni di gioco. Il giorno che arrivai arrivò pure, vestita d’una camicia rossa e tocco da fantino, la nipote del padrone di casa. Ucio la guardava, un po’ commosso, fra i viticci del capannuccio.

[p. 20 modifica]Bella è la vendemmia. Oltre i vignali vanno grida e risate; i cani sbalzano, accucciandosi sulle zampe davanti, da questo a quel gruppo di vendemmiatori, e i passeri frullano sbandati. Il padrone eccita: ― Dai, dai, dàghe, dàghe, forza, prr, prr, prr, dai, dai!

Le labbra e il mento sono appiccicose di mèle stillato, e le mani, la maglia, il manico della roncola, i pampani, le brente, i carri. Tutto è una gomma rossastra. E ci si lava pigiando a palme aperte gli scricchiolanti grappoli nella brenta.

Buona è l’uva, addentata a grani dal tralcio, mentre dagli occhi sgocciola il sudore e la palma della mano è stanca della roncola. Ma ancora questo filare, ancora questa vite, ancora questo grappolo! Qua con una brenta! Alloo!

E, tornati giù sbalzellando, il pane e il brodo sono buoni come mai. Si gode della bella tovaglia bianca sotto la lampada. Domani si ricomincia.

Piovigginava a stento. Sulla melma del piazzale sfilavano due strisce giallastre di luce. Entrai nella cantina.

- Bonasèra! ― Ah; bonasèra!

La cantina era bassa. Nel mezzo, su una botticella fumazzava una fiamma rossastra di petrolio. Il padron di casa sedeva vicino alla fiamma, con un bicchiere in mano. Nel volto era del color dei fondi violacei di botte.

Tutt’intorno gravavano grandi botti brune e tini panciuti. Su i muri, nei cantoni, tra l’inferriata del finestrino murato c’erano mille ragnateli stracciati e aggomitolati dalla polvere. Una gatta baia sotto le botti annusava [p. 21 modifica]indolente ma nervosa l’odor di pantigane che impregnava l’aria.

Uno degli uomini che si rimboccava su i calzoni a sforzo, perchè la dura coscia non voleva cedere, alzò gli occhi, guardandomi.

Vila era lassù, in piedi, sui tronchi squadrati che reggevano i tini. Era dritta e fresca, nella sua camicia rossa, e mi sorrise.

Io ero un timido bimbo. E lei mi disse piano: ― La salti su.

I bei grappoli pieni che avevamo colti ieri si pigiavano nel tino. Spilluccammo i grani più grossi, stufi d’uva. Mi dette un grano tondo, grosso come una noce, limpido.

Disse: ― La guardi che man che go! ― Piccole, ma di pelle callosa, tagliuzzata alla punta delle dita, nera di pentole, le unghie rosicchiate. Disse poi: ― Lei la ga bele man. ― Poi gridò: ― Ala, Toni, scuminziemo!

Lo zio di Vila, il padron di casa, pulì un bicchiere con la fodera della giacca e m’offrì da bere. Bevvi.

Zappavano l’uva, curvi, aggrappati sull’orlo del tino, anelando come i taglialegna. Le gambe pelose, rosse, alternavan la battuta con frenesia, e il tino si squassava sotto i colpi. Gli acini e i gusci e il succo schizzavano tra le larghe dita dei piedi. Vila stava dritta, tenendosi sul tino. Le sue unghie eran diventate rosse.

Poi le gambe degli zappatori scomparvero fino alla coscia nello sguazzacchio vinoso. Il doppio colpo divenne metodico, come di stantuffo. Pesante e uguale.

Lo zio di Vila beveva, radendosi il succo dai mustacchi setolosi con il dorso della mano. Il suo grifo era rosso.

[p. 22 modifica]Il mosto bolliva nelle botti aperte, sciamante di moscerini ubbriachi. Assorbivo un caldissimo odore asfissiante. Gli uomini s’accendevano. Rovesciarono una brenta piena di mosto, e il vino schizzò a ondata sull’uomo e sul muro, corse a rivoletti impetuosi, tinse la gatta spaurita. Uno si buttò per terra a sorbire la motriglia vinosa.

Il padron di casa bestemmiò, rise, mi tese un bicchiere di mosto. Bruciava. La cantina era bassa e rossastra.

― Vila, un toco de legno per la bota!

Io corsi prima di lei, per scappar via; ma ella mi rincorse. Pioveva. La notte era oscura e fangosa. Scridivano gli agostani. Mi prese per mano, e correndo mi baciò il braccio nudo, sgocciante d’acqua.

Io dissi: ― Vila ― a bassa voce, meravigliato.

Nella cantina gli uomini zappavano ritmicamente, il padron di casa beveva, la gatta si leccava il pelo intriso.

Mi sedetti contento per terra. Correvo per una lunga strada piena di sole. Correvo, correvo.

Quando il sole è alto nel luglio, correndo nei prati l’uomo si ferma perchè il respiro è pieno d’un veleno e d’un calore così dolci e forti ch’egli deve sdraiarsi nel sole e dormire. Chiude gli occhi, e le palpebre gli fiammeggiano come un cielo infocato, e da tutte le parti s’alzano vampate immense barcollanti d’albero in albero. L’aria trema inquieta nell’arsura.

Ma m’alzai furioso e corsi in campagna, gridando come un falco ch’abbia lasciato per la prima volta il suo nido.

[p. 23 modifica] La sua camera aveva un intonaco a stampi rossocinerini, mattoni slabbrati per pavimento, un pianoforte coperto da un canovaccio crocettato, un letto, un armadio con su boccette medicinali e una civetta impagliata. Una lastra della finestra era di latta rugginosa, con un foro per il tubo della stufa. Siccome il foro s’era slargato, d’inverno, quando mettevano la stufa, Vila incasava con le punte delle forbici un po’ di stracci intorno al tubo. E fumigavano.

