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E un giorno ti dissi: ― Vila, no ti xe più quela de una volta.

E tutto finì.

Ero stufo di lei. Aveva dei gusti strani che mi toglievano la libertà. Quando assieme ai compagni si dava la caccia con pali e forconi a un cane rinselvatichito, Vila d’improvviso s’arrampicava su un albero, e mi pregava: ― Vien su. ― Io m’arrampicavo, e guardavo dalle cime alte, scotendole stizzoso. ― Vien qua, dai! ― E m’accarezzava i capelli e il collo; poi mi baciava: e io sentivo le urlate dei compagni in caccia e i ringhi sfiniti del cane.

Forse anche, Vila non m’amava, non m’aveva mai amato. Avevo lievissimi sospetti; un colpo di sangue, e sparivano. Io non so com’era di me. A volte mi buttavo sull’erba, stanco e scontento. Ero inquieto e mi sarebbe piaciuto star qualche volta solo, benchè avessi bisogno di sentirmela vicina. E perciò, quando le dissi, quasi senza sapere, quelle strane parole, non capii perchè le avevo dette e per rabbia misi la mano dentro una siepe di rovo. Vila stette zitta. Io fissavo alcune piccole cose sul terreno: un ramettino rotto irregolarmente con due foglie passe e raggricciate, un batuffoletto di seta del pioppo, che s’estendeva tutt’intorno in lenti filamenti argentei per l’opera predace di decine di formiche. Ella alzò gli occhi e mi guardò a lungo. Io sentivo un silenzio che non finiva più e che mi seccava assai.

Allora la presi fra le braccia con forza, e Vila perdonò. Fummo beati e pieni di amore per tutta la giornata.

Ma la mattina dopo Vila mi fuggì. Correndo a perdifiato io l’accerchiai di lontano e sbucai fuori da un cespu-