Non era bella la casa dove stava Vila! Io entravo come un ladro inesperto, ripiegato in tasca il mio frustino da cani, il mio bel frustino che schioccava con un colpo secco come d’acciaio, camminando lesto in punta di piedi, trattenendo il respiro. L’aria odorava di muffa, di polvere, di vino. Qualche volta la porta dell’ultima camera in fondo, vicina a quella di Vila, era aperta, e Vila la chiudeva subito. Era un disordine tanfoso di stracci, bottiglie, cassette, con le pareti scrostate dall’umido, e ci dormiva la vecia, la mamma del padron di casa, gottosa, reumatica, gonfia, con baffi neri sul grosso labbro.

La vecia io non la vedevo che di domenica, quando seduti intorno alla tavola del salotto, bimbi e babe e il fratello del padron di casa, tutto contento se vinceva un soldo, giocavamo a tombola. Essa non si poteva muovere. Era seduta su una poltrona portatile, con ruote, e teneva la destra, grassa come una pera che si sfà, accanto alla cartella, sul mucchio dei vetrini segnanumeri. Quando doveva pagare la cartella, Vila le si accostava, le metteva la mano dietro alla schiena e tirava fuori un sacchetto gonfio di tela grezza, chiuso con spago. La vecia aveva gli [p. 24 modifica]occhietti di un barbagianni di giorno: erano cattivi e fermi. Io li sfuggivo. Quando seduto accanto a Vila, ginocchio a ginocchio, facevo finta di giocare, sapevo che quella vecia vedeva tutto, anche ciò che gli altri non vedevano, e ci odiava tutti, ma non poteva alzarsi. Avevo schifo di lei, e non mi fece niente pietà quando un giorno Vila mi disse che lo zio sputava in faccia alla mamma.

Lo zio era il terrore di tutti. Non era cattivo. Ma beveva rum, e in rabbia, sputava addosso alla gente e bestemmiava sempre sporcamente. ― Ma io non voglio parlare di questa genía! Io voglio bene a Vila. Vila è buona e bella. Ha una camicia rossa scarlatta, un berrettino da giochei, scarpettine con tacco alto, e quando gioca a tamburello salta meravigliosamente da una parte all’altra.

Secchi, netti colpi battevamo col tamburello nell’ampio piazzale davanti alla grande casa gialla! Quando Scipio e Vila giocano, gl’inquilini guardano sorridenti dalle finestre e gridano: ― Bravo! bene! ― La palla rota come un punto di fuoco da me a lei, da lei a me: ― stan ― e stan; stan ― e stan. Dice il colpo: ti voglio bene. Risponde il colpo: ti voglio bene. Il sole è alto. È l’estate, amore.

Cari tempi erano quelli, amorosi e gloriosi. Mia era Vila, una signorina, Vila amata da Ucio, corteggiata da tutti i ragazzi della campagna. Riceveva cartoline da ricchi giovanotti, da studenti delle lontane università; ma ella rideva con me e mi baciava. Era mia. Io solo andavo con lei per la campagna, in cerca delle gocce di gomma sui tronchi dei susini, dei quadrifogli nell’erba, coprendola colle mie braccia quando pioveva.

[p. 25 modifica] Mi accompagnava nelle scorrerie ladresche oltre il confine della campagna, temendo quando scalavo cauto i muri sconnessi che minacciavan rovina. Portavo per lei, fra le labbra, la più bella pera, ed essa mi calava sui suoi ginocchi e mi baciava avidamente.

Io ero come un piccolo signore. Ero felice che lei godesse della mia forza e della mia temerarietà. Perchè avevo undici anni, ma neanche i contadini mi sapevano agguantare in corsa, e scalai il pioppo e l’elianto che tutti dichiaravano impossibili. Il padrone di casa mi dette in premio cinque bottiglie di vino; Vila mi sorrideva impaurita dalla finestra. Era il crepuscolo. Sotto l’albero i compagni scoppiarono in urli di evviva, e io, sfinito, temevo il vento come un uccello senz’ali, e guardavo superbo le case della città che s’accendevano di punti giallastri.

Ah, se ora che Vila è sposata e ha due, tre figlioli che forse leggono già quello che io scrivo per i bambini, ed è più bella, assai più bella d’allora, giovane mamma contenta, e non mi guarda nemmeno quand’io passo arrossendo accanto a lei, si ricordasse dei nostri due anni spensierati! E la caccia col flobert ai merli e alle gatte? C’era quella civetta impagliata in camera tua, con l’ali chiuse e inchinata un po’ sullo stecco, solenne come una persona a modo. Aveva i gialli occhi di vetro, chiari nel semibuio della stanza, tondi, come un bersaglio. E un giorno tu caricasti misteriosamente il flobert e stic! un occhio si spaccò. Ricordi? E io ti guardavo felice e meravigliato.

[p. 26 modifica] E un giorno ti dissi: ― Vila, no ti xe più quela de una volta.

E tutto finì.

Ero stufo di lei. Aveva dei gusti strani che mi toglievano la libertà. Quando assieme ai compagni si dava la caccia con pali e forconi a un cane rinselvatichito, Vila d’improvviso s’arrampicava su un albero, e mi pregava: ― Vien su. ― Io m’arrampicavo, e guardavo dalle cime alte, scotendole stizzoso. ― Vien qua, dai! ― E m’accarezzava i capelli e il collo; poi mi baciava: e io sentivo le urlate dei compagni in caccia e i ringhi sfiniti del cane.

Forse anche, Vila non m’amava, non m’aveva mai amato. Avevo lievissimi sospetti; un colpo di sangue, e sparivano. Io non so com’era di me. A volte mi buttavo sull’erba, stanco e scontento. Ero inquieto e mi sarebbe piaciuto star qualche volta solo, benchè avessi bisogno di sentirmela vicina. E perciò, quando le dissi, quasi senza sapere, quelle strane parole, non capii perchè le avevo dette e per rabbia misi la mano dentro una siepe di rovo. Vila stette zitta. Io fissavo alcune piccole cose sul terreno: un ramettino rotto irregolarmente con due foglie passe e raggricciate, un batuffoletto di seta del pioppo, che s’estendeva tutt’intorno in lenti filamenti argentei per l’opera predace di decine di formiche. Ella alzò gli occhi e mi guardò a lungo. Io sentivo un silenzio che non finiva più e che mi seccava assai.

Allora la presi fra le braccia con forza, e Vila perdonò. Fummo beati e pieni di amore per tutta la giornata.

Ma la mattina dopo Vila mi fuggì. Correndo a perdifiato io l’accerchiai di lontano e sbucai fuori da un [p. 27 modifica]cespuglio davanti a lei. La presi per i polsi e le dissi duro: ― Coss’ti ga? ― Ti ga volù ti. ― Si svincolò, e andò via. Poi, dopo qualche settimana, l’incontrai, mi prese le mani e le baciò.

Io fui subito contento di non esser più con lei; ma avevo confusi desideri, non m’interessava niente, m’annoiavo. A volte, disteso per terra, con gli occhi semiaperti nel cielo, accarezzavo le giovani foglie, e d’un tratto m’avvoltolavo nell’erba dura dei prati.


Ucio è un giovanotto lungo e forte, le braccia pelose anche alla piegatura, i labbri tumidi, le gengive sanguinolente. Coltiva nel suo giardino begliomini, daglie s’ciave, crisantemi di S. Anna. Aveva bisogno d’un fondo per il cesto di fiori che annunziava pronto da cinque domeniche, e ha rubato la nostra tavola del bucato. Ma l’adoperò senza raschiar via il sapone incrostato. Aveva bisogno di rosai perchè noi lo burlavamo dei suoi fiori scempi, e li rubò dal nostro giardino, ma smarrendo sul terreno il gemello d’ottone matto della camicia. Babbo disse la domenica dopo in presenza di molta gente: ― Go trovà ‘sto botton. De chi ‘l xe? ― E Ucio esclamò: ― ‘l xe mio, ‘l xe mio!

Così è Ucio, ragazzone. Il suo rutto puzza d’aglio e le sue mani sono piote. Quando va a fare la scorreria in campagna, torna con la camicia carica di pere dure, strappate senza gambo, come vien vien, ruggini dall’unghie, fracide di sudore del suo ventre pratoso. Egli non [p. 28 modifica]sa distinguere il buono dal cattivo, e mangia fagioli e patate, e brontola dalle profondità: ― Xe bon, xe bon!

Ucio è innamorato di Vila. Dice: ― Vila xe ‘na stela. ― E poichè lo zio di Vila l’ha cacciata infamemente dalla campagna, Ucio cammina a grandi passi su e giù per il piazzale, poi si stravacca di schianto sulla panca e giura vendetta.

Io ci sto. Ottima cosa è la vendetta! Sgusciare di notte tra gli spini della siepe con una lunga stanga in mano e la roncola in tasca! La notte è fonda e muta. Ormai tutti dormono. Le persiane del padron di casa sono chiuse. I cani abbaiano dall’altra parte della campagna.

Ucio dà una risata e diventa bestia. Agguanta la prima vite che trova e la stronca netta. Agguanta un ramo carico di susine e lo divarica puntandosi con le zampe sul tronco; poi piomba a terra con lui. Tonfa un enorme pietrone fra le crote dello stagno che gracidano a squarciapancia, e l’acqua putrida schizza e l’inonda. Si scuote, con una scarponata schianta il pesco nano e si slancia avanti sghignazzando come un satiro in fregola.

Viva la vendetta! Ma io sono quieto e maligno. Apro silenziosamente la roncola, e incido la vite sottoterra perchè muoia e nessuno saprà perchè. D’una stangata rompo la cima del pero, e m’acquatto di colpo per timore che il crac svegli qualcuno.

Silenzio. Le rane. I cani lontano. Una stella cadente.

Ucio chiama dal melo. Egli divora e stronca: per ogni pomo un ramo. Io unghio fondo, uno per uno, i grandi pomi che piacciono molto al padron di casa. Mi lecco le unghie.

[p. 29 modifica] Ah? Ucio! come la cacciò via, ah?!

Era una notte come questa. Gridarono nel quartiere del padrone. Il nostro campanello sonò disperatamente. Balzo a sedere sul letto, l’uscio di babbo s’apre, apre la porta. Vila si precipita in camicia piangente: ― El me copa, ‘l me copa. El me cori drio col s’ciopo.

Papà incatenacciò l’uscio. Disse calmo: ― Qua drento no vien nissun. La se calmi. ― Vila tremava e si torceva le mani.

― I me lassi andar, i me lassi andar, li prego. No ‘l me fa niente. I scusi. No sapevo de chi andar. Ah dio, dio!

Un pugno sulla porta: ― Vila!! ― Vila saltò su; papà la fece sedere e andò ad aprire. Non c’era più nessuno. Ma Vila scappò via, corse dalla famiglia di Ucio, poi rivolò giù a casa sua.

― Porca! puttana! Fora de qua, fora! Va de quela scrova de to mare! Fora!

E la cacciò via di notte, con la serva e un fagotto di biancheria, minacciandola dalla finestra con il duecanne.

― Ah? Ucio?!

Ricordiamo e ci narriamo godendo della scena drammatica, e poi decidiamo a freddo di rislanciarci alla devastazione. Ucio infuriò come la grandine e la bora. Io ero già annoiato, e mangiando un grappolo d’uva pensavo: ― Lavora, lavora, Ucio! Vila iera mia.

Povero Ucio. Io andai in villeggiatura, in Italia, oltre il confine, oltre il ponte dell’Iudrio; e Ucio intanto, per la vendetta, bersagliò con il flobert un fanale della carrozza del padron di casa, e ci lasciò dentro la palla. La [p. 30 modifica]sua famiglia fu mandata via dalla campagna. Io gli scrissi: ― Caro Ucio, quando c’è un solo flobert 6 mm. in campagna, dopo tirato bisogna levar la palla dal fanale. ― E così a me il padron di casa voleva molto bene, e quando stetti male mi condusse spesso a caccia.


Perchè avevo terribile mal di capo. Ero cresciuto troppo presto, e letto e studiato troppo nella convalescenza del tifo. Mi condussero da un dottore che mi visitò tutto, poi si levò gli occhiali e mi guardò fisso negli occhi.

Fu uno sguardo lungo e una lotta zitta fra me e lui. Io l’odiai fortemente perchè egli vedeva oltre la mia aria da malato. Non aveva pietà di me. Solo in quel momento m’accorsi d’aver sempre esagerato con molta verità l’emicrania. E lo guardai in viso, come a dirgli: ― Io non sto male, sto benissimo, sono pigro, ecco, semplicemente. Mi secca andare a scuola. ― Sentivo il sangue corrermi più sano nelle vene, rialzai di colpo il capo un po’ inclinato in atto di debolezza: ero pieno di salute e di forza. Egli mi guardò a lungo, dubbioso, severo e quasi maligno; poi mi proibì la scuola e m’ordinò vita selvaggia. Avevo vinto.

Perchè voi non sapete quant’astuzia s’impara guardando come un’ape entra in un fiore e il ragno chiappa la mosca. Voi non sapete come un ragazzo possa, obbedendo, costringere i genitori a fare quello ch’egli vuole. Il nostro mondo raffinato è molto ingenuo. Basta che voi vi fabbrichiate una situazione in cui è ormai stabilito come ognuno degli altri si deve comportare. Se per esempio uno scolaro sviene all’esame di greco, non c’è professore che [p. 31 modifica]abbia l’audacia di non credergli, di fargli ripetere l’esame e bocciarlo. Ognuno può pensare, dentro di sè, come vuole, ma v’assicuro che ognuno finisce per credere a ciò che per convenienza deve fare. E così lo scolaro lo portano in quattro nella sala della direzione, lo posano con le gambe alte sul bracciolo del sofà, gli slacciano la cravatta, il vecchio bidello accorre barcollando con la cassetta croce-rossa, gli toccano il polso, lo spruzzano. ― Ma voi non sapete trattenere il respiro per un minuto. Ah se un barbaro venisse tra noi, compagni miei, come ci metterebbe tutti in sacco!

Ma questo si dice a cose finite. In realtà io ero ammalato sul serio di anemia cerebrale e vissi per sei mesi continuamente in carso. Fu allora che scopersi per la prima volta il mio carso.


Mi conosceva la terra su cui dormivo le mie notti profonde, e il grande cielo sonante del mio grido vittorioso, quando sobbalzando con l’acque giù per i torrenti spaccati o franando dai colli in turbine di lavine e terriccio, d’un colpo di piede rompevo la corsa per cogliere il piccolo fiore cilestrino.

Correvo col vento espandendomi a valle, saltando allegramente i muriccioli e i gineprai, trascorrendo, fiondata sibilante. Risbalestrato da tronco a frasca, atterrato dritto sulle ceppaie e sul terreno, risbalzavo in uno scatto furibondo e romoreggiavo nella foresta come un fiume che scavi il suo letto. E dischiomando con rabbia l’ultima frasca ostacolante, ne piombavo fuori, i capelli irti di [p. 32 modifica]stecchi e foglie, stracciato il viso, ma l’anima larga e fresca come la bianca fuga dei colombi impauriti dai miei aspri gridi d’aizzamento.

E ansante mi buttavo a capofitto nel fiume per dissetarmi la pelle, inzupparmi d’acqua la gola, le narici, gli occhi e m’ingorgavo di sorsate enormi, notando sott’acqua a bocca spalancata come un luccio. Andavo contro corrente abbrancando nella bracciata i rigurgiti che s’abbattevano spumeggianti contro il mio corpo, addentando l’ondata vispa, come un ciuffo d’erba fiorita quando si sale in montagna. E l’ondata mi strappava giù a scossoni, svoltolandomi nella correntía e mi rompevo sul fondo ripercotendomi al sole, strascinato per un tratto sulle erte rive, fra radici e sassi invano inghermigliati. Poi m’affondavo, e carrucolandomi per gli scogli rimontavo sfinito la corrente.

Il sole sul mio corpo sgocciolante! il caldo sole sulla carne nuda, affondata nell’aspre eriche e timi e mente, fra il ronzo delle api tutt’oro! Allargavo smisuratamente le braccia per possedere tutta la terra, e la fendevo con lo sterno per coniugarmi a lei e rotare con la sua enorme voluta nel cielo ― fermo, come una montagna radicata dentro al suo cuore da un’ossatura di pietra, come un pianoro vigilante solo nell’arsura agostana, e una valle assopita caldamente nel suo seno, una collina corsa dal succhio d’infinite radici profondissime, sgorganti alla sommità in mille fiori irrequieti e folli.

E a mezzo mese, nell’ora in cui la luna emerge dal lontano cespuglio e si fa strada fra le nubi, candida e limpida come un prato di giunchiglie in mezzo al bosco, io [p. 33 modifica]mi sentivo adagiato in una dolce diffusità misteriosa, come in un tremore di quieto sogno infinito.

Conoscevo il terreno come la lingua la bocca. Camminando guardavo tutto con affetto fraterno. La terra ha mille segreti. Ogni passo era una scoperta. In ogni luogo sapevo l’ombra più folta e la più vicina caverna quando mi coglieva la piova.

Amo la piova pesa e violenta. Vien giù staccando le foglie deboli. L’aria e la terra è piena di un trepestio serrato che pare una mandra di torelli. L’uomo si sente come dopo scosso un giogo. Ai primi goccioloni balzo in piedi, allargando le narici. Ecco l’acqua, la buona acqua, la grande libertà.

L’acqua è buona e fresca. Invade ogni cosa. La pietra se ne inumidisce bollendo. Se si mette il dito nell’umidiccio e intorno ai fusti, si sente come le radici la poppano. Tutte le vite in patimento respirano libere.

Perchè la terra ha mille patimenti. Su ogni creatura pesa un sasso o un ramo stroncato o una foglia più grande o il terriccio d’una talpa o il passo di qualche animale. Tutti i tronchi hanno una cicatrice o una ferita. Io mi sdraiavo bocconi sul prato, guardando nell’intorcigliamento dell’erbe, e a volte ero triste.

Triste delle belle creature della terra. Io le conoscevo. Le mie mani sapevano le fonde spaccature estive dove lo zinzino occhieggia all’orlo con le sue lunghe antenne, e basta un fuscello o un soffio a farlo tracollar dentro; i muriccioli di sabbia con cui il filo d’acqua s’argina maestosamente; e seducevo la formica carica a salir su una larga foglia di platano per deporla cautamente al di là [p. 34 modifica]l’alpe. Tutto m’era fraterno. Amavo le farfalle in amore impigliate nella trama nerastra del rovo, sbattenti disperatamente le ali in una pioggia di bianco pulviscolo, il bel ragno vellutato dalle secche zampe che sfilava nell’aria tremula il suo filo argentino perchè s’incollasse sulla peluria uncinata di una foglia, e tentava con la zampina il filo per slanciarvisi dritto e tessere l’elastica tela. Ronzava disperata nel mio pugno la mosca colta a volo; accarezzavo il bruco liscio e fresco che si raggrinziva come una fogliolina secca; tenevo avvinta per le grandi ali cilestrine la libellula; affondavo il braccio nell’acqua per sollevar di colpo in aria il rospicino dalla pancia giallonera; tentava di ritorcersi l’addome della vespa contro le mie dita e partorirvi il pungiglione. Squarciavo a sassate le biscie.

Sorridevo agli sbalzelli alati dei moscerini, tagliati dal colpo imperioso d’una mosca smeraldina, al pispillare roteante delle rondini, alle nuvole che si trastullano nella luce, rabbrividenti pudiche sotto le fredde dita curiose del vento, alla foglia navigante con rulli e beccheggi nell’aria, alle stelle germoglianti nel cielo quando col vespero si diffonde sul mondo un tepore leggero come fiato primaverile.

Scivolando negli arbusti, tenendomi agganciato al masso dirupante con due dita artigliate in una ferita muscosa della pietra, palpeggiando e sguazzacchiando con la palma aperta sull’orlo degli stagni, andavo spiando la nascita della primavera. Nel nascondiglio più benigno del boschetto, in un calduccio umido di seccume, ancora ancora quasi riscaldato dal sonno d’una lepre, io frugando [p. 35 modifica]trovavo la prima primola, il primo raggio di sole! l’occhio stupito della piccola primavera svegliata! E seguivo l’ondeggiar lieve del suo passo, annusando come cane in traccia, fra radici gonfie e germogli diafani, dietro un alioso sbuffo di rugiade erbose, di terra umida, di lombrichi, di succhi gommosi; un odor di latte vegetale, di mandorle amare ― eccolo qui il sorriso roseo dei peschi, incerto com’alba invernale, cara, cara! e scuoto freneticamente questo tronco e quello e questo, spargendomi di petali e di profumi. Per terra schizzano violacee pozzerelle d’acqua, e il passerotto vi frulla con le ali, a becco aperto. Dolce amata mia, primavera!


Qualche volta mi fermavo nel bosco e alzavo il capo verso gli alberi alti e allineati. Udivo sgricciar una foglia, cader una coccola, un pigolío. Poi tutto era silenzio. Io non mi movevo.

Avevo voglia di buttarmi su uno di quei tronchi, stringerlo fra le braccia, stare con lui. Ma avevo paura di far strepito.

Cercavo lentamente con gli occhi una farfalla, un insetto. Niente si moveva. Qualche cosa era nascosta nel fogliame, mi guardava, e io non la vedevo.

Nel bosco rimparai a pregare. Dicevo: ― Dio voglimi bene; Dio voglimi bene. ― Una volta mi buttai per terra e piansi a lungo.

Salto e sbalzo verso il lembo aperto di cielo. Sotto il sole lampeggia e rutila in fondo il dolce ricordo. Dove vado? Lontana è la patria, e il nido disfatto. Ma il vento [p. 36 modifica]trascorre con me, desiderando, oltre il margine roccioso del carso, e sono sopra il mare, la larga strada del vento e del sole.

Io sono nato nella grande pianura dove il vento corre tra l’alte erbe inumidendosi le labbra come un giovane cerbiatto, e io l’inseguivo a mani tese, ed emergevo col caldo viso nel cielo. Lontana è la patria; ma il mare luccica di sole, e infinito è il mondo di là del mare.

E la fertilità della terra sgorga pregna di succo nelle grandi foglie carnose e accende di vermiglio i pomi tondi sulle piante intrecciate fra loro, empiendo di gioia l’anima degli uomini.

Calda è la messe d’oro, e il profumo dei cedri e delle magnolie ha colto l’uomo nella sua fatica, ond’egli s’è ripiegato sulle spighe e dorme ravvolto nel sole.

Pennadoro, nuovovenuto, se tu non dormi, tua è la terra del sole.


Il monte Kâl è una pietraia. Ma io sto bene su lui. Il mio cappotto aderisce sui sassi come carne su bragia; e se premo, egli non cede: sì le mie mani s’incavano contro i suoi spigoli che vogliono congiungersi con le mie ossa. Io sono come te freddo e nudo, fratello. Sono solo e infecondo.

Fratello, su di te passa il sole e il polline, ma tu non fiorisci. E il ghiaccio ti spacca in solchi dritti la pelle, e non sanguini; e non esprimi una pianta per trattenere le nuvole primaverili che sfiorandoti passano oltre e vanno [p. 37 modifica]laggiù. Ma l’aria ti abbraccia e ti gravita come grossa coperta su maschio che aspetti invano l’amante.

Immobile. La bora aguzza di schegge mi frusta e mi strappa le orecchie. Ho i capelli come aghi di ginepro, e gli occhi sanguinosi e la bocca arida si spalancano in una risata. Bella è la bora. È il tuo respiro, fratello gigante. Dilati rabbioso il tuo fiato nello spazio e i tronchi si squarciano dalla terra e il mare, gonfiato dalle profondità, si rovescia mostruoso contro il cielo. Scricchia e turbina la città quando tu disfreni la tua rauca anima. Fratello, con la tua grande anima io voglio scendere laggiù.

Perdonami s’io balzo su come tu non puoi e t’abbandono. È come se d’improvviso una fonte t’infertilisse sgorgandoti dentro il cuore. Gorgoglia e fiotta la nostalgia irrequieta. Ho desiderio d’andare, fratello. Ho desiderio di possedere grandi campi di frumento e prati ombrosi. La patria è laggiù. Bisogna ch’io sia fratello d’altre creature che tu non conosci, che io non conosco, monte Kâl, ma vivono unite laggiù dove calano le nuvole turgide di piova.

Anni giovani, che vi spalancate tremando come corolle di violette nella neve, dove volete gioiosi portarmi? Alzo le braccia e le riabbasso freneticamente come se avessi ali, e a ogni colpo i miei denti aggrappassero materia più leggera e tanto diafana che l’anima mi si spandesse a formar l’alba d’una nuova vita. E sbalzo sul suolo, ripercosso dallo stesso monte che mi comprende e m’aiuta. Calo giù.

La bora mi schiaffa a ondate nella schiena e piombo, torrentaccio. I sassi voltolano e rotolano rombando. Ogni [p. 38 modifica]passo è nuovo, chè se il piede trova traccia si storce e stracolla. Giù. Il petto rompe a sperone l’aria. Giù, scivolando: un volo fino al ramo prossimo, al ciuffo d’erba che ― un dito toccandolo ― mi tiene in piedi. Scatta il sasso in bilico per buttarmi a rovina, s’apre in dirupo la terra per accogliermi sfragellato; ma le mie gambe sono dure e flessibili. Così calava Alboino.

Lichene sotto ai piedi, scricchiolante, rigido; erba giallastra come foglie morte; un querciolo torto, e eccoli i piccoli verdi pini che ondeggiano la testa come bimbi dubitosi. Stretti e intrecciati, così che i piedi s’impastoiano, e com’io mi chino ad aprirmi la strada mi punzecchiano pruriginosi le guance. Procedo: sono tra i pini giganti. Un contadino con la frusta di pastore si ferma e mi guarda.

Mongolo, dagli zigomi duri e gonfi come sassi coperti appena dalla terra, cane dagli occhi cilestrini. Che mi guardi? Tu stai istupidito, mentre ti rubano gli aridi pascoli, i paurosi della tua bora. Barbara è la tua anima, ma sol che la città ti compri cinque soldi di latte te la rende soffice, come le tue ginepraie se tu vi cavi un palmo di macigno. Fermo nel bosco, intontito, aspetti che si compia il tuo destino. Che fai, cane! Oh diventa carogna putrida a impinguare il tuo carso infecondo. Calcare che si sfà e si scrosta e frana, tu sei, terriccio futuro. Di’, sloveno! quanti narcisi produrrai tu questa primavera per le dame del Caffè Specchi?

S’ciavo, vuoi venire con me? Io ti faccio padrone delle grandi campagne sul mare. Lontana è la nostra [p. 39 modifica]pianura, ma il mare è ricco e bello. E tu devi esserne il padrone.

Perchè tu sei slavo, figliolo della nuova razza. Sei venuto nelle terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai tolto di mano la rete al pescatore veneziano, e ti sei fatto marinaio, tu figliolo della terra. Tu sei costante e parco. Sei forte e paziente. Per lunghi lunghi anni ti sputarono in viso la tua schiavitù; ma anche la tua ora è venuta. È tempo che tu sia padrone.

Perchè tu sei slavo, figliolo della grande razza futura. Tu sei fratello del contadino russo che presto verrà nelle città sfinite a predicare il nuovo vangelo di Cristo; e sei fratello dell’aiduco montenegrino che liberò la patria dagli osmani; e tua è la forza che armò le galere di Venezia, e la grande, la prosperosa, la ricca Boemia è tua. Fratello di Marko Kraglievich tu sei, sloveno bifolco. Molti secoli giacque Marko nella sua tomba sul colle, e molti di noi lo credettero morto, per sempre morto. Ma la sua spada è risbalzata ora fuor dal mare e Marko è risorto. Trieste deve esserti la nuova Venezia. Brucia i boschi e vieni con me.

Lo sloveno mi guarda seccato. ― Brucia i boschi che gli italiani, gente sfatta di venti secoli, portarono qui per potere andare a sentire la conferenza di Donna Paola e entrar nella Borsa senza bora! ― Lo sloveno mi dà un’occhiata sghignante, taglia un ramo, estrae di tasca vecchi fiammiferi che ardon con lenta fiamma violetta, e accende paziente il foco. Io l’aizzo, ma egli fa un passatempo di pastore; io l’aizzo come se fossi slavo di sangue.

[p. 40 modifica]O Italia no, no! Quando il boschetto cominciò ad ardere, io m’impaurii e volli correre per soccorso. Ma egli mi disse: ― Xe lontan i pompieri ― ; sorrise lentamente, raccolse la frusta, e andò spingendo le quattro vacche.

Io mi sdraiai, sfinito. «Così calava Alboino!»

Povero sangue italiano, sangue di gatto addomesticato. È inutile appiattarsi e guatare e balzare con unghioni tesi contro la preda: la polpetta preparata è ferma nel piatto. Tu sei malato d’anemia cerebrale, povero sangue italiano, e il tuo carso non rigenera più la tua città. Sdràiati sul lastrico delle tue strade e aspetta che il nuovo secolo ti calpesti.

Così stagnai, acqua marcia. E il bosco ardeva e la bella fiamma crepitante insanguinava il cielo.

All’alba rinacqui. Non so come fu. Il cielo era puro e io scorsi la bella bianca città laggiù, e la terra arata. E di un balzo, come chi abbia visto Dio, mi buttai su di lei. Sparito era il sogno e l’incubo: perchè io sono più che Alboino.

Tremando mi caccio nel solco e mi ricopro della terra gravida, sconvolgendo la sementa. E questo tocco di zolla ghiacciata io l’addento come pane. Sotto, pulsano le radici. E la mia anima veramente s’allarga come acqua in una conca immensa, e sento che un albero lontano sussulta per il vento comprimendo intorno a sè la terra, e certo quest’idea che mi nasce è la prima primola nei campi.

A carponi e a tentoni cerco le cose, sbarrando gli occhi, e i rami invernali pingui di gemme contenute, gli stecchi senza linfa del vigneto, la terra ghiaiosa che mi [p. 41 modifica]preme i calzoni sul ginocchio, tutto freme com’io lo tocco, perchè io sono la primavera.

Rose, rose, rose. E io pungendomi colgo e empio di rose la mia via. Di qui passerà un giorno ella e mi troverà seguendo la rossa traccia. Ah anima amata, è nato oggi nel mondo un poeta, e t’attende.

È nato un poeta che ama le belle creature della terra perchè egli deve ridare puro il loro torbido pensiero, come acqua succhiata dal sole. E ruba e stronca dalle belle creature della terra perchè egli non è pietoso e sa soltanto di dover nutrire di sangue vivo. Troppe mammelle di latte nel mondo, e la forza vitale è debole e accasciata, e gli uomini si lagnano d’essere vivi.


Nella mia città facevano dimostrazione per l’università italiana a Trieste. Camminavano a braccetto, a otto a otto; gridavano: viva l’università italiana a Trieste, e strisciavano i piedi per dar noia alle guardie. Allora mi misi anch’io nelle prime file della colonna, e strisciai anch’io i piedi. S’andava così giù per l’Acquedotto.

A un tratto la prima fila si fermò e dette indietro. Dal caffè Chiozza marciavano contro noi in doppia, larga fila i gendarmi, baionetta inastata. Marciavano come in piazza d’armi, a gambe rigide, con lunga cadenza, impassibili. Ognuno di noi sentì che nessun ostacolo poteva fermarli. Dovevano andare avanti finchè l’Imperatore non avesse detto: halt! Dietro quei gendarmi c’era tutto l’impero austrungarico. C’era la forza che aveva tenuto nel suo pugno il mondo. C’era la volontà d’un’enorme [p. 42 modifica]monarchia dalla Polonia alla Grecia, dalla Russia all’Italia. C’era Carlo Quinto e Bismarck. Ognuno di noi sentì questo, e tutti scapparono via interroriti, pallidi, spingendo, urtando, perdendo bastoni e cappelli.

Io rimasi a guardarli con meraviglia. Marciavano dritti avanti, senza sorridere, senza ridere. La gente che scappava era per loro lo stesso che la compatta colonna che marciava per l’università italiana. Io rimasi fermo a guardarli, e fui arrestato.

Un gendarme mi prese per il polso sinistro e andammo. Era una cosa molto strana. Egli continuava a camminare del suo passo; io cercavo d’imitarglielo. Gli occhi della gente che passava mi percorrevan tutto come gocce fredde nella schiena, dandomi un brivido, tanto che il gendarme pensò: Der Kerl hat Furcht. Ma forse non pensò niente, e continuava a camminare del suo passo. Ricordo benissimo che un giovanotto passando estrasse la destra inguantata per arricciarsi il mostacchio destro, poi tirò fuori la sinistra per arricciarsi il mostacchio sinistro. Io avevo voltato la testa per vederlo, sì che, il gendarme procedendo, mi sentii tirare avanti. Una donna, con un bel boa, torse gli occhi, ma vidi che rideva. Perchè mi lascio condurre da questo imbecille?

Ha le spalline grosse, giallonere. Perchè non lasciarmi condurre da lui? Si va dove non so, ma non è necessario ch’io sappia. Mi conduce lui, svolta, scantona, e i miei piedi si pongono sempre paralleli ai suoi. La baionetta scintilla molto lucida. È carico il tuo schioppo?

Perchè non mi risponde? E un garzone di beccaio, invece di far due passi di più, salta oltre la panca di [p. 43 modifica]passeggio, e il grembiule macchiato di sangue vecchio si gonfia e sbatte svolazzando. Appena siamo passati ci guarda e urla: ― Dèghe al giandarmo! ― Scappa.

Io vedo bene pulsare l’arteria nel collo di questo imbecille. E le mie mani sono molto lunghe, e sono come ossa ai polpastrelli. E non c’è gente. Alboino... Ma io sono più che Alboino. Io sono più che Bismarck. Io stringo insensibilmente il pollice dentro le altre dita e faccio della mano una più sottile prolungazione del polso. Lentamente scivolo fra le sue dita rallentate per il freddo. Intanto parlo: ― Triste vita la loro! Chè! capisco bene che lei fa il suo dovere. Quante ore di servizio hanno? otto? consecutive? e lassù in carso, con tutti i tempi, di notte. ― Nella gola mi cantano alcune parole fresche che la mia bella veciota venesiana me l’insegnò: Nè per torto nè per rason, no state far meter in preson. ― Guardo negli occhi il gendarme, strappo, via. Viva la libertà! Io sono italiano.

Neanche mi rincorse. E io, dopo duecento metri di corsa furiosa, rimasi male a vederlo impalato, lontano. Poi riprese la sua marcia cadenzata, toc, tac, in direzione opposta.

Toc, tac, pare che s’avvicini, che sia qui dietro a me, con la sua mano sulla mia spalla. Filai in un portone: nel casotto del portinaio c’è un cranio calvo, assiepato da una corona di capelli fini, di bimbo, curvo su una scarpetta da signora. Esco; mi pianto la berretta più salda in testa, mi ravvolgo nella mia mantella e cammino picchiando con forza il lastrico, come se tra esso e i miei scarponi sia qualche cosa che bisogna vincere.

[p. 44 modifica]Poi corsi al mare.

Nel mare mi lavai il viso e le mani. Bevvi l’acqua salsa del nostro Adriatico. Lontano, nel tramonto, le alpi italiane eran rosse e oro come dolomiti. Sui trabaccoli romagnoli calavano le allegre bandiere tricolori, e il focolaietto di bordo fumava per la polenta. Mare nostro. Respirai libero e felice come dopo un’intensa preghiera.

Ma m’accorsi, dopo, che la gente mi guardava. I miei scarponi bullettati erano polverosi e i miei atti curiosi. Non avevo il viso di quella gente perfetta che camminava su e giù per le rive senza andare in nessun posto. Era gente che guardava ed era guardata. I giovanotti avevano larghi soprabiti a campana, con di dietro un taglio lungo, come le giubbe dei servitori, e bastoni grossi e lievi che volevano sembrare rami appena scorzati. Le signorine erano accompagnate dal babbo o dalla mamma, e avevano stivalini lustri come i dorsi delle blatte. Erano stivalini assai più puliti e limpidi che i loro occhi. Anch’esse mi guardavano, con contegno; ma s’io le guardavo, voltavan gli occhi. Non sanno sostenere uno sguardo d’uomo.

Ora in questo via vai i giovanotti schivavano le signorine con accortezza in modo da sfregarle un poco, ma non tanto che alcuno potesse dire un bada a te. In generale tutti sorridevano e si levavano a ogni cinque passi il cappello inchinandosi leggermente di schiena. Io li guardavo meravigliato, e mi cacciavo tra loro, stordito dal trepestio e bisbiglio di quell’andar senza ragione.

Andai lentamente per la città, trasportato dal loro lento fluire. Difficile è camminare tra gente inoperosa. Quello che precede si ferma d’un tratto; un’altra esce di [p. 45 modifica]bottega con la testa rivolta a ringraziare il commesso che le ha sganciato dalla maniglia la manica a sbuffi; il terzo vuol camminare dietro a una signorina: tanto che io, stufo di schivare, misi le mani in tasca e camminai a linea retta facendo crocchiare le bullette sul lastrico. Stracciai una sottana e mi lasciaron camminare facendomi largo.

Ma anche così, non si è liberi camminando in città. Ogni vostro passo in città è controllato da spie che fanno finta di non vedere. I portinai dai portoni aperti adocchian, di sotto, chi entra; i caffeioli passano lunghe ore mirando le gambe della gente; la signora tiene stretta la borsetta badando a destra e a sinistra se alcuno le si avvicini. Nessuno si fida di nessuno, benchè tutti salutano tutti.

E benchè io sia coperto molto bene dalla mia mantella, questi occhi, questo controllo nascosto mi opprimono. I fanali s’accendono rossi sfolgoranti; le grandi case rettangolari incombono. Se mi sdraiassi sul selciato? Io sono stanco.

Mi volto bruscamente. Lassù è il monte Kâl. Perchè scesi?

Bene: ora sei qui. E qui devi vivere. Mi abbranco il petto con le mani per sentire se il mio corpo è, e resiste. E dunque avanti. Io voglio entrare nella taverna più lurida di Cità vecia.

Fumo e puzza. Soffoco. Ma accendo anch’io la pipa, fumo nel fumo, e sputo. ― Camarier! mezo quarto de petess. ― Anche l’acquavita io posso bere, se altri la bevono, e questo bicchiere è pulito, se altri possono accostarci le labbra e trincare. Sull’orlo di questo bicchiere ci [p. 46 modifica]può essere, invisibile, l’agonia per tutta la mia vita; ma io bevo. E alzo gli occhi sui miei compagni.

Un carbonaio, dalla spalla sinistra cresciuta come un enorme tumore, sputa chiazze nere. Una donna con peli duri sul labbro, spruzzati di cipria, si netta la bocca con le dita cicciose. Sotto la tavola lo scamiciato che le sta seduto dirimpetto le tira, freddo, una ginocchiata fra le gambe. Tra i capelli neri, unti, della padrona della bettola splende rosea al becco del gas una natta. La guardo oltre il fondo appannato del bicchiere.

― Camarier! ‘ncora mezo quarto! ― E picchio col pugno chiuso sulla tavola zoppa. Mi guardano, e continuano i loro discorsi.

Accanto a me due figuri con la giacca buttata sulla spalla e la camicia blu parlano d’una brocca di stagno, come fu rubata. Altri schiamazzano e cantano. Bene. Niente è qui strano, e tutto è duro e definito come gli spigoli del carso. S’io dò un pugno sul muso di quel facchino, lui mi tira due pugni. S’io faccio la filantropia schiavebianche a quella donna, essa mi risponde dandosi una manata sul culo. Sono tra ladri e assassini: ma se io balzo sul tavolo e Cristo mi infonde la parola io con essi distruggo il mondo e lo riedifico. Questa è la mia città. Qui sto bene.